La mediazione obbligatoria è incostituzionale per eccesso di delega: ecco l’attesa sentenza della Corte Costituzionale. Corte Costituzionale, sentenza 24 ottobre – 6 dicembre 2012, n. 272

1.2.— Con riferimento, invece, al ricorso n. 11235 del 2010, il rimettente si sofferma sui tre motivi di impugnazione e sulle eccezioni di illegittimità costituzionale, ritenendo rilevante soltanto quella sollevata con riferimento al primo motivo (illegittimità derivata dalla illegittimità degli artt. 5 e 17 – recte: 16 – del d.lgs. n. 28 del 2010, in relazione agli artt. 24, 76 e 77 Cost.); anche la ricorrente UNCC sostiene che il legislatore sia incorso in eccesso di delega là dove ha previsto l’obbligatorietà del procedimento di mediazione e l’improcedibilità del giudizio introdotto senza il previo esperimento della mediazione, entrambi non previsti dalla legge delega.

Ciò premesso, il TAR osserva come punto centrale della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, «nonché qualificante espressione dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio, alla luce delle prime due doglianze di cui al ricorso», sia la «dedotta omissione, da parte dell’art. 4 dell’impugnato regolamento, dei criteri volti a delineare i requisiti attinenti alla specifica professionalità giuridico-processuale del mediatore».

L’illegittimità di tale omissione – ad avviso del rimettente – andrebbe apprezzata alla luce delle previsioni contenute nell’art. 4 della direttiva 2008/52/CE e nell’art. 60 della legge n. 69 del 2009.

L’art. 16 del citato decreto legislativo, di cui il regolamento costituisce attuazione, avrebbe trascurato la valenza di detti requisiti, quelli appunto di competenza e professionalità, sostituendoli con altri, quelli di serietà ed efficienza, che il regolamento impugnato ha fatto propri, ma che non soddisferebbero le esigenze considerate dal legislatore comunitario e da quello nazionale delegante.

Osserva il rimettente come i requisiti di competenza e professionalità sarebbero, invece, insopprimibili, soprattutto se si considera che, per un vasto ventaglio di materie, l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, anch’esso sospettato di illegittimità costituzionale, rende l’esperimento della mediazione condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Il giudice a quo, poi, al fine di risolvere in via ermeneutica il problema della sovrapponibilità dei concetti di competenza e professionalità, nonché serietà ed efficienza, non trascura il tentativo di sottoporre l’art. 60 della legge n. 69 del 2009 e l’art. 16 del d.lgs. citato ad una interpretazione costituzionalmente orientata, tenendo conto della necessità di una stretta continuità e coerenza delle disposizioni, anche in relazione all’art. 4 della direttiva 2008/52/CE.

Il TAR, però, ritiene tale interpretazione non praticabile, in quanto essa «non esaurirebbe che in misura molto limitata l’ambito delle questioni sottoposte a giudizio, lasciando aperto l’interrogativo circa il ruolo che l’ordinamento giuridico nazionale intenda effettivamente affidare alla mediazione, là dove è proprio la puntuale individuazione di tale ruolo ad essere imprescindibilmente pregiudiziale all’apprezzamento dei requisiti che è legittimo richiedere al mediatore o da cui è legittimamente consentito prescindere».

Secondo il rimettente, infatti, «una cosa è la costruzione della mediazione come strumento cui lo Stato in un vasto ambito di materie obbligatoriamente e preventivamente rimandi per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio; altra cosa è la costruzione della mediazione come strumento generale normativamente predisposto, di cui lo Stato incoraggi o favorisca l’utilizzo, lasciando pur tuttavia impregiudicata la libertà nell’apprezzamento dell’interesse del privato ad adirla ed a sopportare i relativi effetti e costi».

Ad avviso del rimettente, dunque, l’esame delle doglianze proposte in relazione al regolamento n. 180 del 2010 non potrebbe prescindere dall’accertamento della correttezza, in raffronto ai criteri della legge-delega e ai precetti costituzionali, tenuto conto delle disposizioni comunitarie, delle scelte operate dal legislatore delegato, e in particolare dalla verifica della correttezza delle seguenti disposizioni: dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, il quale ha conformato gli organismi di conciliazione a qualità che attengono essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica e che sono scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici o professionali di carattere qualificatorio, ovvero strutturale; dell’art. 5 del d.lgs. ora citato, che ha configurato, per le materie ivi previste, l’attività dei mediatori come insopprimibile fase processuale, cui altre norme del decreto assicurano effetti rinforzati e in quanto tale suscettibile in ogni suo sviluppo o di conformare definitivamente i diritti soggettivi da essa coinvolti, o di incidervi anche là dove ne residui la giustiziabilità nelle sedi istituzionali e si intenda adire la giustizia ordinaria; dell’intero d.lgs. n. 28 del 2010 nel quale si rinvengono, ad avviso del rimettente, elementi che farebbero emergere due scelte di fondo: l’una, mirante alla de-istituzionalizzazione e de-tecnicizzazione della giustizia civile e commerciale nelle materie stesse, e l’altra alla enfatizzazione di un procedimento para-volontario di componimento delle controversie.

