L’esposizione ad amianto non basta a provare che la malattia sia dovuta al luogo di lavoro Cassazione, sez. IV, 12 marzo 2012, n. 9479

 

L’ESPOSIZIONE AD AMIANTO NON BASTA A PROVARE CHE LA MALATTIA SIA DOVUTA AL LUOGO DI LAVORO

Cassazione, sez. IV, 12 marzo 2012, n. 9479

 

Per potere addebitare l’evento dannoso [qui la morte del lavoratore sulla base della ipotizzata esposizione lavorativa] al titolare della posizione di garanzia, prima ancora di poter articolare un giudizio sui profili di colpa, occorre che la dinamica del sinistro possa essere ricostruita con certezza. Ciò che si deve escludere, imponendosi una pronuncia liberatoria, quando, pur non essendo priva di plausibilità l’ipotesi accusatoria, basata su una determinata eziologia della malattia, non risulti possibile avere prova certa dell’evento, per la coesistenza di un’alternativa ipotesi eziologica, che escluda, invece, l’addebito di responsabilità. In tale evenienza, infatti, la coesistenza delle diverse ipotesi, entrambe non confutabili radicalmente, conduce ad una situazione di dubbio irresolubile sullo sviluppo causale degli accadimenti, che appunto giustifica l’adozione della pronuncia assolutoria.

 

 

Cassazione, sez. IV, 12 marzo 2012, n. 9479

(Pres. Marzano – Rel. Piccialli)

 

 

Ritenuto in fatto

La Corte d’Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, per quanto qui rileva, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di C.M. e CO.Ca. in ordine al delitto di omicidio colposo in danno del lavoratore S.F. per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione ed ha condannato i predetti imputati ed il responsabile civile CF OMISSIS s.p.a. al risarcimento dei danni in favore della parte civile INAIL ed alla rifusione delle spese legali della parte civile; ha invece confermato il giudizio assolutorio nei confronti dei predetti imputati in ordine ad altri sette episodi lesivi nei confronti di altri lavoratori per difetto di prova sull’esistenza del rapporto di causalità tra condotta colposa e singoli eventi reato.

In particolare, la Corte territoriale ha condiviso l’opinione del primo giudice secondo la quale non è possibile affermare la responsabilità degli imputati, nella rispettiva qualità di responsabile dal 1956 e di direttore dal 1967 al 1981 dello stabilimento della CF. Omissis s.p.a. sito in (omissis), con riferimento agli eventi lesivi diversi da quelli riguardanti il S. , alla luce conclusioni dei periti nominati dal Tribunale. I periti, nell’esaminare i singoli casi dei lavoratori ammalatisi di carcinoma polmonare ed uno di carcinoma alla laringe, avevano affermato un grado solo medio di probabilità che l’esposizione professionale potesse avere contribuito al processo tumorale, laddove l’abitudine al fumo aveva probabilmente contribuito in vario modo all’insorgenza delle neoplasie. Si sottolineava, altresì, con riguardo alla CF Omissis che non risultavano evidenze di tumori particolarmente significative (su una forza lavoro che nel corso degli anni si attestava intorno alle duemila presenze erano stati riscontrati complessivi undici casi di tumore polmonare).

Con riferimento alla morte del S. il Tribunale, pur ritenendo provato l’utilizzo di talco industriale in grande quantità sia nel reparto mescole che in quello stampaggio ove lavorava il S. , ha ritenuto non sufficientemente provata la contaminazione da asbesto perché non conosciuti presso la CF OMISSIS casi di mesotelioma pleurico o di asbestosi pleurica, ossia le tipiche patologie dal contatto del lavoratore con l’amianto.

La Corte di merito ha, invece, ritenuto che la malattia che ha cagionato il decesso del S. fosse riconducibile alla esposizione di questi ad amianto presso la CF Omissis. I giudici di appello hanno fondato tale convincimento, innanzitutto, sul dato che il S. è l’unico lavoratore sul quale gli esiti dell’autopsia avevano consentito di rilevare la presenza di rari corpuscoli dell’asbesto e di placche pleuriche, prova della esposizione all’amianto del lavoratore, che dal 1972 al 1996 aveva lavorato alla CF Omissis come addetto alla produzione delle mescole ed allo stampaggio e successivamente non aveva svolto alcuna diversa attività.

I giudici di appello hanno ritenuto non condivisibile l’affermazione dei periti che, pur concludendo nel senso che l’esposizione all’amianto aveva probabilmente contribuito in modo sinergico all’insorgere della patologia, avevano asserito non dimostrabile che l’esposizione fosse avvenuta presso la CF Omissis, basandosi sulla documentazione fornita dalla società al proprio consulente di parte in ordine al talco industriale utilizzato dalla CF Omissis riferentesi esclusivamente agli acquisti di tale materiale effettuati nei primi anni 80.

