Esibizione di documenti e CTU: istruzione d’ufficio e rapporti tra l’art. 210 cpc e l’art. 2711 cc Cassazione, sez. III, 12 giugno 2012, n. 9522

 

ESIBIZIONE DI DOCUMENTI E CTU: ISTRUZIONE D’UFFICIO E RAPPORTI TRA L’ART. 210 CPC E L’ART. 2711 CC

Cassazione, sez. III, 12 giugno 2012, n. 9522

 

Rispetto all’istituto generale dell’esibizione su istanza di parte disciplinato dagli artt. 210 ss. cod. proc. civ., quello di cui all’art. 2711 cod. civ. conosce, da un lato, una notevole limitazione soggettiva della propria area operativa, poiché l’ordine non può essere rivolto nei confronti di un imprenditore terzo rispetto alla controversia; e, dall’altro, vede assai ampliato oggettivamente il proprio ambito applicativo, visto che si tratta di un potere istruttorie rimesso all’iniziativa del giudice a carattere molto ampio, sia per l’elevato numero di controversie nelle quali è potenzialmente utilizzabile, sia con riguardo al novero particolarmente esteso dei documenti commerciali di cui il giudice, in virtù dell’art. 2711, comma secondo, cod. civ., può disporre d’ufficio l’acquisizione

Si ricava dal sistema dei rapporti tra poteri delle parti e del giudice nell’attuale processo, se non altro nelle controversie relative a diritti disponibili, quale requisito per il legittimo esercizio dei poteri istruttori ufficiosi del giudice – e, per quel che qui rileva, anche di quello previsto dall’art. 2711 cpv. cod. civ. e di quello di disporre la consulenza tecnica di ufficio – la circostanza che la parte onerata abbia tempestivamente e con sufficiente analiticità allegato i fatti specifici da munire di prova e che, sempre tempestivamente, abbia almeno plausibilmente allegato di non avere altro mezzo – o di avere invano esperito altri mezzi – per conseguire la prova stessa;

In tale circostanza si rinviene anche l’elemento di giustificazione della specialità dell’istituto previsto dall’art. 2711 cpv. cod. civ. rispetto al generale ordine di esibizione di cui all’art. 210 cod. proc. civ..

 

 

Cassazione, sez. III, 12 giugno 2012, n. 9522

(Pres. Spirito – Rel. De Stefano)

 

Svolgimento del processo

1.1. La P. srl in liq.ne (oggi R.: srl in liq.ne), già ammessa a concordato preventivo i cui termini e condizioni erano stati onorari, citò la Cassa Rurale Artigiana Padana dinanzi al tribunale di Brescia per sentirla condannare alla restituzione della differenza tra le somme trattenute in virtù di un mandato continuativo (poi revocato) per l’incasso di ricevute bancarie ed altro, ritenendole illegittimamente trattenute in compensazione, e la percentuale del credito ammesso a concordato.

1.2. La convenuta si costituì, immediatamente contestando sia la qualificazione del rapporto che il quantum, solo in subordine invocando limitarsi l’accoglimento della domanda al periodo successivo alla revoca del mandato.

1.3. Il giudice di primo grado di ufficio dispose, ai sensi dell’art. 2711 cod. civ., l’esibizione delle scritture contabili della banca e poi una consulenza tecnica, nel cui corso fu impartito altro ordine di esibizione sulla base delle indicazioni dell’ausiliario in ordine alle carenze istruttorie documentali: sicché decise infine la causa con sentenza 16.12.03, qualificando il rapporto come mandato in rem propriam sciolto con il concordato e condannando, sulla scorta della consulenza tecnica di ufficio, la convenuta banca al pagamento di Euro 58.390,86, oltre interessi dalla domanda ed alle spese di causa, ma ponendo quelle di c.t.u. a carico di entrambe le parti per la metà.

1.4. Avverso tale pronunzia propose appello la banca, contestando in primis gli ordini di esibizione e la consulenza tecnica di ufficio disposti in primo grado, a suo dire in aperta violazione delle regole sull’onere della prova e tali da sopperire ingiustamente alle gravi carenze probatorie dell’onerata attrice, per poi contestare ampiamente anche la riqualificazione del rapporto e comunque la mancata limitazione della condanna al periodo successivo alla revoca del mandato; e la controparte dispiegò appello incidentale, chiedendo la rideterminazione in suo favore dell’importo della condanna e comunque la condanna integrale di controparte anche alle spese di consulenza.

