L’amministratore di fatto: un intraneus o un extraneus nel reato proprio? (F. Zarba)

 

L’AMMINISTRATORE DI FATTO: UN INTRANEUS O UN EXTRANEUS NEL REATO PROPRIO?

Flavia Zarba

 

 

Viene definito amministratore di fatto quel soggetto che, sprovvisto della relativa investitura da parte dei competenti organi sociali, pone in essere condotte di gestione nell’ambito dell’impresa collettiva.

Il codice civile prevede, infatti, in tema di società e consorzi, all’art. 2639 c.c., che “Per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. (…)

La complessiva riforma in materia societaria prevista dal D.Lgs. n. 61/2002 prevede anche l’estensione delle qualifiche soggettive “proprie” dei reati societari, con l’intento di adeguare il diritto al dato fattuale. L’attuale 2639 c.c. stabilisce, infatti, che ai soggetti formalmente investiti di una data qualifica o titolari di una determinata funzione (ad esempio gli amministratori ) sono equiparati, ai fini della responsabilità, a fronte dei reati di cui agli articoli da 2621 a 2638, i soggetti che svolgono sul piano sostanziale la stessa funzione, nonostante sia diversamente qualificata sul piano formale;esercitano in modo continuativo e significativo poteri tipici inerenti a una determinata qualifica o funzione; sono legalmente incaricati dall’Autorità giudiziaria o dall’Autorità pubblica di vigilanza di amministrare le società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi.

La figura dell’amministratore di fatto ricorre, dunque in tutti i casi in cui un soggetto, non formalmente investito della carica, si ingerisce  nell’amministrazione, esercitando fattualmente i poteri propri inerenti la gestione della società. La disposizione sembra essere una trasfusione normativa degli approdi giurisprudenziali prevalenti che, in adesione alla concezione funzionalistica, hanno estenso la responsabilità penale in capo all’amministratore di fatto, sia in relazione ai reati societari individuati dal codice civile, sia in relazione ai reati fallimentari : “La configurazione nell’art. 2639 cod. civ. della nozione di amministratore di fatto non comporta che questi possa essere ritenuto autore esclusivamente dei reati societari e non anche di quelli fallimentari.” (Cass. Sez. V pen. ;  sent. 08/10/2012 num. 39535).

Posto dunque che la disciplina penale attinge, per quel che concerne gli aspetti nozionistici, alle categoria del diritto civile, urge sin da subito precisare che anche per ogni aspetto concernente la responsabilità penale, oltre che civile, vi è una totale  assimilazione tra la figura dell’amministratore di fatto a quello regolarmente in carica. La Giurisprudenza e la Dottrina hanno enucleato le condizioni, al ricorrere delle quali, sussista la figura dell’amministratore di fatto :a) assenza di una efficace investitura assembleare; b) attività esercitata, non occasionalmente ma continuativamente; c) funzioni riservate alla competenza degli amministratori di diritto; d) autonomia decisionale (non subordinata) rispetto agli amministratori `di diritto. Il presupposto essenziale, affinchè sussista la responsabilità penale in capo all’amministratore di fatto, è, dunque, l’esercizio dell’attività gestoria in maniera continuativa, non essendo sufficiente un’occasionale spendita dei poteri inerenti la funzione.

Tale requisito della “continuità dell’attività gestoria” da parte dell’amministratore di fatto tenta di recuperare, sul piano probatorio, il deficit di tassatività nascente dal difetto di un’investitura formale (anche sub specie di un atto di delega). Secondo quanto chiarito dalla Giurisprudenza, l’amministratore di fatto non risponde dunque come extraneus, ma come intraneus perchè la responsabilità per i reati societari o fallimentari prescinde dalla qualifica formale del soggetto. Tale qualifica, di per sé presupposto dei reati propri, viene supplita dunque, dall’esistenza degli indici sintomatici sopra descritti, primo tra tutti, l’esercizio di un’attività non occasionale.

Quando l’articolo 223 del Rd 16 marzo 1942 n. 267 indica i soggetti che possono commettere bancarotta fraudolenta, in caso di fallimento di società di capitali, si riferisce non all’aspetto formale di investitura alla “qualifica” di amministratore (o direttore generale, sindaco ecc.), bensì alle mansioni concrete inerenti a tale qualifica, poiché la ratio della legge deriva dall’obbligo di lealtà e correttezza nell’espletamento di quelle mansioni, sicché sarebbe irrazionale – in relazione all’interesse tutelato – escludere da quell’obbligo chi eserciti “di fatto” le funzioni di amministratore, nella piena connivenza degli organi societari, pur senza esserne formalmente investito”.(Cass. Sez V, 3 giugno 2002, n.21535). “La giurisprudenza è giunta dunque ad attribuire rilevanza al mero esercizio di fatto di funzioni, superando così la fictio iuris della necessità di nomina implicita e ribadendo l’equiparazione, sul fronte dei doveri, tra la figura dell’amministratore di fatto e quella dell’amministratore di diritto, per cui il primo risponde a titolo di reato proprio di tutte le condotte penalmente rilevanti.” (Cass. V Sez. pen. Sent. n. 11649 del 27 marzo 2012).

