L’atto d’ufficio e l’atto contrario ai doveri d’ufficio nel reato di corruzione in atti giudiziari (L. Grande)

 

L’ATTO D’UFFICIO E L’ATTO CONTRARIO AI DOVERI D’UFFICIO NEL REATO DI CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI

Luca Grande

 

 

Per “atto d’ufficio” si intende  ogni atto che, promanando da un pubblico ufficiale (v. art. 357 c.p.), è espressione dell’esercizio di un potere amministrativo, legislativo od anche giudiziario.

Il tipico atto giudiziario che spesso è oggetto della fattispecie delittuosa di cui all’art. 319 ter c.p. è la sentenza pronunciata nei giudizi civili, penali od amministrativi: infatti, sovente accade che la sentenza possa essere oggetto di mercimonio ossia di baratto tra la Pubblica Amministrazione ed il privato che è disponibile ad una dazione di denaro od altra utilità.

La sentenza si compone  essenzialmente di una motivazione e di un relativo dispositivo: spesso accade che la motivazione sia il prodotto di una scelta ponderata ma pur sempre discrezionale del giudicante che spesso, in assenza di una consolidato orientamento giurisprudenziale incontrastato, si trova a dover scegliere la più idonea tra una varietà di interpretazioni giurisprudenziali tra di loro contrastanti.

Qualora il giudicante segua una delle possibili interpretazioni di quella controversia,  si dovrebbe affermare che l’atto-sentenza non può ritenersi contrario ai doveri d’ufficio: infatti, tale sentenza non può qualificarsi contra jus se considera autonomamente interpretazioni giurisprudenziali degne di rilievo. Ne consegue che, nel caso in cui il giudicante ricevesse una dazione di denaro od altra utilità a titolo remunerativo come prezzo del suo atto d’ufficio contenente una delle possibili interpretazioni giurisprudenziali, si configurerebbe l’ipotesi della corruzione impropria ex art. 318 c.p. . A sostegno di questa impostazione  si può citare una giurisprudenza che  non esclude la configurabilità del reato ex art. 318 c.p. e quindi della corruzione in atto d’ufficio qualora vi sia stato un uso più o meno ampio della discrezionalità da parte del giudicante” (Cass. sez. I, 27 ottobre 2003 – 4 febbraio 2003, n. 4177).

Al contrario, se il giudicante  abbia inteso voler favorire una delle parti processuali mediante la pronuncia di una sentenza dal contenuto normativo e giurisprudenziale corretto ma sorretto da  una valutazione metodologica non più autonoma ma corrotta dalla consapevolezza di voler favorire una delle parti processuali e di poter trarre un’ingiusta remunerazione, si avrà l’inosservanza del giudicante ai doveri d’ufficio e l’applicazione della differente fattispecie delittuosa ex art. 319 c.p. , quale delitto base dell’autonomo reato ex art. 319 ter c.p. .

Infatti, in quest’ultima ipotesi accade che gli interessi che potrebbero ritenersi lesi dal reato de quo sono non solo quelli della parte processuale soccombente, ma anche  quelli dell’imparzialità, correttezza e buon funzionamento della pubblica amministrazione per cui l’atto d’ufficio, seppur legittimo, corretto e dovuto, potrebbe essere inteso inequivocabilmente come oggetto di un privato baratto tra il privato ed il pubblico ufficiale in danno della Pubblica Amministrazione ed anche di una delle parti processuali.

Pertanto, affinché la decisione giurisdizionale possa ritenersi conforme ai doveri di ufficio e quindi idonea a salvaguardare gli interessi della P.a., deve aversi riguardo non solo al suo contenuto giuridico (che deve rispettoso delle disposizioni normative previste dall’ordinamento giuridico), ma anche al metodo con cui si perviene alla sentenza (che non deve essere inquinato da condizionamenti pregressi subiti dal pubblico ufficiale) (Cass., sez. VI, 4 maggio 2006 – 5 ottobre 2006, n. 33435).              

In conclusione, nel caso del delitto ex art. 318 c.p. il bene giuridico che appare offeso è innanzitutto l’interesse privato di una delle parti processuali e solo secondariamente la Pubblica Amministrazione nella misura in cui sia avvenuta la dazione di denaro od altra utilità in favore del pubblico ufficiale; invece nel differente delitto ex art. 319 c.p. il bene giuridico principalmente offeso è  determinato dal complesso dei caratteri di imparzialità correttezza e buon funzionamento quello della P.a. : tale lesione appare ben più grave di quella che può essere determinata dal mero ricevimento di denaro od altra utilità da parte di un pubblico ufficiale.

Ma  è possibile ritenere che i doveri di imparzialità, correttezza e buon andamento della pubblica amministrazione possano ritenersi violati solo nel caso di cui all’art. 319 c.p. e non anche nel precedente caso di cui all’art. 318 c.p. , solo in quanto il pubblico ufficiale abbia potuto autonomamente operare con la propria  discrezionalità ?

 

 

 

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