2. La qui gravata sentenza, resa dalla corte di appello di Brescia con il n. 1085 addì 7.12.06 (e notificata il 9.3.07) :

2.1. ha respinto tutti i motivi di appello principale ed in parte quello incidentale, soltanto accollando l’intera spesa per consulenza tecnica di ufficio alla soccombente banca; ed in particolare, per quel che qui ancora rileva, ha respinto anche il primo motivo di appello principale, qualificando del tutto giustificati gli ordini di esibizione e l’ordinanza che aveva disposto la consulenza tecnica di ufficio;

2.2. è ora gravata da ricorso per cassazione, articolato su di un unitario motivo ed illustrato da memoria, della Cassa Padana scarl, cui resiste con controricorso la R. srl in liq.ne..

Motivi della decisione

3. Con l’unitario motivo di ricorso (rubricato “violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2711 cc e degli artt. 115, 198 e 210 cpc in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., e, comunque, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”):

3.1. la ricorrente si duole del malgoverno a suo dire fatto dai giudici del merito dei principi in tema di ordine di esibizione, anche ai sensi del capoverso dell’art. 2711 cod. civ., e di consulenza tecnica di ufficio, lamentando essersi in tal modo sopperito a gravi ed altrimenti insuperabili carenze istruttorie dell’onerata attrice;

3.2. e sono formulati, al termine, i seguenti quesiti:

– “se il potere di cui all’art. 2711, co. 2, c.c. possa essere esercitato dal Giudice solo in via eccezionale e residuale ovvero per supplire alla totale inerzia processuale, sotto il profilo probatorio, della parte che vi è tenuta ex art. 2697 cc”;

– “se in particolare l’esercizio del potere da parte del giudice di cui all’art. 2711, co. 2, c.c. sia subordinato alla mancanza di idonei mezzi dei quali possa avvalersi la parte sulla quale grava l’onere della prova, e, quindi, se l’esercizio di un siffatto potere sia escluso ogni qual volta la parte abbia la possibilità di richiedere l’esibizione di documenti che interessano ai sensi degli art. 210 seg. c.p.c.”;

– “se l’ordine di esibizione di cui all’art. 2711, co. 2, cc. possa essere disposto dal giudice nell’ambito di una consulenza d’ufficio per acquisire documentazione non

agli atti in assenza del consenso delle parti ex art. 198 cpc e addirittura, come accaduto nel caso di specie, nonostante la volontà contraria di una delle parti”;

– “se nell’ambito di una consulenza d’ufficio l’ordine di esibizione di cui all’art. 2711, co. 2, c.c. possa essere impartito senza alcun limite e, quindi, anche al fine di acquisire ed esaminare, in assenza della volontà delle parti ex art. 198 cpc, documenti non prodotti in causa”.

4. Va premesso che:

4.1. la controricorrente, dal canto suo, ribatte per la correttezza delle argomentazioni in diritto svolte dalla corte territoriale e per l’inammissibilità od infondatezza delle censure di vizio motivazionale dispiegate dalla controparte;

4.2. alla fattispecie si applica l’art. 366-bis cod. proc. civ., norma – introdotta dall’art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – che resta applicabile – in virtù del comma secondo dell’art. 27 del medesimo decreto – ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè dal 2 marzo 2006, senza che possa rilevare la sua abrogazione – a far tempo dal 4 luglio 2009 – ad opera dell’art. 47, comma 1, lett. d), della legge 18 giugno 2009, n. 69, in virtù della disciplina transitoria dell’art.. 58, comma quinto, di quest’ultima (con ultra-attività ritenuta conforme a Costituzione, tra le altre, da Cass., ord. 14 novembre 2011, n. 23800);

4.3. il processo di primo grado, la cui ricostruzione è indispensabile ai fini della decisione ed è consentita, valutati idonei i riferimenti in ricorso, dalla natura della censura svolta, ebbe il seguente andamento:

– all’udienza prevista dall’art. 183 cod. proc. civ. (nel testo introdotto dalla legge 353 del 1990), tenutasi il 23.6.97, l’unica prova articolata dall’attrice fu una prova testimoniale sul seguente capitolo: “vero che la presentazione degli effetti RIBA avveniva presso la C.R.A. della Banca Bresciana con la compilazione del modulo che mi si rammostra contraddistinto con la lettera A”; e furono concessi i termini ai sensi dell’art. 184 cod. proc. civ. (al 23 luglio ed al 7 ottobre 1997, con rinvio all’udienza 1.12.97);

