Il trust-interno: inquadramento civilistico (E. W. Di Mauro)

 

  1. La tradizione romanistica.

Nelle Istituzioni di Gaio è usata l’espressione fiduciam contrahere. Ciò significa che gli atti con i quali si trasmette fiduciariamente la cosa, in vista di una sua futura restituzione, sono considerati dal giurista simili a quelli che egli include tra i contratti, ma a parte questo cenno ad una sottintesa affinità, la fiducia non appare in alcuna classificazione relativa ai modi di costituzione delle obbligazioni. Con essa, in base ad un rapporto fiduciario e di amicizia, si trasferisce la proprietà di un bene ad un acquirente, che si obbliga alla restituzione dopo un certo tempo o in seguito al verificarsi di determinate condizioni[9].

Gli atti di trasmissione fiduciaria costituiscono potere sulla cosa (con un pieno affidamento di una delle due parti alla lealtà dell’altra) al fine di garantire un credito oppure la sicurezza dei beni che vengono temporaneamente ceduti. Sono atti solenni come la mancipatio e l’in iure cessio. Non si può dire che la dazione faccia sorgere l’obbligo; piuttosto, questo è il risultato di un accordo, fondato sulla fides e sull’amicitia.

Le due parti convengono, nel momento in cui viene trasferita l’appartenenza di un bene, che esso debba ritornare al dominus originario, secondo modalità diverse dipendenti dallo scopo perseguito.

“La fiducia viene contratta – spiega Gaio – o con un creditore, pignoris iure, o con un amico, affinché le nostre cose siano più al sicuro presso di lui…”[10]. L’espressione pignoris iure non può indicare una identificazione con la disciplina del pegno. I due schemi sono strutturalmente diversi: basta ricordare che con la fiducia si trasferisce il meum esse.

Ciò che Gaio sottolinea è un’analogia di funzione. La fiducia cum creditore ha la stessa finalità del pegno.

Invece, la fiducia cum amico implica che i beni del cedente, nel momento in cui sono a rischio per avversità o conflitti, siano trasferiti a qualcuno più potente di un lui: un amico, un protettore che lo aiuti. In questa ottica, il rapporto di amicitia sottintende un dislivello di potere e rassomiglia alla clientela. La fiducia cum amico svela un’affinità con lo schema del deposito, in cui il fine del depositare non è trasferire l’appartenenza del bene al depositario, ma soltanto affidargliene la custodia per un certo tempo. Qualcosa di simile avveniva anche nell’antica mancipatio familiae, fondata su un rapporto di amicizia e di affidamento tra il disponente e il familiae emptor. Tuttavia questa finalità sembra compiersi comunque nella fiducia cum amico attraverso un trasferimento del dominio, con conseguente obbligo di restituzione[11].

 

  1. Il Trust nel diritto civile italiano[12].

4.1.    Il dibattito della dottrina.

 

Sono trascorsi diversi anni dall’entrata in vigore in Italia della Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento.

Nonostante il tempo trascorso, può affermarsi che solo negli ultimi anni si è avuta una concreta diffusione dell’istituto in Italia, ed una piena consapevolezza da parte degli operatori giuridici delle sue potenzialità.

A fronte di tale diffusione non può tacersi che sussistono molteplici incertezze in merito alla disciplina dell’istituto, a partire dai problemi, molto rilevanti e preliminari ad ogni ulteriore discussione, della riconoscibilità in Italia del trust in generale e del trust c.d. interno in particolare.

Ai sensi dell’art. 2 Conv., per trust si intende il rapporto giuridico creato da una persona (c.d. disponente) per atto tra vivi o mortis causa, quando dei beni vengano posti sotto il controllo di un trustee, nell’interesse di un beneficiario o per uno scopo determinato.

Per effetto della stipulazione del trust, a carico del trustee sorge un’obbligazione fiduciaria, avente ad oggetto l’amministrazione e la gestione dei beni in trust secondo il programma stabilito dal disponente e l’attribuzione finale ai beneficiari.

La Convenzione si occupa, inoltre, dei soli trust costituiti volontariamente e provati per iscritto.

È discusso se l’art. 2 Conv. ricomprenda esclusivamente i trusts nei quali il disponente  ed il trustee sono soggetti diversi trust c.d. interno o anche i trusts c.d. auto dichiarati, nei quali le persone del disponente e del trustee coincidono.

Il problema del riconoscimento non si pone con riferimento al trust definibile come internazionale o straniero, cioè il trust i cui elementi importanti sono, così come afferma l’art. 13 Conv., strettamente connessi a Stati che prevedono l’istituto del trust (ad esempio un trust nel quale, pur essendo i beni siti in Italia, il disponente o il trustee non siano cittadini italiani).

Questi trusts sono riconoscibili in Italia, visto che la Convenzione è stata sottoscritta proprio a tal fine e rispetto ad essi si producono sicuramente gli effetti previsti da essa, in particolare quelli previsti dall’art. 11[13].

Invece, con riferimento alla riconoscibilità del trust c.d. interno, intendendosi per tale, come affermato dalla prevalente dottrina, quello i cui elementi costitutivi, fatta eccezione per la legge applicabile, siano connessi all’Italia, cioè nel quale disponente, beni e/o diritti, trustee e beneficiari siano italiani, la dottrina non è univoca, anche se prevalgono le posizioni favorevoli[14].

Pur essendo la Convenzione essenzialmente internazionalprivatistica essa aderisce al criterio di libertà di scelta della legge regolatrice che costituisce una attuale tendenza del diritto internazionale privato.