Una diversa soluzione condurrebbe ad affermare che l’attività penalmente illecita dell’amministratore di fatto non costituisca reato per mancanza di investitura nella carica, con la conseguenza di ritenerlo esonerato da ogni responsabilità penale.

Anche se è stata avallata oramai da tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente e pertanto è da ritenersi pacifica la responsabilità penale,  di chi, fattualmente eserciti le funzioni proprie dell’amministratore o di qualsiasi altra figura responsabile della società, non quale extraneus nel reato proprio commesso dagli organi sociali della società, bensì come destinatario diretto della norma, il fatto che tale principio sia stato positivizzato non toglie possibili incertezze interpretative. Infatti, in assenza del requisito della continuatività dell’attività gestoria ed in relazione al singolo atto di gestione potrà ipotizzarsi una responsabilità concorsuale dell’extraneus “amministratore di fatto” occasionale nel reato proprio dell’amministratore legale.

La questione relativa alla configurabilità di una responsabilità penale in capo all’amministratore di fatto si inserisce nel più ampio discorso relativo all’accezione formale o sostanzialistica relativa all’identificazione del responsabile dei reati propri. Sul punto la dottrina ha sollevato svariati problemi interpretativi non trascurabili. In primo luogo, andrà chiarito quale sia l’esatta individuazione dei criteri di continuità e significatività rispetto ai poteri tipici della funzione, posti a base, della “equiparazione” tra i soggetti de pleno jure e quelli di fatto; ove tali requisiti, rispondenti ad un imprescindibile bisogno di certezza, dovessero essere intesi in modo rigido, tutte le ipotesi in cui l’attività dell’amministratore di fatto non sia “continuativa” o “significativa”, potrà essergli addebitata alcuna responsabilità per “fatto proprio” ma, piuttosto, una responsabilità per concorso.

Ciò perchè la previsione civilistica non chiarisce se l’ “equiparazione” comporti una responsabilità concorrente o sostitutiva, in quanto nulla aggiunge sul piano della ricostruzione della fattispecie in termini di concorso di persone. Riguardo a quest’ultima forma di responsabilità il legislatore avrebbe dovuto cercare di dar “luce” in ordine ai criteri di liberazione da responsabilità del possessore della qualifica formale, per il fatto posto in essere dall’amministratore di fatto.

Dunque, volendo prendere atto di un’altra interpretazione, più restrittiva, della norma si dovrebbe optare per l’applicazione dell’art 110 cod. pen. Ciò in considerazione del giusto assunto per cui sembra essere davvero rara l’ipotesi in cui il rappresentante legale sia davvero“estraneo” alla gestione sociale che si svolge a sua insaputa, tenuto conto che, proprio per semplici ragioni formali e organizzative, la sua collaborazione, seppur subordinata o guidata, è necessaria. De iure condendo è auspicabile un chiarimento circa la portata ed i limiti dell’estensione delle qualifiche soggettive alle figure di fatto. Tuttavia la una recente Giurisprudenza si è pronunciata nei seguenti termini : “Sotto il profilo soggettivo, sussiste la responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta, a titolo di concorso, dell’amministratore di diritto della società, anche se abbia assunto la carica quale semplice prestanome (cosiddetta testa di legno) di un altro soggetto (il quale concretamente abbia agito come amministratore di fatto), in presenza della sola consapevolezza che la propria condotta omissiva è  idonea a provocare il verificarsi delle ipotesi di cui all’articolo 216 della legge fallimentare ovvero a determinare l’accettazione del rischio che esse si verifichino.” (Cass. Sez. V penale, sent. 3 giugno 2002, n. 21521).

È ormai pacifico dunque che l’amministratore di fatto rientri a pieno titolo nell’alveo dei soggetti attivi dei reati fallimentari, non escluso quello di bancarotta tanto da potersi configurare una responsabilità dell’amministratore di diritto per concorso di reato  con il vero dominus della società (amministratore di fatto).  La ragione di tale assestamento di dottrina e giurisprudenza trova giustificazione nella natura stessa del ruolo rivestito da tale figura, la quale, pur priva di formale incarico, dirige la propria attività gestionale a favore degli interessi societari, curandone le esigenze alla stregua di un amministratore legalmente investito.

