Se il paziente dimesso muore non sempre agli eredi spetta il risarcimento Cassazione, sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28287 (F. Federici)

 

SE IL PAZIENTE DIMESSO MUORE NON SEMPRE AGLI EREDI SPETTA IL RISARCIMENTO

Cassazione, sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28287

Federica Federici

(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 2/1012)

 

 

Massima

Se una paziente, recatasi al pronto soccorso, fa di tutto per essere dimessa e successivamente decede, la responsabilità dei sanitari non è automatica e non sempre agli eredi spetta il risarcimento.

 

Sintesi del caso

I giudici di primo grado avevano riconosciuto una responsabilità dei medici per non avere neanche effettuato la TAC alla signora che si era recata al pronto soccorso per un fortissimo mal di testa. Era stato accordato il risarcimento al marito e agli eredi. La paziente – secondo la tesi attorea – non aveva ricevuto le necessarie cure del caso, né le erano stati praticati i dovuti accertamenti diagnostici all’atto del suo iniziale ricovero, avvenuto alle ore 1,39 del giorno precedente il decesso. L’esito negativo dei primi accertamenti neurologici non era stato significativo, sebbene alcuni elementi quali la localizzazione, l’intensità e la durata del dolore alla testa, che – nonostante i farmaci somministrati – non si attenuò nel corso delle tre ore che la paziente fu trattenuta in ospedale avrebbero dovuto insospettire i medici. Il consenso alle dimissioni fu sottoscritto dal marito e non dalla moglie che non era in condizioni di farlo. Secondo i giudici di primo grado tali sintomi avrebbero dovuto ragionevolmente indurre il neurologo a non consentire le dimissioni della donna e a sottoporla al più presto ad un esame strumentale atto a confermare o fugare ogni dubbio

La Corte d’appello aveva fondato il ragionamento sul presupposto che in caso di responsabilità medica il nesso causale sussiste anche quando, sulla base di un criterio probabilistico, si può ritenere che se fosse stato prestato un soccorso adeguato da parte del sanitario, si sarebbe potuto impedire l’evento dannoso.

 

Quesito da risolvere

              Con il primo motivo la ricorrente denuncia la omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – violazione degli artt. 13 e 32 Cost. – violazione e/o falsa applicazione della L. n. 833 del 1978, artt. 33 e 34;

              Con il secondo motivo denuncia la omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.;

              Con il terzo motivo denuncia la omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – violazione e falsa applicazione dell’art. 132;

              Con il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 106 e 346 c.p.c.

 

Nota esplicativa

I giudici di legittimità hanno sottolineato come, in sede di merito, non si sia seguito un giusto percorso logico: occorreva, infatti, in primo luogo accertare se la TAC fosse effettivamente necessaria e se la relativa omissione costituisse dunque colpa medica; in secondo luogo sarebbe stato d’obbligo verificare se il tempestivo esame diagnostico avrebbe evitato, con elevato grado di probabilità, la morte della paziente.

Secondo i giudici di prime cure invece i medici non solo non avrebbero dovuto consentire le dimissioni della donna, ma avrebbero dovuto subito praticare quegli esami strumentali che potessero fugare ogni dubbio o confermarlo e prevenire l’ictus avvenuto poche ore dopo. L’atipico dolore insistente e proprio i pregressi episodi simili riferiti dalla paziente all’atto del suo ricovero d’urgenza infatti avrebbero dovuto allertare i medici se una cefalea con le caratteristiche di quella accusata vittima potesse essere, secondo la letteratura medica, un chiaro sintomo di una fase iniziale di emorragia cerebrale.  Ai fini della sussistenza del rapporto eziologico fra il comportamento ritenuto omissivo dei sanitari ed il momento di insorgenza dell’emorragia, ha considerato che “proprio il brevissimo lasso di tempo intercorso tra il primo ricovero con le dimissioni della paziente ed il secondo ricovero, lascia ragionevolmente presumere che l’insorgenza dell’aneurisma sia da porre nelle ore in cui la paziente è stata trattenuta in ospedale per il primo ricovero, sicché è configurabile il nesso causale fra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito.

La paziente invece ha rifiutato il ricovero, sostenendo che non era necessario e dalla risultanze probatorie dei registri ospedalieri la Cassazione invece ha desunto la mancanza di prove che dimostrino la negligenza del comportamento dei medici che hanno permesso le dimissioni, non esistendo peraltro alcuna possibilità di ricovero coattivo.

Inoltre lo stesso neurologo, che ha sottoposto a visita specialistica la vittima, in sede di esame testimoniale nel giudizio di primo grado, ha dichiarato che la diagnosi di cefalea vasomotoria era stata supportata dalla anamnesi positiva per precedenti episodi e ricoveri presso centri specialistici per lo studio delle cefalee, specificando di avere effettuato esame neurologico ed esame del fondo dell’occhio, risultati entrambi negativi, proponendo, comunque, il ricovero in reparto neurologico.

In questo contesto gli aspetti di “sospetto”, a giudizio della Cassazione, sembrano perdere il loro significato inequivoco. Secondo i giudici di legittimità l’errore in primo grado è non essersi posti il problema se, in assenza di sintomi caratteristici e con l’effettuazione di tutte le procedure del caso, il quadro clinico delineato era tale da imporre l’esame diagnostico della TAC al fine di prevenire l’emorragia, o comunque da attenuarne le conseguenze. Non si sono cioè domandati se le condizioni cliniche della paziente, accertate con gli strumenti corretti, ed in assenza di sintomi attestanti in atto alterazioni neurologiche, come si ricava dalla sentenza impugnata, prevedessero come dovuta anche l’effettuazione di una TAC.

In sostanza le due domande che la Corte di merito avrebbe dovuto porsi erano:

1) Se le condizioni concrete accertate a seguito del primo ricovero della T. fossero tali da esigere l’effettuazione – come protocollo medico – di una tac. 2) Se l’indagine strumentale mediante TAC, ove compiuta, sarebbe stato in grado, con elevate probabilità, di scongiurare l’evento, o, comunque, da circoscriverne gli effetti dannosi.

In questa prospettiva, l’accertamento del nesso causale mediante il criterio probabilistico, al quale viene ancorato il giudizio di responsabilità dei sanitari per l’omissione (mancata tac) nella loro attività operativa – che “se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili probabilità di evitare il danno verificatosi” – perde di decisività. In definitiva, soltanto dopo aver dato risposta ai quesiti che precedono (colpa e causalità, senza sovrapposizione dei reciproci piani), la Corte di merito avrebbe potuto ritenere la sussistenza o meno della responsabilità riconosciuta ai medici ed alla struttura sanitaria per l’opera negligentemente fornita alla paziente.

L’unico motivo di ricorso accolto è stato il quarto.

 

Sentenza difforme e precedenti conformi

Nella materia della responsabilità professionale del medico, il nesso causale sussiste anche quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare l’evento verificatosi (Cass. 27.4.2010 n. 10060; e Cass. 11.5.2009 n. 10743).

 

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