Responsabilità della struttura sanitaria (G. Postiglione)

 

RESPONSABILITÀ DELLA STRUTTURA SANITARIA

Gaia Postiglione

 

Seppur brevemente, bisognerà delineare i principi vigenti nell’ambito della responsabilità medica soffermandosi sulla distinzione esistente nella sfera  civilistica e penalistica, del principio di casualità.

E’ pacifico ormai (Cass. 21619/2007) che nell’accertamento del nesso causale civile, è possibile accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale dal momento che  la causalità civile obbedisce alla logica del “più probabile che non”.

Sia dal punto di vista funzionale che morfologico, gli istituti presentano infatti delle differenze che si palesano anche nell’ambito della tipicità (caratterizzante il diritto penale) e della atipicità.

La casualità elaborata dai civilisti prevede la preponderanza dell’evidenza o del principio del “piu’ probabile che non” a differenza del campo penale dove si sostiene che la prova non puo’ che essere quella “oltre il ragionevole dubbio”.

La giustificazione delle predette diversità concerne i valori in gioco nei due ambiti fermo restando che la casualità civilistica dovrà comunque essere accertata dal Giudice il quale valuterà caso per caso utilizzando perizie orientate nella logica del “più probabile che non”.

In ossequio a quanto esposto, in relazione alla casualità, questa dal punto di vista civilistico non potrà che fondarsi su logiche chiaramente probabilistiche.

Ciò premesso, svariati possono essere gli errori dei sanitari i quali,possono arrecare danni non solo alla vittima ma anche ai suoi familiari e, molto spesso, questi danni sono conseguenti o ad imperizia (dovuta alla scarsa preparazione ), o  ad un comportamento negligente oppure a una mancanza nelle cautele necessarie (imprudenza).

La giurisprudenza è concorde nell’inquadrare la responsabilità della struttura sanitaria nell’ambito della responsabilità contrattuale dal momento che, sin dall’accettazione del paziente in ospedale si determina la conclusione di un contratto mentre il rapporto intercorrente tra il medico e il paziente si fonda non sul contratto bensi’ sul “contatto sociale” il quale ha natura contrattuale.

Il contatto sociale tra medico e paziente genera nel primo, in virtù del suo status e della clausola generale di buona fede, obblighi di protezione nei confronti del paziente.

In riferimento alla ripartizione ed il contenuto degli oneri probatori, la Cassazione con sentenza n. 20954/2009 ha stabilito che la colpa medica deve essere valutata considerando l’affidamento che il paziente pone nella diligenza del sanitario, il quale ha una responsabilità di natura contrattuale; risulta quindi applicabile il disposto dell’art. 1218 C.C., per cui al creditore della prestazione che lamenti l’inadempimento è sufficiente allegare il nesso causale tra mancato adempimento e danno sofferto, competendo invece al debitore provare la non imputabilità della sua causa ovvero la mancanza di colpa.

Pertanto, il paziente che assume di aver subito un danno a seguito di un trattamento medico, deve provare la sussistenza di un nesso causale tra il presunto inadempimento e il danno mentre la struttura sanitaria dovrà dimostrare l’assenza di colpa.

Un importante aspetto concerne pero’ la distinzione tra le obbligazioni di mezzi (caratterizzate da prestazioni conformi al criterio di diligenza ex art. 1176 c.c. a prescindere dal raggiungimento di un determinato risultato) e le obbligazioni di risultato ( dove l’oggetto è appunto il raggiungimento del risultato stesso) che è riconducibile al contratto di opera manuale ex art. 2222 c.c.

Nel predetto caso il mancato raggiungimento del risultato integra ex se l’inadempimento mentre, nella prima ipotesi, verrà dato rilievo all’uso della diligenza e prudenza entrambe dirette verso un risultato finale che non dovrà necessariamente essere positivo.

Ultimamente è sempre piu’ difficile compiere la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato anche se le conseguenze dal punto di vista probatorio sono rilevanti poichè, nella prima ipotesi ci troviamo dinanzi a un risultato aleatorio e pertanto l’onere probatorio graverebbe sul creditore mentre, nelle obbligazioni di risultato il debitore dovrà invece provare il caso fortuito e della forza maggiore ( non deve provare l’assenza di colpa) tale da rendere oggettivamente impossibile il raggiungimento di quel risultato.

Nell’ambito delle sempre più frequenti diagnosi errate, l’errore medico può palesarsi non solo mediante l’utilizzo di strumentazioni diagnostiche sbagliate ma, anche da medici non sufficientemente specializzati.