– all’udienza 1.12.97 l’attrice insistette per la sola ammissione della prova testimoniale e (disposto rinvio “per gli incombenti odierni”) solo alla successiva ud. 15.12.97 produsse effetti RIBA 17.5.94 per L. 54.177.258 e copia di distinta di effetti presentati all’incasso in data 1.6.94: con rinvio immediato, all’esito, per conclusioni;

all’udienza 12.10.98, precisate dall’attrice le conclusioni con richiamo all’atto di citazione, la causa fu trattenuta a sentenza, ma fu rimessa sul ruolo con ordinanza 5.3.99, con ordine, ex art. 2711 cod. civ., alla convenuta azienda di credito di esibire i libri contabili con la registrazione degli incassi delle ri.ba. successivi al 30.6.94;

– all’ud. 29.4.99 fu prodotto estratto conto successivo al 30.6.94, da cui non emergevano operazioni relative a ri.ba.,- ma l’attrice, all’ud. 8.7.99, contestò che controparte avesse in tal modo ottemperato all’ordinanza di esibizione;

– seguirono diversi rinvii puri e semplici fino all’ud. 26.10.00, alla quale fu ammessa consulenza tecnica di ufficio contabile;

– nel corso di questa, sulle indicazioni del consulente, l’attrice chiese ordinarsi l’esibizione di ulteriore documentazione ritenuta dall’ausiliario indispensabile per la decisione (ud. 20.9.01): ed in questa sede la banca si oppose alle istanze istruttorie, perché tardive e tali da esentare l’onerato dal rispetto dell’art. 2697 cod. civ.;

– la convenuta ribadì l’inammissibilità sia della consulenza tecnica di ufficio che dell’eventuale ulteriore ordine di esibizione ai sensi dell’art. 2711 cpv. cod. civ. (ud. 14.3.02), ma seguì altra ordinanza in tal senso ed il 23.1.03 furono, dopo il deposito della successiva relazione di c.t.u., disposti altresì chiarimenti;

– solo con la seconda comparsa conclusionale (del 6.9 – 21.10.03) di primo grado l’attrice dedusse di non avere avuto la possibilità di produrre la documentazione completa.

5. La questione da affrontare:

5.1. riguarda quindi i presupposti per l’esercizio dei poteri di istruzione ufficiosi del giudice civile nel rito ordinario, tra i quali – appunto – quello di disporre consulenza tecnica di ufficio con acquisizione di documenti e quello che ha ad oggetto lo speciale ordine di esibizione delle scritture contabili previsto dall’art. 2711 cpv. cod. civ.: a mente del quale, al di fuori di peculiari controversie (quelle relative allo scioglimento della società, alla comunione dei beni ed alla successione per causa di morte), nelle quali può essere ordinata la “comunicazione integrale” (dei libri, delle scritture contabili e della corrispondenza della parte), il giudice può ordinare, anche d’ufficio, che si esibiscano i libri per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in corso e può anche ordinare l’esibizione di singole scritture contabili, lettere, telegrammi o fatture concernenti la controversia stessa;

5.2. si estende ai limiti della consulenza tecnica di ufficio, nella specie, contabile, disposta sulla documentazione così acquisita o finanche su quella acquisita nel corso della consulenza stessa, su indicazione del consulente dei documenti indispensabili;

5.3. va affrontata allora ricordando, prima di ogni altra cosa:

– che la norma dell’art. 2711, comma secondo, cod. civ. consente, in tutte le controversie in cui una delle parti è un imprenditore, al giudice di ordinare a questi, d’ufficio, l’esibizione dei libri contabili la cui tenuta è obbligatoria (artt. 2195 e 2214 cod. civ.) benché al solo fine di estrarre le registrazioni rilevanti per quel giudizio, nonché l’esibizione di ogni singola scrittura contabile, di ogni lettera, telegramma o fattura; e, per di più, potendo sostenersi, vista la genericità dell’elencazione dei documenti, che essa non sia affatto tassativa, tanto da restare assoggettabili all’ordine ufficioso di esibizione tutti i documenti formatisi nell’esercizio dell’impresa e ad essa direttamente connessi;

