Divorzio e diniego di assegno. Legittimo il deposito di atti oltre il termine stabilito dal giudice se è rispettato il contraddittorio? Cassazione, sez. I, 13 aprile 2012, n. 5876

 

DIVORZIO E DINIEGO DI ASSEGNO. LEGITTIMO IL DEPOSITO DI ATTI OLTRE IL TERMINE STABILITO DAL GIUDICE SE È RISPETTATO IL CONTRADDITTORIO?

Cassazione, sez. I, 13 aprile 2012, n. 5876

 

Nel rito camerale di cui all’articolo 4 comma 12 della legge n. 898/1970 l’allegazione di documenti può eseguirsi anche oltre i termini fissati a tal fine ma a condizione che sia rispettato il diritto dell’altra parte a interloquire sulla tardiva produzione documentale

 

 

Cassazione, sez. I, 13 aprile 2012, n. 5876

(Pres. Forte – Rel. Bisogni)

 

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma pronunciava la separazione personale di G.E. e T.M..C. dichiarando il diritto della G. a percepire un assegno mensile di mantenimento di 500 Euro mensili da rivalutarsi annualmente.

Successivamente il C. adiva il Tribunale di Roma per ottenere la dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio e l’esclusione dell’obbligo di corrispondere un assegno di divorzio. Sull’opposizione della G. quest’ultima richiesta il Tribunale di Roma accoglieva interamente la domanda del C. .

La Corte di appello adita dalla G. ha confermato la sentenza di primo grado.

La Corte di Cassazione (Cass. civ. n. 11319/2005, I sezione, del 27 maggio 2005) ha accolto il ricorso della G. ritenendo fondata la sua doglianza relativa alla violazione del contraddittorio verificatosi ai suoi danni. La Corte di Cassazione nella sentenza ha rilevato quanto segue. “Dall’esame degli atti relativi al procedimento d’appello, svoltosi secondo il rito camerale, ai sensi dell’art. 4, dodicesimo comma, della legge n. 898 del 1970, emerge che, con il decreto presidenziale, erano stati assegnati alle parti i termini del 12 giugno 2001 per il deposito di memorie e documenti, e del 23 ottobre 2001 per repliche, e che era stata fissata al 29 novembre 2001 l’udienza, in Camera di consiglio, per l’audizione delle parti stesse e la discussione del ricorso. Dal verbale relativo a tale udienza camerale risulta che erano presenti entrambi i procuratori delle parti medesime, che nell’interesse del C. vennero in effetti prodotti i due atti pubblici relativi alle compravendite immobiliari, stipulati rispettivamente nelle date del 5/7/2001 e del 19/7/2001, e, quindi, dopo la scadenza dei termini concessi per il deposito documentale, nonché la copia dell’elenco degli iscritti all’Albo degli avvocati di Roma, recante pure il nominativo della G. , atti tutti espressamente richiamati a fondamento della sentenza impugnata. Dallo stesso verbale di udienza risulta anche che l’avv.to Argenti, procuratore della G. , in relazione a dette produzioni si è cosi espresso:… si oppone alla tardiva produzione inammissibile e improponibile in questa sede e pertanto ne chiede lo stralcio”. In relazione ad analoga fattispecie – ha rilevato questa Corte di legittimità – seppure concernente il procedimento separatizio soggetto al medesimo rito, procedimento nel quale il deposito documentale era del pari avvenuto dopo la scadenza del termine assegnato dal Presidente del Collegio, è stato affermato il principio secondo cui nel rito camerale in appello l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti in discorso (Cass. 2003/8547). Richiamato tale condiviso orientamento, occorre concludere che nella specie è stato violato il principio del contraddittorio, essendo stato il diniego di assegno divorzile espressamente fondato su fatti nuovi evidenziati dal C. mediante il deposito di documenti oltre il termine all’uopo assegnato dal giudice, in presenza di tempestiva eccezione d’inammissibilità della produzione tardiva svolta dalla difesa della G. , e ciò senza che all’udienza camerale lo stesso giudice avesse in proposito consentito l’esplicarsi del contraddittorio mediante il rinvio dell’udienza medesima, e senza che nella sentenza impugnata venissero esplicitate le ragioni di rigetto della eccezione d’inammissibilità della produzione, relativa anche a circostanza non sopravvenuta, quale la pregressa iscrizione della G. stessa all’Albo degli Avvocati, per effetto della mancata mancata di un rinvio dell’udienza nonostante l’eccezione di tardività della produzione documentale effettuata dal C..