Ricorrono per cassazione sia gli imputati che il responsabile civile CF Omissis s.p.a..

C. e CO. , con distinti ricorsi, articolano un unico motivo con il quale lamentano la manifesta illogicità della sentenza laddove riconduce la malattia che ha cagionato il decesso del lavoratore alla colposa esposizione di questi ad amianto presso la CF Omissis. Si sostiene che tale valutazione è stata fondata solo su congetture e dando per dimostrata la presenza di asbesto nel talco utilizzato dall’impresa solo in ragione dell’argomento che negli anni 60/70 detto talco era normalmente contaminato da asbesto, in contrasto con gli elementi emergenti dalla perizia svolta dal Tribunale e da quella della difesa, che avevano escluso tale contaminazione. Inoltre, i giudici di appello, nell’escludere il rilievo della precedente attività lavorativa svolta in agricoltura dal S. ai fini dell’esposizione all’amianto, avevano trascurato le dichiarazioni rese dai periti al dibattimento secondo le quali tutte le coperture dei depositi di stoccaggio del foraggio in quegli anni erano di cemento amianto. Si sostiene, inoltre che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto che effettivamente non vi erano stati casi di asbestosi presso la CF Omissis in quanto, come spiegato dai periti nel corso del’esame dibattimentale e riportato nella sentenza di primo grado, al S. , oltre al carcinoma polmonare, erano state diagnosticate esclusivamente placche pleuriche, patologie riscontrate anche nella popolazione non professionalmente esposta, che si distinguono dalla vera e propria asbestosi.

Si lamenta infine la manifesta illogicità della motivazione che aveva ricondotto con certezza causa della morte del S. all’esposizione ad amianto. Si sostiene sul punto che dagli atti emergeva che il S. , oltre ad essere affetto da placche pleuriche aveva un carcinoma polmonare, che, secondo gli stessi periti, poteva essere stato causato in modo predominante dall’abitudine al fumo. Inoltre i medesimi periti avevano riferito in dibattimento di non essere in grado di rispondere a cosa sarebbe successo ai lavoratori affetti da placche pleuriche – tra cui il S. – se non fossero stati fumatori.

Il responsabile civile CF OMISSIS s.p.a. articola due motivi.

Con il primo deduce la nullità della sentenza per manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta esposizione professionale ad amianto del lavoratore S. presso lo stabilimento CF Omissis di (omissis).

Si sostiene che la Corte di appello per ricondurre l’esposizione ad asbesto del S. al periodo lavorativo presso la CF OMISSIS ha fatto uso di un sillogismo di tipo deduttivo, fondato sull’uso di talco industriale in quella azienda e sul dato statistico indimostrato per cui gran parte del talco industriale utilizzato in quegli anni nelle industrie della Omissis era contaminato da impurezze di asbesto. La tesi della esposizione appare invece confutata dagli sudi epidemiologici e dall’assenza di tumori spia dell’esposizione nella storia della CF OMISSIS. Immotivatamente la Corte di appello avrebbe escluso la diversa origine dell’asbesto riscontrato nei polmoni del S. nonostante i dati statistici introdotti dai periti in ordine al diffuso utilizzo di amianto in campo agricolo ed edile.

Con il secondo motivo lamentano la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra l’ipotizzata esposizione ad amianto e la patologia tumorale diagnosticata al lavoratore. Si sostiene che i giudici di appello non abbiano fatto buon uso dei principi consolidati in giurisprudenza sull’utilizzo del sapere scientifico e sull’accertamento del nesso causale nell’ambito di esposizione professionale a fattori oncogeni. Le argomentazioni possono così sintetizzarsi: le tracce di asbesto dimostrano solo l’esposizione del lavoratore all’amianto; la Corte di merito ha scartato l’ipotesi di una origine della neoplasia dal fumo di sigaretta, facendo riferimento alla tesi scientifica del consulente del pubblico ministero, senza però trattare le diverse ragioni prospettate dai periti del Tribunale in ordine alla derivazione dal fumo di sigaretta di tale carcinoma, così violando la procedura operativa tracciata dalla recente giurisprudenza di legittimità in ordine alla selezione ed utilizzo del sapere scientifico posto alla base del giudizio; travisamento delle vantazioni proposte dai periti in ordine all’efficienza causale del fattore amianto nella genesi del carcinoma diagnosticato al lavoratore.

Su tale ultimo punto, si sostiene che il giudizio di prognosi postuma sulla efficienza causale dell’eventuale esposizione ad amianto nella genesi ed accelerazione della malattia si pone in termini di assoluta incertezza: periti nominati dal Tribunale, infatti, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, hanno attribuito rilevanza causale certa e decisiva per la produzione del carcinoma al fumo di sigaretta ed interrogati sulla sussistenza di un contributo eziologico dell’asbesto nella insorgenza della malattia hanno qualificato tale probabilità come di grado medio, indicando un coefficiente probabilistico del 50% – 60%. In conclusione, attraverso una prognosi postuma, i periti hanno affermato che, ipotizzata un’esposizione professionale presso la CF OMISSIS, non è possibile affermare con ragionevole certezza cosa sarebbe successo se il lavoratore non fosse stato esposto ad amianto, e cioè se la neoplasia sarebbe insorta ugualmente o meno, oppure in tempi diversi.