– che, rispetto all’istituto generale dell’esibizione su istanza di parte disciplinato dagli artt. 210 ss. cod. proc. civ., quello di cui all’art. 2711 cod. civ. conosce, da un lato, una notevole limitazione soggettiva della propria area operativa, poiché l’ordine non può essere rivolto nei confronti di un imprenditore terzo rispetto alla controversia; e, dall’altro, vede assai ampliato oggettivamente il proprio ambito applicativo, visto che si tratta di un potere istruttorie rimesso all’iniziativa del giudice a carattere molto ampio, sia per l’elevato numero di controversie nelle quali è potenzialmente utilizzabile, sia con riguardo al novero particolarmente esteso dei documenti commerciali di cui il giudice, in virtù dell’art. 2711, comma secondo, cod. civ., può disporre d’ufficio l’acquisizione;

– che, tra gli interpreti, la preoccupazione indotta da una così ampia deroga alla tendenziale disponibilità della prova, riaffermata dall’art. 210 cod. proc. civ. per l’esibizione in generale, ha indotto a letture riduttive, della stessa; ma non è mancato chi ha finito con il concludere che il principio dispositivo, in tema di prove precostituite, va inteso in forma assai attenuata: e tanto perché il potere istruttorio ufficioso di cui all’art. 2711, comma secondo, cod. civ. darebbe compiuta attuazione, sul piano processuale, alla funzione probatoria delle scritture contabili, senza con ciò deflettere da una piena imparzialità del giudice.

6. Al riguardo, la corte territoriale:

6.1. quanto all’ordine di esibizione ai sensi dell’art. 2711 cpv. cod. civ.:

– ritiene che esso, siccome eccezione rispetto alla regola generale (di cui all’art. 210 cod. proc. civ.) della previa istanza di parte, costituisca uno strumento di conoscenza discrezionalmente attribuito al giudice e sottratto al potere dispositivo della prova che è dato alle parti;

– esclude che il suo utilizzo sia eversivo delle regole concernenti l’ordinaria ripartizione, tra le parti, dell’onere probatorio: in quanto l’applicazione di tali regole imporrebbe l’onere, per la parte, di instare sempre e indefettibilmente, per l’ordine di esibizione previsto dall’art. 210 cod. proc. civ. e priverebbe l’ordine ex art. 2711 cpv. cod. civ. di qualsiasi spazio di utile estrinsecazione;

– conclude nel senso che il potere in esame può essere esercitato anche tutte le volte in cui si registri una situazione di mancata o insufficiente prova sui fatti costitutivi della pretesa afferente a rapporti commerciali, pure allorché dipendente dal mancato assolvimento, da parte dell’attore, dell’onere ex art. 2697 cod. civ.;

ritiene pertanto che il potere in esame possa esercitarsi quando sia almeno integrativo dell’onere probatorio incombente sulle parti;

– qualifica infine come meramente integrativo e non sostitutivo di tale onere l’espletamento del potere ex art. 2711 cpv. cod. civ. per la presenza in atti di un conteggio (unilaterale dell’attore) e di due distinte di versamento, qualificati come elementi probatori, benché di per sé insufficienti;

6.2. quanto alla consulenza tecnica di ufficio:

– ribadisce che essa non può avere carattere solamente esplorativo;

– rileva però che, in relazione al caso concreto, con essa – disposta, tra l’altro, per la ricostruzione di “quali fossero i rapporti di dare e avere in essere tra le parti” – si riscontrò l’insufficienza dei documenti già resi oggetto del precedente ordine di esibizione e fu lo stesso ausiliario ad indicare gli atti effettivamente necessari per la compiuta risposta ai quesiti;

ritiene che quindi, reinterpretato il precedente ordine di esibizione, di cui ammette la sostanziale imprecisione tecnica di formulazione (v. pag. 15 della sentenza), la stessa attività del consulente tecnico ha potuto fondare il legittimo esercizio del potere di disporre ulteriore ordine di esibizione.