T.M..C. ha riassunto il giudizio davanti alla Corte di appello di Roma che, con sentenza n. 3524/07, ha respinto l’appello di E..G. avverso la sentenza di primo grado.

Ricorre ora per cassazione E..G. affidandosi a quattro motivi di impugnazione e depositando memoria difensiva.

Si difende con controricorso C.T.M. .

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge n. 898/1970, come sostituito dall’art. 8 della legge n. 74/1987, e degli artt. 737, 738, 742 bis c.p.c., violazione degli artt. 384 e 394 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.).

La ricorrente pone alla Corte i seguenti quesiti di diritto:

a) se nel rito camerale previsto dall’art. 4 comma 12 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74, il principio secondo cui l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si sia instaurato un pieno e completo contraddittorio, non opera laddove vi sia stata un’espressa assegnazione di un doppio termine di cui il primo per il deposito di documenti ed articolazione di prove ed il secondo per repliche, vanificandosi altrimenti il carattere di essenzialità dei termini medesimi che finirebbero per essere superflui assumendo un valore meramente indicativo e, come tale, privo di significato.

b) Se, costituendo il giudizio di rinvio un giudizio “chiuso”, nel quale il giudice deve limitarsi ad applicare il dictum della Cassazione, viola l’art. 394 c.p.c. il giudice del rinvio che dispone l’acquisizione di documenti oggetto di deposito tardivo sui quali si sia fondata la sentenza cassata e la cui tardività sia stata espressamente riconosciuta nel giudizio di legittimità conclusosi con la cassazione della sentenza stessa.

Il motivo deve ritenersi infondato in quanto, come correttamente ha ribadito la Corte di appello, nel rito camerale di cui all’articolo 4 comma 12 della legge n. 898/1970 l’allegazione di documenti può eseguirsi anche oltre i termini fissati a tal fine ma a condizione che sia rispettato il diritto dell’altra parte a interloquire sulla tardiva produzione documentale (cfr. Cass. civ., sezione I, n. 8547 del 28 maggio 2003 secondo cui, nel rito camerale in appello, l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti in discorso). Questa è stata, come si è detto, la ragione della cassazione della precedente sentenza n. 1197/2002 della Corte di appello di Roma da parte della Corte di Cassazione (Cass. civ. n. 11319/2005 sopra richiamata) che ha ritenuto la nullità, per violazione del principio del contraddittorio, della sentenza d’appello, essendo stato il diniego di assegno divorzile espressamente fondato su fatti nuovi evidenziati dal coniuge mediante il deposito di documenti oltre il termine all’uopo assegnato dal giudice, in presenza di tempestiva eccezione di inammissibilità della produzione tardiva svolta dalla difesa dell’altro coniuge, e ciò senza che all’udienza camerale lo stesso giudice avesse in proposito consentito l’esplicarsi del contraddittorio mediante il rinvio dell’udienza medesima. La doglianza della ricorrente relativa alla acquisizione di nuovi documenti nel giudizio di rinvio è perciò da ritenersi infondata.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 898/1970, e successive modificazioni e degli artt. 115, 116 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.). Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.).

La ricorrente sottopone alla Corte i seguenti quesiti di diritto:

a) se la sola iscrizione ad un albo professionale può dar luogo a una presunzione di esercizio della relativa attività in mancanza di ulteriori elementi idonei ad evidenziare l’esercizio medesimo e la percezione di un reddito;

b) se costituisce idonea prova, atta a vincere l’eventuale presunzione di esercizio di attività professionale derivante dall’iscrizione al relativo albo, la contemporanea sussistenza di elementi idonei ciascuno a denotare il mancato svolgimento dell’attività in questione, quali l’assenza di redditi professionali nelle dichiarazioni fiscali e previdenziali, la mancanza di partita IVA e di fatturazioni, la mancanza di uno studio, la data recente di iscrizione all’albo e il precedente svolgimento di un’attività non professionale di pubblico dipendente.

Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione, sotto ulteriore profilo, dell’art. 5 della legge n. 898/1970 e successive modificazioni e degli artt. 115, 116 c.p.c., (art. 360 n. 3 c.p.c). Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.).

La ricorrente sottopone alla Corte il seguente quesito di diritto: se l’acquisto, dopo la cessazione del matrimonio, da parte del coniuge titolare unicamente di pensione di dipendente pubblico, dell’appartamento già abitato in regime di locazione e in costanza di matrimonio, acquisto realizzato con utilizzo del ricavato della vendita di altro appartamento, delle somme percepite a trattamento di fine rapporto e con il ricorso a prestiti dei familiari, costituisca elemento non idoneo a escludere la concessione dell’assegno divorzile in presenza di notevole disparità economica tra i coniugi sussistente già in costanza di matrimonio.

Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione, sotto ulteriore profilo, dell’art. 5 della legge n. 898/1970 e successive modificazioni (art. 360 n. 3 c.p.c.).

La ricorrente sottopone alla Corte i seguenti quesito di diritto:

a) se la notevole disparità economica tra i coniugi sussistente in costanza di matrimonio, costituisca elemento idoneo ad ingenerare oggettivamente nel coniuge economicamente più debole ragionevoli aspettative in ordine a un tenore di vita adeguato ai redditi dell’altro coniuge.

b) se la notevole disparità economica tra i coniugi sussistente in costanza di matrimonio, ed incrementatasi progressivamente dopo la cessazione dello stesso, determini l’oggettiva impossibilità per il coniuge economicamente più debole di mantenere un tenore di vita analogo a quello sussistente durante il matrimonio ed a quello che si sarebbe potuto tenere in base alle legittime e ragionevoli aspettative.

I tre motivi sin qui riportati vanno esaminati congiuntamente essendo palesemente incentrati sulla stessa doglianza ovvero sulla censura di infondatezza del giudizio di insussistenza del diritto della G. all’assegno divorzile. Si tratta sostanzialmente di una censura che investe il merito della controversia e che la ricorrente vuole riportare alla violazione di principi trascendenti il caso concreto, specificamente con i quesiti relativi al quarto motivo. Ma sul punto la motivazione della Corte di appello ha fatto correttamente riferimento alla giurisprudenza di legittimità secondo cui il giudice del merito è chiamato a verificare la disponibilità o meno da parte del coniuge richiedente di mezzi atti a conservare il tenore di vita goduto nel corso del matrimonio. Si veda in particolare quanto affermato da Cass. civ., sez. I, n. 20582 del 4 ottobre 2010 secondo cui, in tema di scioglimento del matrimonio e nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n.898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, il giudice, chiamato a decidere sull’attribuzione dell’assegno di divorzio, è tenuto a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza – all’atto della decisione – dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio; dunque, è la nozione di adeguatezza a postulare un esame comparativo della situazione reddituale e patrimoniale attuale del richiedente con quella della famiglia all’epoca della cessazione della convivenza, che tenga altresì conto dei miglioramenti della condizione finanziaria dell’onerato, anche se successivi alla cessazione della convivenza, i quali costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio.

La Corte di appello si è attenuta a questa metodologia in quanto ha preso in considerazione la fruizione di un reddito pensionistico da parte della G. a partire dall’età di 51 anni e la sua residua capacità lavorativa dimostrata almeno presuntivamente dall’iscrizione all’albo degli avvocati nonché la disponibilità di mezzi finanziari derivante solo in parte da vendite di beni immobili e tale da poterle consentire di acquistare l’abitazione dove ha risieduto nel corso del matrimonio. Da queste circostanze la Corte di appello ha tratto la convinzione che la G. dispone autonomamente di mezzi economici che le consentono di conservare sostanzialmente il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Si tratta di una valutazione di merito non sindacabile in questa sede neanche con riferimento alla esaustività o logicità della motivazione perché la Corte territoriale ha svolto con pienezza di argomentazioni l’esame del caso senza incorrere in contraddizioni logiche.

Il ricorso va pertanto respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 2.200 di cui 200 per spese. Dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.

 

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