D’altronde non si vede perché un trust avente ad oggetto beni siti in Italia deve essere riconosciuto se istituito da uno straniero e non esserlo se istituito da un cittadino italiano.

Per quanto concerne le possibili obiezioni di ordine civilistico esse sono prive di pregio in quanto se fossero fondate comporterebbero il divieto di riconoscere qualunque trust e non solo quelli interni, con la conseguente inapplicabilità delle legge di ratifica della Convenzione, il che non è ammissibile.

L’obiezione relativa alla violazione dell’art. 2740 c.c. è ormai superata da parte della dottrina in quanto la sua eventuale violazione, da un lato, non comporta nullità del relativo atto ma solo l’inefficacia[15], dall’altro, comporta la sola applicazione dell’azione revocatoria ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni. Ragionando diversamente tutti gli atti di alienazione dovrebbero considerarsi in violazione dell’art. 2740 c.c. il che evidentemente non è. E se così non è per gli atti di alienazione a maggior ragione non è per gli atti che determinano la separazione patrimoniale, che costituiscono qualcosa di meno rispetto agli atti di alienazione[16].

La Convezione non è pertanto destinata a regolare trust internazionali o trust stranieri, se con questa formula si intende riferire la scelta alla necessità della connessione fra legge straniera e cittadinanza o residenza del disponente o fra legge straniera e luogo ove sono situati i beni; la Convenzione dispone invece che un trust sia riconosciuto negli Stati contraenti alla sola condizione di essere stato costituito in conformità alle norme nella stessa previste.

Quindi un disponente italiano può istituire un trust regolato da legge straniera da lui scelta, pur quando tutti gli elementi oggettivi di internazionalità fossero riferibili all’ordinamento italiano.

 

4.2.    Le questioni discusse.

 

Non si può negare come i problemi da risolvere siano numerosi, sul piano teorico e sul piano della prassi applicativa.

Sotto il primo profilo occorre rilevare come la presenza di una norma come l’art. 15 Conv., che fa salve tutta una serie di disposizioni dell’ordinamento italiano, può determinare seri limiti di applicabilità dell’istituto[17].

Sul piano della prassi applicativa le incertezze riguardano anzitutto la pubblicità e l’opponibilità ai terzi degli effetti del trust, nonché, soprattutto, gli aspetti tributari sia per ciò che concerne le imposte indirette che quelle dirette.

 

4.2.1 Riconoscimento del trust.

 

La questione della riconoscibilità è la più importante, essendo la necessaria premessa ad ogni ulteriore discorso sull’applicabilità dell’istituto in Italia.

La questione, per quanto finora sostenuto, non dovrebbe porsi con riferimento al trust c.d. internazionale in quanto la finalità della Convenzione dell’Aja è proprio quella di consentire, nei Paesi “non-trust” come l’Italia, la produzione di effetti ai trusts regolati da una legge straniera ma aventi elementi di internazionalità ulteriori (es. uno dei soggetti).

Il problema appare discusso riguardo al trust interno. Tuttavia la dottrina prevalente, come già riferito, è favorevole alla riconoscibilità del trust interno. Anche la giurisprudenza, con pronunce esplicite (poche) ed implicite risolve tale problema nel senso della piena legittimità[18].

Per quanto riguarda la figura del c.d. trust auto dichiarato, che probabilmente creerebbe i maggiori problemi, un’interpretazione letterale dell’art. 2 Conv., nella traduzione italiana, sembrerebbe escludere questa figura dal suo campo applicativo, richiedendo che disponente e trustee siano soggetti diversi.

 

4.2.2. L’opponibilità ai terzi.

 

Il tema della pubblicità ha coinvolto e coinvolge prevalentemente i trusts aventi ad oggetto beni immobili[19].

La questione concerne l’interpretazione ed applicazione nel nostro ordinamento dell’art. 12 Conv[20].

Sull’interpretazione di questa norma il dibattito è stato acceso e nessuna delle due posizioni ha finora prevalso (anche se sembra prevalere la tesi della trascrivibilità)[21].

È da notare che la dottrina, che è favorevole alla trascrivibilità dei trusts aventi ad oggetto beni immobili, precisa che ai fini dell’opponibilità ai terzi della segregazione non rivela la trascrizione di per sé, in quanto l’effetto (della segregazione) deriverebbe direttamente dalla legge, cioè dalla Convenzione e pertanto l’eventuale trascrizione avrebbe natura di pubblicità-notizia.

Ciò si ricava proprio dall’art. 12 Conv. Il quale parla di facoltà di richiedere la iscrizione nella qualità di trustee.

In sostanza il trustee potrebbe scegliere tra trascrivere il proprio acquisto come se fosse un proprietario normale oppure trascrivere in qualità di trustee[22].

Nel primo caso il problema dell’opponibilità della qualità di trustee si risolverebbe in maniera empirica.

Nel secondo caso, l’indicazione della qualità di trustee nel quadro “D” rivelerebbe l’esistenza del trust e renderebbe operative le norme della Convenzione, ed in particolare l’art. 11 (che stabilisce l’obbligo di riconoscere il trust e i suoi effetti).

Diversamente, nel caso di vendita a favore del trustee, questi potrebbe intervenire in atto senza rilevare detta sua qualità, così che la trascrizione non recherebbe alcuna indicazione in merito.

Nella prassi delle Conservatorie dei Registri Immobiliari si riscontrano numerosi esempi di trascrizione, sia di atti istitutivi di trust con trasferimento di immobili al trustee, sia di acquisti in favore del trustee, sia di trusts auto dichiarati[23]. Anche la giurisprudenza è conforme alla possibilità di trascrizione del trust[24].

 

 

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