7. In materia, per la giurisprudenza di questa corte di legittimità:

7.1. la consulenza tecnica di ufficio:

– non è un mezzo istruttorio in senso proprio, poiché ha la finalità di aiutare il giudice nella valutazione di elementi già acquisiti al processo, e quindi costituisce un mezzo di controllo dei fatti costituenti la prova, che deve essere fornita dalla parte a sostegno della propria posizione giuridica; pertanto, la consulenza non rientra nella disponibilità delle parti, ma è rimessa al potere discrezionale del giudice, il quale esattamente decide di escluderla ogni qual volta si avveda che la richiesta della parte tende a supplire con la consulenza la deficienza della prova o a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provate (tra le molte: Cass. 2 gennaio 2002, n. 10);

– può avere ad oggetto non solo l’incarico di valutare i fatti accertati (cosiddetto consulente deducente) ma anche quello di accertare i fatti stessi (cosiddetto consulente percipiente), ma ciò si verifica solamente in ipotesi di situazioni oggettivi) rilevabili esclusivamente con il concorso di determinate cognizioni tecniche (per tutte, v. Cass. 19 gennaio 2006, n, 1020), non potendo in nessun caso la consulenza d’ufficio avere funzione sostitutiva dell’onere probatorio delle parti;

– è disposta in base ad una valutazione di fatto, normalmente non censurabile in sede di giudizio di legittimità: sicché la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e di dare adeguata, contezza dell’iter logico argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione;

– con la conseguenza ulteriore che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (giurisprudenza fermissima; basti un richiamo a: Cass. 26 gennaio 2007, n. 1754, ovvero a Cass. 21 agosto 2006, n. 18214);

7.2. l’ordine di esibizione dei libri contabili:

è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito e richiede, quale requisito di ammissibilità, che la prova del fatto che si intende dimostrare non è acquisibile aliunde, non potendo avere l’iniziativa finalità meramente esplorative o sostitutive dell’onere probatorio posto a carico della parte;

– può essere si emesso in base ad una valutazione discrezionale del giudice, ma sul presupposto che il suo oggetto sia sufficientemente individuato (tra le altre: Cass. 11 luglio 2003, n. 10916) e che comunque in tal modo non si sopperisca all’inerzia delle parti nel dedurre i mezzi istruttori (da ultimo, Cass. 20 giugno 2011, n. 13533);

– in particolare, non è ammesso in mancanza di compiuta e specifica individuazione o quanto meno di una sufficiente individuabilità del documento da acquisire, del quale sia noto od almeno assertivamente indicato un preciso contenuto, influente per la decisione della causa, anche ai sensi dell’art. 2711 cod. civ.; tanto che la suddetta esibizione non può essere sollecitata, né disposta, con generico riferimento alla contabilità della banca medesima, senza specificazione di quale singola partita o registrazione conterrebbe quella dimostrazione (Cass. 13 giugno 1991, n. 6707);

– è subordinato ad una previa valutazione anche in punto di residualità, la quale è rimessa al giudice di merito, il mancato esercizio da parte del quale del relativo potere discrezionale non è censurabile in sede di legittimità, ove sia congruamente motivato (Cass. 19 settembre 2002, n. 13721);

7.3. più in generale, l’esercizio dei poteri istruttori ufficiosi, perfino nel processo del lavoro, caratterizzato – com’è noto – da marcati poteri di istruzione ufficiosa, non può mai – nonostante il loro esercizio sia discrezionale e come tale sottratto al sindacato di legittimità – sopperire alle carenze probatorie delle parti (da ultimo: Cass. 22 luglio 2009, n. 17102; Cass. 20 luglio 2011, n. 15899).

8. In ulteriore sviluppo di tali premesse, va allora qui osservato che:

8.1. costituisce principio acquisito che la diversa gradazione dell’intervento del giudice rispetto ai poteri delle parti nel processo, soprattutto in quello civile ed a maggior ragione in quello avente ad oggetto diritti disponibili, risente inevitabilmente della ricostruzione che di quest’istituto e, con esso, dell’impostazione dello Stato generalmente intesa, si offre e si persegue in un determinato momento storico; infatti, all’ampliamento dei poteri istruttori ufficiosi ha sempre ostato il timore che esso si risolva in un attentato all’imparzialità del giudice: certamente non bastando ad eliminarlo la previsione dell’obbligatorietà del contraddittorio, anche preventivo, sull’esercizio dei poteri officiosi, visto che la devoluzione di un potere inquisitorio altera obiettivamente l’equilibrio formale di partenza o, dinanzi a condizioni economico-sociali differenti, il disequilibrio sostanziale delle parti;