Tali scelte, poi, non risulterebbero in armonia con un’altra opzione fatta propria dal decreto delegato: è, infatti, previsto che l’atto, il quale conclude la mediazione, sottoposto ad omologazione, possa acquistare efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12 del d.lgs. citato), rientrando a pieno titolo tra gli atti aventi gli stessi effetti giuridici tipici delle statuizioni giurisdizionali, là dove nel corso della mediazione, ed ai sensi del decreto legislativo stesso, il profilo della competenza tecnica del mediatore sbiadisce e anche il diritto positivo viene in evidenza solo sullo sfondo, come cornice esterna ovvero come generale limite alla convenienza delle posizioni giuridiche in essa coinvolte (divieto di omologare accordi contrari all’ordine pubblico o a norme imperative, art. 12 del d.lgs.).

Il rimettente ritiene necessario che l’interpretazione dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, propedeutica all’esame dell’impugnata disposizione di cui all’art. 4 del regolamento, sia correlata con quanto previsto dall’art. 5 dello stesso decreto, «il cui combinato disposto costituisce il vero perno della regolazione delegata».

Il Collegio ritiene, dunque, che le prime tre disposizioni dell’art. 5 del d.lgs. citato si porrebbero in contrasto con l’art. 77 Cost., in quanto non possono essere ascritte all’art. 60 della legge delega, atteso che non è possibile rilevare alcun elemento che consenta di ritenere che la regolazione della materia andasse effettuata nei sensi delle dette previsioni; e questo per i motivi di seguito indicati: a) nessuno dei criteri e principi direttivi previsti e nessun’altra disposizione di detto articolo assumerebbe espressamente l’intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale; b) nessuno dei criteri o principi configurerebbe l’istituto della mediazione quale fase pre-processuale obbligatoria: detto tema non potrebbe ritenersi rientrare nell’ambito di libertà, ovvero nell’area di discrezionalità connessa alla legislazione delegata, in quanto non costituirebbe né un mero sviluppo delle scelte effettuate in sede di delega, né una fisiologica attività di riempimento o di coordinamento normativo, e ciò sia che si tratti di recepire la direttiva comunitaria n. 2008/52/CE, sia che si tratti della riforma del diritto civile.

Inoltre, il rimettente osserva come, tenuto conto del silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tema, sarebbe stato necessario che l’art. 60 della legge citata avesse lasciato trasparire elementi in tal senso univoci e concludenti.

Secondo il rimettente, poi, si dovrebbe escludere che l’art. 60 della legge n. 69 del 2009 con la locuzione di cui al comma 2, ovvero regolare la riforma «nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria», e con il principio e criterio direttivo posto alla lettera c) del comma 3, ovvero «disciplinare la mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria», possa essere inteso quale delega al Governo a compiere qualsiasi scelta occasionata dalla direttiva più volte citata, che il Governo non è stato neanche chiamato a recepire.

Il TAR si sofferma, poi, sul rapporto tra la direttiva 2008/52/CE e la norma di delega, ponendo in rilievo le seguenti disposizioni: in primo luogo, la scelta compiuta dall’art. 60 della legge citata, ossia quella di estendere le normative comunitarie sulla mediazione anche ai procedimenti ricadenti nell’ordinamento nazionale (ciò alla luce dell’ottavo Considerando) non limitandola solo alle controversie transfrontaliere; la disposizione di cui all’art. 3, lettera a), della direttiva stessa, secondo cui gli Stati devono valutare se il procedimento di mediazione debba essere «avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro»; l’art. 5, paragrafo 2, secondo cui la direttiva lascia «impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario», tenendo conto del limite costituito dalla necessità che «non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario» (art. 5, comma 2, della direttiva citata).

Pertanto, osserva il rimettente, le ricadute della scelta estensiva dell’istituto della mediazione, consistente nel prevederne l’applicazione anche alle controversie oggetto dei procedimenti interamente ricadenti nell’ordinamento interno, sono molteplici ed attengono alle varie modalità con cui tale estensione, salvaguardando l’accesso alla giustizia, può essere effettuata nei singoli ordinamenti ed in primis all’opzione di rendere il ricorso alla mediazione «prescritto dal diritto», quindi obbligatorio e «soggetto a sanzioni».