La diligenza cui è tenuto il medico nell’adempimento dell’obbligazione è qualificata, non essendo sufficiente la diligenza del buon padre di famiglia. L’espressione di tale diligenza è la perizia intesa come la conoscenza e applicazione di quel complesso di regole tecniche proprie della categoria professionale di appartenenza

A tal proposito, la giurisprudenza in passato riteneva che  la colpa nell’esercizio della professione medica fosse possibile solo nei casi di colpa grave, ossia allorquando si manifestavano casi  diviolazione delle più elementari regole mediche.

In questi casi l’errore doveva essere macroscopico dal momento che si sosteneva che la malattia in alcuni casi poteva palesarsi in modo non chiaro, semmai con un’equivoca sintomatologia.

In virtù di quanto esposto, in passato l’orientamento giurisprudenziale dominante tendeva a escludere di regola la colpa mentre, l’imputazione della stessa era l’eccezione e si configurava solo in situazioni estreme.

Questo orientamento era supportato dall’articolo 2236 c.c. che dispone testualmente “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave” e il fondamento si basava sulla necessità di tutelare l’attività medica evitando una paralisi della stessa e, di conseguenza, ammettendo solo errori “macroscopici”.

Con il passare del tempo i Giudici di Piazza Cavour si sono allontanati da questo orientamento prendendo il considerazione l’articolo 43 c.p. che da rilievo all’elemento psicologico del reato mentre l’articolo 2236 c.c. avrebbe rilievo solo nell’ambito del risarcimento del danno vero e proprio e, tale norma, opererebbe solo nei casi in cui la responsabilità professionale concerneproblemi tecnici di particolare complessità.

La Corte di Cassazione, inoltre, con sentenza n. 28287, depositata il 22 dicembre 2012, ha ribadito  che anche in caso di omissione diagnostica la responsabilità del medico non è automatica e se un paziente che è stato dismesso muore non è detto che gli eredi abbiano comunque diritto al risarcimento del danno.

Gli Ermellini hanno ribaltato il verdetto dei primi gradi di giudizio che si basava esclusivamente sulla omissione diagnostica mentre la  Cassazione ha fatto notare che non può esserci alcun tipo di automatismo nel riconoscere la responsabilità medica e enunciando il seguente principio di diritto: “secondo la Corte perchè sussista responsabilità occorre che il percorso logico del giudice del merito si sia articolato in due momenti: il primo teso ad affermare la doverosità dell’esame diagnostico al fine di accertare l’esistenza di una colpa medica, il secondo (subordinamente alla risposta positiva al primo quesito) finalizzato all’accertamento del nesso di causalità, se cioè il tempestivo accertamento diagnostico avrebbe potuto – con elevato grado di credibilità razionale – impedire l’evento-morte”.

 

I Giudici hanno dato rilievo anche al fattore “urgenza”dell’intervento medico, il quale poteva incidere notevolmente sull’accertamento della colpa professionale poichè l’urgenzaandrebbe ad esonerare da responsabilità il sanitario che  per fronteggiare una situazione critica, si troverebbe ad operare senza.

In ossequio a quanto detto, i Giudici hanno enunciato il seguente principio di diritto: “La valutazione della colpa medica deve essere compiuta con speciale cautela nei casi in cui si richiedano interventi particolarmente delicati e complessi e che coinvolgano l’aspetto più squisitamente scientifico dell’arte medica. In particolare, l’ analisi prudente e attenta di ciascun caso può consentire di distinguere i casi nei quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi sovente accresciuta dall’urgenza, da quelle situazioni in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l’urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in urgenza”. (Cass. pen., Sez. IV, 31 gennaio 2008).

Un’ipotesi diversa concerne una recente sentenza della Cassazione civile ( sez. III,  2 ottobre 2012,  n. 16754), che riconosce per la prima volta al neonato il diritto al risarcimento del danno. Nel caso di specie l’omessa diagnosi della sindrome di down deve essere imputata  al medico la cui responsabilità non discende dall’omessa diagnosi in sé considerata” bensì dal fatto che in tal modo si è violato il “diritto di autodeterminazione della donna nella prospettiva dell’insorgere, sul piano della causalità ipotetica, di una malattia fisica o psichica”.

La Cassazione estende poi il diritto al risarcimento, già sancito per il padre, anche a fratelli e sorelle del neonato che “rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta”.

La nascita di un fratello con handicap, infatti, precisano i Giudici di Piazza Cavour, si riverbererà in termini di minor disponibilità dei genitori, di perdita di “serenità e distensione” in ambito familiare, oltre che a tendere in un onere economico.

 

 

 

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