8.2. tralasciati anche solo i risultati dell’elaborazione storica sulle cause del conflittuale bilanciamento tra principio di disposizione delle prove e principio di istruzione officiosa (quello spiccatamente forense; quello gnoseologico; quello eminentemente politico-sociale), è del pari circostanza acquisita quella di una progressiva erosione del principio di disponibilità delle prove verso forme, sempre più articolate, di acquisizione ufficiosa del materiale probatorio, oscillando le impostazioni di fondo tra i due corni del dilemma relativo al fine ultimo che al processo civile si vuole attribuire: uno strumento per l’oggettiva e giusta applicazione della legge nel caso concreto, oppure – ed anzi al contrario – semplicemente la mera composizione della controversia insorta tra i privati; ma può convenirsi con chi attribuisce al principio di disponibilità delle prove ed al concreto suo contenuto il valore di una mera scelta di tecnica processuale, contingente e transeunte, condizionata dagli obiettivi che il singolo ordinamento attribuisce al processo civile in un dato momento storico;

8.3. può allora, sia pure a rischio di semplificazioni forse eccessive, rilevarsi che l’evoluzione della concezione del processo civile italiano, culminata con la costituzionalizzazione dei principi del giusto processo di derivazione convenzionale internazionale, risente oggi della presenza di interessi pubblicistici importanti, che giustificano l’introduzione di un sistema di preclusioni abbastanza rigido e quindi di un quadro di riferimento tendenzialmente sottratto alla potestà delle parti, libere ancora certamente di disporre dell’an della tutela, ma – sia pure con varia graduazione di poteri in relazione al maggior grado di disponibilità del diritto dedotto in giudizio – non anche del quomodo;

8.4. la linea evolutiva non sì è spinta però affatto fino ad una concezione di rilevanza pubblicistica della ricerca della verità materiale quale fine del processo; al contrario, il principio dispositivo permane come limite intrinseco al processo civile e, al contempo, quale suo fondamento, articolato com’è sulla centralità del principio della domanda: l’interesse dell’ordinamento è quindi quello di favorire la pienezza dell’estrinsecazione dei poteri delle parti a tutela delle rispettive situazioni giuridiche, ma entro una cornice di rilevanza pubblicistica di tendenza ad un processo che sia al contempo giusto – tra l’altro, anche perché condotto davanti ad un giudice imparziale – e concluso in tempi ragionevoli;

8.5, in questo contesto, il principio dispositivo tuttora applicato al processo comporta che, rimessa alla discrezionalità del legislatore processuale la concreta determinazione della sua ampiezza, con ogni plausibilità inversamente proporzionale al grado di indisponibilità del diritto dedotto in giudizio, le parti, libere di dedurre l’oggetto della domanda e – in varia misura, a seconda della natura del diritto azionato – di disporne, hanno però quanto meno sempre l’onere di allegare tempestivamente i fatti a sostegno di queste, come pure di allegare od offrire o chiedere prove su questi ultimi: e tanto perché deriva dal medesimo principio dispositivo, applicato stavolta alla struttura del processo, che sia alla parte interessata – e pertanto onerata – rimessa la scelta dei mezzi con i quali prospettare e provare al giudice i fatti a sostegno delle sue tesi e difese, sia pure nell’ambito di un processo che poi si svolge secondo regole sue proprie di indubbia rilevanza pubblicistica;

8.6. sempre in questo contesto, allora, la presenza di poteri in senso lato inquisitori in capo al giudice, vale a dire di potestà, evidentemente finalizzate ad interessi di rilevanza ultraprivatistica (nel senso, cioè, che trascendono il privato), di disporre però di mezzi istruttori al di là e al di fuori delle richieste esplicite delle parti, trova pur sempre una sua intrinseca giustificazione nella finalizzazione al miglior esercizio possibile di quelle facoltà delle parti, senza sconfinare in supplenza e senza abbandonare l’indispensabile terzietà del giudicante, vale a dire senza comprimere il diritto corrispondente della controparte al corretto esercizio dei poteri processuali del suo contraddittore;