Attività che egli suole svolgere senza essersi munito del consenso espresso dei legali amministratori della società, o comunque senza che ne consti opposizione, magari perché concordi al fatto che l’amministratore irregolarmente nominato, o interdetto per pena di legge a rivestire formalmente quel ruolo, continui ad occuparsene da “dietro le quinte”. Per questo motivo, non v’è chi non ammetta la responsabilità penale del soggetto che “di fatto”amministra l’azienda. Al fine di vagliare la qualità di amministratore di fatto, occorre valutare «non già la totale sovrapposizione di funzioni esercitate dal soggetto non qualificato rispetto a quelle proprie dell’amministratore», posto che «che l’esercizio dei poteri o delle funzioni dell’amministratore di fatto può verificarsi in concomitanza con l’esplicazione dell’attività di altri soggetti di diritto, i quali esercitino in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione». (Cass. V Sez. pen. ; Sent. n. 15065/2011).

Inoltre, a detta degli Ermellini di Piazza Cavour, “il soggetto che assuma, in base alla disciplina prevista dall’art. 2639 cod. civ., la qualifica di amministratore “di fatto”, essendo tenuto ad impedire ex art. 40, comma secondo, cod. pen. le condotte illecite riguardanti l’amministrazione della società o a pretendere l’esecuzione degli adempimenti previsti dalla legge, è responsabile di tutti i comportamenti, sia omissivi che commissivi, posti in essere dall’amministratore di diritto, al quale è sostanzialmente equiparato”.(Cass. Sez.III pen.; sent.29 agosto 2012 n.33385).

Come noto, i reati propri, richiedono, per la sussistenza del fatto tipico, che esso venga realizzato da soggetti dotati di una determinata qualifica, come, per esempio, quella di amministratore. Tale concetto sembra essere stato stravolto  dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61 che, modificando l’art. 2639 cod. civ. (e prevedendo l’equiparazione tra  soggetto formalmente investito della qualifica e soggetto tenuto a svolgere la funzione in modo continuativo e significativo) ha posto fine alle incertezze interpretative fiorite sotto la vigenza della normativa abrogata. Si ribadisca, al termine di tale excursus giurisprudenziale che il fulcro di tale disamina  è l’intenzione della costante giurisprudenza di rimarcare la ratio essendi della novella del 2002, sostenendo, in relazione ai reati societari, la responsabilità “propria e personale” di chi (pur non possedendo la qualifica) esercita i poteri in maniera continuativa e significativa. Responsabilità configurabile, si ripeta, senza passare attraverso lo schema del concorso dell’extraneus nel reato proprio.

Questa scelta,come suddetto, svaluta la qualifica formale e sposta l’attenzione sulle caratteristiche della gestione posta in essere, che, ai fini dell’imputazione come reato autonomo, deve essere svolta in maniera continuativa e significativa. Tale requisito però non chiarisce se per l’assunzione di fatto della qualifica soggettiva occorra l’esercizio del complesso dei poteri inerenti a detta qualifica oppure se sia sufficiente l’esercizio di talune delle funzioni proprie della qualifica formale. Se ne evince che  l’art. 2639 cod. civ. non brilla certo per determinatezza e precisione ed è perciò il Giudice a doversi, di volta in volta, far carico di una tale incombenza.

A ciò si aggiunga che una  lacuna legislativa di tale tenore non sembra potersi colmare in via interpretativa, posto che l’equiparazione di qualifiche soggettive tra loro non corrispondenti equivale effettivamente a un’analogia in malam partem. Ed è proprio per questo motivo che la giurisprudenza reagisce riesumando l’orientamento affermatosi sotto la vigenza della normativa abrogata, secondo cui la qualifica soggettiva va riconosciuta a chi, anche di fatto, esercita le funzioni e i poteri ad essa corrispondenti.

A conclusione di tali osservazioni, veniamo ora al commento di una recente pronuncia della Cassazione penale Sez. V; num. 10963 del 2013. Trattasi di un procedimento per bancarotta fraudolenta documentale il cui dato rilevante al fine di quanto sin qui asserito è che, l’individuazione dell’amministrare di fatto di una Srl, può passare attraverso la “prodigalità” del soggetto verso i dipendenti. Sembra interessante evidenziare come il ruolo di dominus dell’azienda possa essere svelato attraverso un tale indice rivelatore. Indice che ( seppur non annoverato tra gli indici sintomatici per il riconoscimento dell’amministratore di fatto ) sembra  essere una sfumatura dell’attività continuativa e non occasionale posta in essere dall’ amministratore di fatto, vero “dominus dell’azienda”.

Nella pronuncia della Cassazione emerge che “il reale dominus dell’azienda fosse Caio, il quale non solo dava direttive, ritirava incassi, disponeva trasferimenti di dipendenti, ma compiva anche atti di liberalità verso i predetti (la cena sociale offerta a tutti gli impiegati”. Queste sono state le considerazioni che hanno condotto i giudici di legittimità a dichiarare inammissibile il ricorso del reo il quale lamentava l’assenza di elementi che ne provassero il ruolo. Tale recentissima sentenza è emblematica al fine rimarcare quanto detto in commento in tema di amministratore di fatto e della sua responsabilità in qualità di intraneus alla luce della sua equiparazione con l’amministratore di diritto.

 

 

 

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