Ad avviso del TAR, se anche l’art. 60 della legge delega avesse avuto un intento integralmente recettivo della direttiva n. 2008/52/CE, il silenzio del legislatore delegante su tali ultime opzioni non potrebbe avere, alla luce della doverosa interpretazione della delega ai sensi degli artt. 24 e 77 Cost., «il significato di assentire la meccanica introduzione nell’ordinamento statale delle opzioni comunitarie che, rispetto al diritto di difesa, appaiono le più estreme, ovvero la “prescrizione di diritto” per talune materie dell’obbligatorietà del ricorso alla mediazione e la predisposizione della “massima sanzione” per il suo eventuale inadempimento, qual è l’improcedibilità rilevabile anche di ufficio come, al contempo, ha fatto l’art. 5 del decreto delegato».

Il rimettente osserva, ancora, come nessun elemento decisivo possa trarsi dal principio e criterio direttivo previsto dalla lettera a) del comma 3, dell’art.60, della legge delega, là dove dispone che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili «senza precludere l’accesso alla giustizia», in quanto il legislatore, utilizzando tale ultima espressione, avrebbe inteso soltanto rispettare un principio assoluto e primario dell’ordinamento nazionale (art. 24 Cost.) e di quello comunitario.

Il giudice a quo ritiene, infatti, che, se da un lato sia vero che potrebbe non ritenersi precluso ex se l’accesso alla giustizia dalla previsione di una fase pre-processuale obbligatoria, perché, anche se così conformata, essa lascerebbe aperta la facoltà di adire la via giurisdizionale, sarebbe altresì vero che «non tutto ciò che è in via generale permesso all’autorità delegante può ritenersi anche consentito alla sede delegata».

Ciò premesso, ad avviso del rimettente, pur potendosi ammettere che le prime tre disposizioni dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. citato, isolatamente considerate, non siano in contrasto con l’art. 24 Cost., alla stessa conclusione potrebbe non pervenirsi tenendo conto degli effetti derivanti dal loro coordinamento con altre disposizioni dello stesso decreto legislativo ed in particolare con l’art. 16 di esso.

Posto, dunque, che i criteri e principi direttivi finora considerati appaiano neutrali al fine di verificare la rispondenza dell’art. 5 del d.lgs. alla legge delega, il rimettente osserva come ben due principi e criteri direttivi depongano, invece, a favore proprio della previsione della facoltatività della procedura.

È, in primo luogo, posta in rilievo la lettera c) del comma 3, dell’art. 60, della legge delega, la quale prevede che la mediazione sia disciplinata anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).

Il richiamo al d.lgs. n. 5 del 2003, ad avviso del giudice a quo, farebbe escludere che la scelta del carattere obbligatorio della mediazione possa essere ascritta alla legge-delega; l’art. 40, comma 6, del d.lgs. n. 5 del 2003 (ora abrogato dall’art. 23 d.lgs. n. 28 del 2010), infatti, solo se «il contratto ovvero lo statuto della società prevedano una clausola di conciliazione e il tentativo non risulti esperito» stabiliva che «il giudice su istanza della parte interessata proposta nella prima difesa dispone la sospensione del procedimento pendente davanti a lui fissando un termine di durata compresa tra trenta e sessanta giorni per il deposito dell’istanza di conciliazione davanti ad un organismo ovvero a quello indicato dal contratto o dallo statuto».

Da ciò conseguirebbe che il modello legale valorizzato dall’art. 60 della legge delega, mediante il richiamo al d.lgs. n. 5 del 2003, sarebbe quello delineato da norme di fonte volontaria privata, contratto o statuto sociale, nel senso che sarebbe rimesso ad un momento volontario privato, cioè alla facoltà della parte che vi ha interesse e non alla forza cogente della legge, far constatare nel giudizio già avviato, ed entro termini stabiliti, la sussistenza di una clausola conciliativa ed il mancato esperimento della conciliazione.

Il rimettente osserva che nulla muta considerando che il decreto delegato n. 28 del 2010, al comma 2 dello stesso art. 5, affianca al meccanismo sospetto di illegittimità costituzionale un meccanismo coincidente con quello di cui al d.lgs. n. 5 del 2003, in forza del quale è il giudice adito, anche in sede di appello, che, valutati una serie di elementi, invita le parti a procedere alla mediazione e differisce la decisione giurisdizionale: tale disposizione, infatti, tiene comunque «fermo quanto previsto dal comma 1».