8.7. tanto esclude che il potere ufficioso possa estendersi ai fatti specifici nemmeno allegati tempestivamente dalle parti interessate e – se non altro nelle controversie relative a diritti disponibili – alle ipotesi in cui le parti, pur potendolo o non adducendo di non averlo potuto, non si siano avvalse delle ampie facoltà istruttorie in ogni caso loro riconosciute; se si potesse ammettere il contrario, si consentirebbe una supplenza effettiva del giudicante, il quale, lungi dal rimanere terzo ed equidistante dalle parti, si industrierebbe non solo di acquisire di ufficio gli elementi a favore di una di loro, ma pure di individuare quali sarebbero i percorsi processuali da seguire per l’accoglimento della domanda: e cesserebbe, ipso facto, di essere appunto imparziale;

8.8. la non consentita supplenza non sussisterebbe allora soltanto quando manchi del tutto l’allegazione o la prova del fatto rilevante, ma anche quando la prima rimanga generica, vaga o indeterminata e sia stata pure tardiva, così vulnerando il diritto al contraddittorio della controparte; e tanto vale a maggior ragione per le istanze istruttorie, che devono avere ad oggetto circostanze il più possibile specifiche o, per quel che qui rileva, del massimo grado di specificità consentito in relazione alla fattispecie concreta; e, qualora istanze istruttorie non siano formulate, l’attore, che già deve quanto meno chiaramente e tempestivamente indicare i fatti specifici che fondano la sua pretesa, deve poi pure, in ipotesi di contestazione, addurre i motivi – che dovranno reggere ad un vaglio di plausibilità, al fine di escludere la pretestuosità della giustificazione di un’inerzia qualificata rispetto all’onere assertivo e probatorio – per i quali non ha potuto provarli o non può in sede processuale fornirli di riscontri istruttori;

8.9. per di più, atteso il regime di rigorose decadenze scandite dal vigente rito civile, dettate per evidenti ragioni pubblicistiche e quindi ufficiosamente rilevabili, tutto questo deve fare nel rigoroso rispetto dei relativi termini di preclusioni assertive ed istruttorie; infatti, il regime delle preclusioni, di cui al testo degli artt. 183 e 184 cod. proc. civ. introdotto dalla legge n. 353 del 1990, risponde ad un superiore interesse pubblico di concentrazione e speditezza, cui è ormai improntata l’intera trattazione del processo e non può subire attenuazione per il consenso, quand’anche esplicito, della controparte di chi in quelle preclusioni sia incorso (con specifico riferimento alla novità della domanda: Cass. 11 maggio 2005, n. 9875; Cass. 27 luglio 2006, n. 17152; Cass. 30 novembre 2011, n. 25598).

9. Pertanto:

9.1. si ricava dal sistema dei rapporti tra poteri delle parti e del giudice nell’attuale processo, se non altro nelle controversie relative a diritti disponibili, quale requisito per il legittimo esercizio dei poteri istruttori ufficiosi del giudice – e, per quel che qui rileva, anche di quello previsto dall’art. 2711 cpv. cod. civ. e di quello di disporre la consulenza tecnica di ufficio – la circostanza che la parte onerata abbia tempestivamente e con sufficiente analiticità allegato i fatti specifici da munire di prova e che, sempre tempestivamente, abbia almeno plausibilmente allegato di non avere altro mezzo – o di avere invano esperito altri mezzi – per conseguire la prova stessa;

9.2. in tale circostanza si rinviene anche l’elemento di giustificazione della specialità dell’istituto previsto dall’art. 2711 cpv. cod. civ. rispetto al generale ordine di esibizione di cui all’art. 210 cod. proc. civ..

10. Nel caso in esame, la corte territoriale fonda la legittimità di ben due ordini di esibizione ufficiosi ai sensi dell’art. 2711 cpv. cod. civ., uno dei quali all’interno di una consulenza tecnica di ufficio, sul carattere meramente integrativo dell’onere probatorio del primo e su quello interpretativo – rispetto al primo – del secondo, ma:

10.1. non considera, stando all’esame degli atti direttamente accessibili in questa sede: che, entro il termine di maturazione delle preclusioni istruttorie, attesa la chiara contestazione della controparte, l’attrice non ha articolato prove su tutte le operazioni, né ha addotto plausibili ragioni per le quali essa non abbia potuto fino a quel momento conseguirle; che non sono stati prodotti i riscontri contabili, normalmente nella piena disponibilità del cliente, delle operazioni contestate (soprattutto se, come nella fattispecie, consistenti nell’accredito di ricevute bancarie su conto corrente);

