I possibili beni giuridici tutelati dai delitti contro la famiglia (L. Grande)

 

I POSSIBILI BENI GIURIDICI TUTELATI DAI DELITTI CONTRO LA FAMIGLIA

Luca Grande

 

 

                La Costituzione dedica alla famiglia tre articoli (29-31) compresi nel Titolo II relativo ai rapporti etico-sociali. L’art. 29 attribuisce rango costituzionale ai diritti della famiglia, definendo quest’ultima come “società naturale fondata sul matrimonio”, sancendo l’”eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, e rimettendo alla legge ordinaria la possibilità di stabilire “limiti a garanzia dell’unità familiare”. L’art. 30 stabilisce il dovere dei genitori di “mantenere istruire ed educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio”. L’art. 31 prevede, con norma programmatica “misure economiche ed altre provvidenze” volte al sostegno della famiglia con particolare riguardo a quelle numerose.

                Come qualsiasi formazione sociale riconosciuta dal legislatore costituente, anche la famiglia può diventare uno scenario dove certe tensioni, di cui ogni singolo individuo è portatore, possono maturare in atti di natura delittuosa.

                Esistono dunque fattispecie di reato che possono realizzarsi esclusivamente nel tessuto familiare, per cui i soggetti attivo e passivo necessitano di una relazione di coniugio, di convivenza o di parentela.

                I “delitti contro la famiglia”, salvaguardano dalle differenti condotte tipizzate negli artt. 570 ss. c.p. il rapporto stabile intercorrente tra i membri del consorzio familiare.

Nel caso della famiglia legittima, la “stabilità” del rapporto è garantita non dalla mera coabitazione bensì dall’osservanza dei doveri  di assistenza morale e materiale (artt. 32 Cost. e 143 c.c.).

                Ciò trova espresso riscontro nelle seguenti sentenze con cui la giurisprudenza si è pronunciata in relazione ai reati  ex artt. 570 e 572 c.p.:

              Cass. pen., sez. VI 14-10-1989 (14-07-1989), n. 13724: […] Non é configurabile il delitto di cui all’art. 570 cod. pen. sulla sola base dell’abbandono del domicilio domestico(e quindi in caso di cessazione della coabitazione). Infatti considerato che la fattispecie prevista dall’articolo citato é ravvisabile solo quando la condotta dell’agente – abbandono o comportamento contrario all’ordine o alla morale delle famiglie – si realizzi nella sottrazione agli obblighi di assistenza, occorre però tener conto che, a seguito dell’evoluzione del costume e della nuova normativa che regola i rapporti di famiglia, la qualità di coniuge non è più uno stato permanente, ma una condizione modificabile attraverso la volontà, anche di uno solo, di rompere il vincolo matrimoniale.

Ne deriva che la manifestazione di tale volontà, pur se non ancora perfezionata nelle forme previste per la separazione o lo scioglimento del matrimonio, é sufficiente ad interrompere taluni obblighi, tra i quali quello della coabitazione.

Nello stesso senso, altra giurisprudenza (Cass. pen., sez. VI 22-10-1984, n. 8950) ha affermato che l’abbandono del domicilio domestico (e quindi la cessazione della coabitazione) integra gli estremi del reato previsto dall’art.570 cod. pen., solo quando l’allontanamento cagioni l’inadempimento cosciente e volontario degli obblighi di assistenza coniugale, il cui contenuto non si esaurisce in esigenze di carattere materiale ed economico, ma tocca altresì la sfera degli interessi morali e di solidarietà, che stanno alla base del rapporto di convivenza coniugale. 

Altrettanto si può dire nel caso della famiglia di fatto. La “stabilità” del rapporto non coincide con il concetto di “coabitazione” ma con le “relazioni intense ed abituali”.

Cass. pen., sez. V 30-06-2010 (17-03-2010): […] Orbene la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che il delitto di maltrattamenti in famiglia é ravvisabile anche per la cosiddetta famiglia di fatto ovvero quando in un consorzio di persone si sia realizzato, per strette relazioni e consuetudini di vita, un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi, anche assistenziali (vedi Cass., Sez. 3^, 3 luglio – 3 ottobre 1997, n. 8953).

La sentenza citata ha, altresì, precisato che non è necessaria la convivenza e la coabitazione; ciт perche la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione (vedi Cass., Sez. 6^, 26 gennaio – 24 febbraio 1998, n. 282, che ha chiarito che la cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del reato de quo; e Cass. 22 settembre 2003, n. 49109, che ha stabilito che il reato sussiste anche quando la convivenza sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto).

Del resto anche la giurisprudenza più risalente aveva richiamato l’attenzione sul fatto che la coabitazione non é un requisito del delitto ex art. 572 c.p., essendo sufficiente che intercorrano relazioni abituali tra il soggetto attivo e quello passivo (vedi ex multis Cass., 26 giugno 1961, Marchese; e Cass., Sez. 6^, 18 dicembre 1970 – 20 febbraio 1971, che ha affermato che il reato sussiste anche quando i maltrattamenti sono commessi nei confronti di una donna, non convivente, ma con la quale si abbia una relazione abituale). Pertanto, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 cod. pen., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione.  E’ sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni , dovute a diversi motivi anche assistenziali.

Sulla scorta delle predette considerazioni si può quindi sinteticamente affermare che i delitti in oggetto minacciano la sopravvivenza del consorzio familiare in quanto fondato non sulla semplice coabitazione ma sull’osservanza dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale.

Occorre inoltre precisare che il legislatore ha posto in rilievo quali beni giuridici siano da ritenersi offendibili dai delitti in oggetto: non solo la stabilità della famiglia ma anche l’incolumità psicofisica del minore legato da vincolo di filiazione. Il minore viene infatti tutelato dai comportamenti anomali dei propri genitori (sottrazione agli obblighi di assistenza inerenti alla relativa potestà e privazione dei mezzi di sussistenza; malversazione  dei beni del minore ex art. 570 c.p., etc.) e dai comportamenti anomali di “chiunque” lo assista durante la sua crescita. A tal proposito è utile ricordare che la giurisprudenza di legittimità in una recente sentenza (Cass. pen. , sez. VI 27-12-2010) si pronuncia nel seguente modo: “in tema di rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, deve escludersi che l’intento educativo e correttivo dell’agente costituisca un elemento dirimente per far rientrare il sistematico ricorso ad atti di violenza commessi nei confronti di minori nella meno grave previsione di cui all’art. 571 cod. pen. Ne consegue che l’esercizio del potere di correzione al di fuori dei casi consentiti, o con mezzi di per sи illeciti o contrari allo scopo, deve ritenersi escluso dalla predetta ipotesi di abuso e va inquadrato nell’ambito di diverse fattispecie incriminatrici. (Nel caso di specie, la S.C. ha censurato la pronuncia di merito, ravvisando il delitto di maltrattamenti nei confronti dei bambini affidati ad un asilo)”.

 

 

Bibliografia

Elisabetta Messina,  “Introduzione ai reati contro la famiglia”.

www.giustizia.catania.it/formazione/190407/messina.pdf

 

Claudia Kolb,  “Le misure contro la violenza intrafamiliare, Aspetti giuridici e sociologici”

http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/minori/kolb/index.htm

 

 

 

 

 

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