Ad avviso del TAR, il comma 2 ora menzionato farebbe rilevare maggiormente la incisività della diversa scelta compiuta dal legislatore delegato al comma 1 dello stesso articolo, di subordinare, nelle materie ivi previste, il diritto di difesa in giudizio all’esperimento della mediazione, rendendo ancora più pressante l’esigenza che di una siffatta scelta si individui il preciso fondamento nella legge delega.

In secondo luogo, il rimettente pone in rilievo la lettera n) del più volte citato art. 60 della legge delega; tale disposizione prevede il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima della instaurazione del giudizio, della «possibilità» e non dell’obbligo di avvalersi della conciliazione.

Al riguardo il giudice a quo rileva che la possibilità è, ovviamente, diversa dalla obbligatorietà e l’accentuazione di tale differenza non sarebbe superflua, vertendo nel campo della deontologia professionale, ovvero in un complesso di obblighi e doveri la cui inosservanza può determinare conseguenze pregiudizievoli in base all’ordinamento civile (risarcimento del danno), amministrativo (sanzioni disciplinari) e pubblicistico (art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 28 del 2010), che richiedono l’esatta individuazione del precetto presidiato dalle sanzioni.

Infatti, l’art. 4 del d.lgs. citato differenzia, al comma 3, l’ipotesi in cui l’avvocato omette di informare il cliente della «possibilità» di avvalersi della mediazione, da quella in cui l’omissione informativa concerne i casi in cui l’espletamento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale; ciò anche se, poi, il medesimo comma 3 dell’art. 4 non diversifichi la sanzione concernente le due ipotesi, entrambe ricondotte all’unica categoria della «violazione degli obblighi di informazione» e all’annullabilità del contratto intercorso tra l’avvocato e l’assistito «nonostante la maggiore pregiudizievolezza della seconda».

Il TAR si sofferma, poi, sulle difese formulate dalle amministrazioni resistenti, secondo cui lo schema procedimentale seguito sarebbe quello dell’art. 46 della legge 3 maggio 1982, n. 203 (Norme sui contratti agrari), in tema di controversie agrarie.

Al riguardo, il Collegio ritiene che tale argomentazione non sia da condividere, in quanto la risalente legge ora citata, che configura un meccanismo in forza del quale il previo esperimento del tentativo di conciliazione assume la condizione di presupposto processuale, la cui carenza preclude al giudice adito di pronunciare nel merito della domanda, oltre a concernere le limitatissime (rispetto alle materie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010) ipotesi di contratti agrari, non è menzionata in alcuna parte della legge delega che invece, come più volte rilevato, richiama la diversa fattispecie del già citato d.lgs. n. 5 del 2003.

Alla luce di quanto argomentato, il TAR rimettente ritiene che l’art. 5, comma 1, e segnatamente il primo, il secondo ed il terzo periodo, nonché l’art. 16, comma 1, del d.lgs. citato, là dove dispone che abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione debbano essere gli enti pubblici e privati che diano garanzie di serietà ed efficienza, siano in contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost.

In particolare, la violazione dell’art. 24 Cost. sussisterebbe «nella misura in cui [dette disposizioni] determinano, nelle considerate materie, una incisiva influenza da parte di situazioni preliminari e pregiudiziali sull’azionabilità in giudizio di diritti soggettivi e sulla successiva funzione giurisdizionale, su cui lo svolgimento della mediazione variamente influisce. Ciò in quanto esse non garantiscono, mediante un’adeguata conformazione della figura del mediatore, che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi derivanti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione per assentire o rifiutare l’accordo conciliativo, rispetto a quelli suscettibili, nel prosieguo, di essere evocati in giudizio».

Sussisterebbe il contrasto anche con l’art. 77 Cost., atteso il silenzio serbato dal legislatore delegante in tema di obbligatorietà del previo esperimento della mediazione al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie, nonché tenuto conto del grado di specificità di alcuni principi e criteri direttivi fissati dall’art. 60 della legge n. 69 del 2009, che risultano in contrasto con le disposizioni stesse.

I principi e criteri direttivi di cui alle lettere c) e n) del comma 3, dell’art. 60 della legge citata, ad avviso del rimettente, porterebbero ad escludere che l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione, al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie, possa rientrare nella discrezionalità affidata alla legislazione delegata, quale mero sviluppo o fisiologica attività di riempimento della delega, anche tenendo conto della sua ratio e della sua finalità, nonché del contesto normativo comunitario al quale è ricollegabile.

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