È stata depositata memoria difensiva nell’interesse della parte civile INAIL, con la quale è stato chiesto il rigetto dei ricorsi, la conferma della responsabilità civile degli imputati e la condanna dei medesimi e del responsabile civile al risarcimento del danno subito dall’INAL quantificato in Euro 234.768,72.

A fondamento di tali conclusioni si sostiene l’inammissibilità dei ricorsi che si limiterebbero a richiedere una diversa ricostruzione dei fatti nonché la violazione del principio di autosufficienza degli stessi.

Si sostiene altresì la coerenza della decisione alla recente giurisprudenza di legittimità laddove è stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione in applicazione della regola di giudizio sancita dall’art. 129, comma, c.p.p., non sussistendo l’evidenza della prova, sancita dalla citata norma. Si sostiene, infine, l’irrilevanza nel giudizio di legittimità, in caso di sopravvenuta causa estintiva del reato, del vizio di motivazione.

 

Considerato in diritto

 

La sentenza va annullata, per l’assoluta assenza di elementi in grado di supportare il necessario nesso eziologico tra la morte del lavoratore e la pretesa esposizione lavorativa.

Va ricordato che, per potere addebitare l’evento dannoso [qui la morte del lavoratore sulla base della ipotizzata esposizione lavorativa] al titolare della posizione di garanzia, prima ancora di poter articolare un giudizio sui profili di colpa, occorre che la dinamica del sinistro possa essere ricostruita con certezza. Ciò che si deve escludere, imponendosi una pronuncia liberatoria, quando, pur non essendo priva di plausibilità l’ipotesi accusatoria, basata su una determinata eziologia della malattia, non risulti possibile avere prova certa dell’evento, per la coesistenza di un’alternativa ipotesi eziologica, che escluda, invece, l’addebito di responsabilità. In tale evenienza, infatti, la coesistenza delle diverse ipotesi, entrambe non confutabili radicalmente, conduce ad una situazione di dubbio irresolubile sullo sviluppo causale degli accadimenti, che appunto giustifica l’adozione della pronuncia assolutoria (Sezione IV, 15 dicembre 2010, Proc. gen. App. Firenze ed altri in proc. Lenzi).

Ciò è quanto risulta nella vicenda esaminata, laddove, secondo proprio la ricostruzione fattuale operata in sentenza, la riconducibilità del decesso del S. all’amianto è solo una delle opzioni possibili, risultando contrastata obiettivamente dalla acclarata presenza di un carcinoma polmonare in un soggetto per anni dedito al fumo.

A fronte di tale opzione alternativa, la Corte territoriale l’ha esclusa senza in alcun modo corrispondere agli argomenti difensivi dei ricorrenti e senza fornire un’adeguata spiegazione delle ragioni che l’avevano portata a svalutare gli esiti della perizia svolta in primo grado, laddove i periti non avevano supportato affatto il giudizio sull’efficienza causale del fattore amianto nella genesi della patologia.

È ovvio che in questa sede non si può rispondere ai quesito sulla eziologia della malattia che ha portato al decesso del lavoratore, né si può interloquire sulla attendibilità scientifica degli apporti scientifici che il giudice ha disatteso.

In effetti, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poiché si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile dalla Corte di cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale (Sezione IV, 20 aprile 2010, Bonsignore).

È proprio facendo applicazione di questi principi che è immediatamente apprezzabile la manifesta illogicità, oltre che la eccessiva semplificazione motivazionale, della sentenza in esame, che non ha affatto proceduto ad un’attenta disamina della perizia il cui esito si andava a disattendere, esprimendo però il proprio convincimento in modo apodittico e contrastato da alcune circostanze fattuali incompatibili logicamente con la soluzione adottata.

Infatti, in nessun conto è stata presa la circostanza dell’essere stato il S. un fumatore, con caratteristiche tali da fondare in modo affatto irrilevante l’eziologia della malattia tumorale.

In nessun conto è stata presa la circostanza che, per gli altri lavoratori interessati al procedimento, era difettata alcun prova a supporto della eziologia delle malattie in termini compatibili con quanto invece ritenuto per il S. : circostanza sintomatica dal punto di vista epidemiologico, ma del tutto trascurata.

In questa prospettiva, la decisione appare apodittica e non in grado di superare il vaglio di legittimità, imponendosi così l’annullamento senza rinvio della sentenza perché il fatto non sussiste.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di C.M. e Co.Ca. perché il fatto non sussiste.

 

 

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