10.2. non considera che: nessuna rilevanza può avere, a fini istruttori e quindi neppure quale principio di prova suscettibile di essere integrato con i poteri ufficiosi, un riepilogo unilateralmente predisposto dall’attore (atteso il principio della generale inidoneità di qualunque atto proveniente da una parte a far prova a suo proprio favore, salve le eccezioni previste dalla legge, sulla cui ricorrenza non si motiva); nessuna rilevanza può avere, ai fini della prova di altre – e non specificate – operazioni, la presenza di un principio di prova su due sole di queste, principio di prova del quale avrebbe dovuto preventivamente verificare la tempestiva produzione; travalica l’ambito della mera interpretazione di un precedente provvedimento, emesso in termini ampi se non generici e comunque riconosciuti come in gran parte atecnici, la compiuta specificazione di contenuti analiticamente individuati soltanto da un ausiliario del giudice nel frattempo nominato; travalica i limiti della consulenza tecnica di ufficio quella che in concreto, nella almeno apparente inerzia dell’attrice, finisce con l’elaborare la compiuta identificazione di tutti i fatti rilevanti per la decisione, nell’evidenziarne la carenza di prova e nel sollecitarne la ufficiosa acquisizione, senza verifica dell’impossibilità, per la parte onerata, di una sua rituale produzione; in disparte la questione dell’evidente irritualità dell’acquisizione della documentazione in sede di consulenza tecnica di ufficio una volta maturate le preclusioni istruttorie, per l’esame di documenti e registri non prodotti in sede di consulenza contabile l’art. 198 cod. proc. civ. esige il previo consenso delle parti, il quale è evidentemente mancato nella fattispecie per la legittima opposizione della parte non onerata, cioè, in quanto convenuta, dell’azienda di credito;

10.3. erra pertanto nel ritenere legittimo, perché discrezionale e meramente integrativo dell’onere assertivo e probatorio dell’onerata attrice, l’esercizio dei poteri istruttori ufficiosi (duplice ordine ex art. 2711 cpv. cod. civ. e c.t.u. contabile);

10.4. erra cosi nell’individuazione del corretto significato delle denunciate norme in tema di esibizione di scritture contabili e di consulenza tecnica di ufficio e nella loro applicazione alla fattispecie;

10.5. erra, pertanto, nel porre a fondamento della sua decisione le risultanze delle attività istruttorie indicate, cioè la consulenza tecnica di ufficio basata su documenti acquisiti all’esito di due ordini di esibizione scorrettamente impartiti.

11. Deve allora concludersi nel senso che:

11.1. l’erronea individuazione dei presupposti per l’esercizio del potere istruttorio ufficioso impone quindi da un lato – di qualificare erroneamente emanato il duplice ordine di esibizione ed erroneamente disposta la consulenza tecnica di ufficio su documenti non acquisiti e dall’altro lato – la riconsiderazione dell’intero materiale probatorio acquisito dai giudici del merito, affinché ne sia espunto tutto quello che è stato acquisito al processo in dipendenza del malamente impartito duplice ordine di esibizione, in violazione del seguente principio di diritto: in tema di prove documentali e di scritture contabili delle imprese, perché il giudice eserciti legittimamente i suoi poteri istruttori ufficiosi (tra i quali quello di esibizione previsto dall’art. 2711 cpv. cod. civ. e quello di disporre consulenza tecnica di ufficio) occorre che la parte onerata della prova abbia tempestivamente e con sufficiente analiticità allegato i fatti specifici da munire di prova e che, sempre tempestivamente, abbia almeno fondatamente allegato di non avere altro mezzo (o di avere invano esperito altri mezzi) per conseguire la prova stessa:

11.2. Occorrerà quindi valutare se, espunto il materiale probatorio acquisito all’esito o in dipendenza di uno scorretto esercizio del relativo potere istruttorio ufficioso, la decisione finale possa – o meno – validamente fondarsi comunque su altri elementi già ritualmente acquisiti e presenti in atti, ovvero se la domanda risulti alla fine sfornita di valido supporto probatorio, con ogni conseguenza.

12. La gravata sentenza va pertanto cassata, con rinvio alla medesima corte di appello, ma in diversa composizione, affinché – ad essa devoluta anche la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità – rivaluti i fatti di causa resi oggetto del gravame dell’odierna ricorrente alla stregua del principio di diritto indicato al paragrafo precedente.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il ricorso; cassa la gravata sentenza e rinvia alla corte di appello di Brescia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

 

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