Il trust-interno: inquadramento civilistico (E. W. Di Mauro)

 

  1. L’inquadramento civilistico[25].

 

Alla luce di quanto esposto si può ammettere che i trusts volontariamente istituiti sono l’unica categoria di trusts ammessa nel nostro ordinamento, nonostante l’esperienza dei Paesi di Common Law rechi anche altre categoria di trusts.

In linea di massima la struttura dei trusts è la seguente: un rapporto in virtù del quale un dato soggetto, denominato trustee, al quale sono attribuiti i diritti ed i poteri di un vero e proprio proprietario, gestisce un patrimonio che gli è stato trasmesso da un altro soggetto, denominato disponente (o settlor), per uno scopo prestabilito, purché lecito e non contrario all’ordine pubblico, nell’interesse di uno o più beneficiari o per un fine specifico.

Può anche essere nominato un guardiano (o protector) che ha il compito di controllare che l’operato del trustee sia volto a perseguire lo scopo del trust.

La dottrina più accreditata[26] ha definito il modello di trust convenzionale con l’aggettivo amorfo poiché in esso non sono contenute disposizioni sostanziali uniformi volte a dare una compiuta definizione dell’istituto.

In altri termini la Convenzione indica i requisiti minimi affinché si possa affermare di essere in presenza di un trust (art. 2) e cioè: il rapporto giuridico in base al quale un soggetto, disponente, si spoglia della proprietà di parte o tutti i suoi beni, con atto tra vivi o mortis causa e li pone sotto il controllo di un trustee; l’obbligo di questi di amministrarli nell’interesse di una o più persone (i beneficiari) o per un fine specifico.

La struttura del trust della Convenzione può così riassumersi:

          I beni in trust costituiscono un patrimonio separato rispetto a quello del trustee e del disponente;

          I beni in trust sono intestati al trustee o ad altro soggetto sempre per conto di questi: quindi il trustee è legittimato a pubblicare, nei Registri Immobiliari o dei Mobili Registrati dello  Stato, l’esistenza del trust (art. 12);

          Il trustee ha l’obbligo e il potere di amministrare i beni in trust secondo le disposizioni contenute nell’atto istitutivo di trust;

          Il disponente può riservarsi certi diritti e poteri e sia questi, sia il trustee stesso, possono essere i beneficiari del trust, comunque, non possono coesistere le tre figure in un solo soggetto.

L’effetto più importante prodotto dall’istituzione di un trust è rappresentato dalla segregazione patrimoniale per la quale i beni posti in trust, da chiamarsi a tutti gli effetti beni in trust, costituiscono un patrimonio separato rispetto ai beni residui che compongono il patrimonio del disponente e del trustee. Ne deriva, quale principale conseguenza, che qualunque vicenda personale e patrimoniale che colpisca queste figure non travolge mai i beni in trust.

La segregazione fa sì che i beni in trust non possono essere aggrediti dai creditori personali del trustee, del disponente e dei beneficiari ed il loro eventuale fallimento non vedrà mai ricompresa la massa attiva fallimentare i beni in trust. Sono beni a tutti gli effetti blindati.

I beni in trust risultano quindi efficacemente sottoposti ad un vincolo di destinazione (in sostanza sono destinati al raggiungimento dello scopo prefissato dal disponente nell’atto istitutivo) e ad un ulteriore vincolo di separazione (cioè sono giuridicamente separati sia dal patrimonio residuo del disponente sia da quello del trustee).

Da ultimo si rammenta che il trust, proprio per gli effetti immediati che produce, non può esistere senza proprietà e i beni futuri non possono esserne oggetto.

Uno dei punti di più difficile comprensione è rappresentato dalla dicotomia fra legge applicabile e riconoscimento.

Si può comprendere questo passaggio se si tiene presente che l’Italia non ha una norma di diritto positivo che dia disciplina all’istituto del trust.

Da tale fatto consegue che la legge applicabile ad un atto di trust non possa mai essere quella italiana, mentre è senz’altro l’Italia lo Stato dove si chiederà il riconoscimento dell’atto.

In pratica succede che un trust posto in essere secondo la Convenzione, regolato da una legge straniera rispetto all’ordinamento dove se ne richiede il riconoscimento, deve essere riconosciuto valido e produttivo di effetti nello Stato dove in concreto deve operare. Ciò produce ovviamente la contemporanea sinergia della legge dello Stato estero richiamata, in qualità di legge applicabile, delle norme inderogabili e dei principi di ordine pubblico dello Stato dove il trust è riconosciuto.

L’art. 11 Conv. prevede il riconoscimento per ogni trust costituito in conformità ad una legge specifica; tale riconoscimento non è però obbligatorio, posto che il successivo art. 13 riconosce il potere, allo Stato che dovrebbe provvedere al riconoscimento, di rifiutarlo se gli elementi costitutivi del trust, all’infuori della legge regolatrice richiamata, rimandano ad un diverso ordinamento che non conosca l’istituto.

Questa eventualità è prevista dalla Convenzione  per salvaguardare la sovranità dello Stato chiamato al riconoscimento.

Al contrario è possibile e lecito, proprio in base alla Convenzione, procedere al riconoscimento di un trust interno intendendosi con ciò un trust i cui elementi costitutivi siano tutti nazionali (trustee, disponente, beneficiari e beni in trust italiani) con unico e necessario elemento di estraneità, per le ragioni suddette, la legge applicabile, ad esempio quella inglese.

Teoricamente lo Stato italiano potrebbe non riconoscere un trust interno, argomentando semplicemente in base alla facoltà riconosciuta dal citato articolo 13.

Ma secondo quanto evidenziato nel presente articolo e confermato dalla giurisprudenza ciò deve escludersi[27].

Se, infatti, fosse negata validità ai trusts interni, regolati da legge straniera, si arriverebbe al paradosso per il quale sarebbe obbligatorio riconoscere in Italia trusts istituiti da stranieri, aventi ad oggetto beni siti in Italia e regolati da una legge estera, e, al contrario, negare riconoscimento al trust costituito da cittadino italiano, con evidenti profili di incostituzionalità ex art. 3 Cost.

A questo logico passaggio se ne deve aggiungere un altro: il trust non dà luogo in alcun modo ad uno sdoppiamento del diritto di proprietà.

I beni in trust sono solo e soltanto del trustee con un vero e proprio trasferimento avente natura reale.

Allo stesso modo però il trustee subisce una compressione del suo diritto di godimento dei beni in trust del tutto legittimato dall’art. 832 c.c. ai sensi del quale: il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo.

E difatti il godimento sui beni in trust effettuato dal trustee, legittimo titolare degli stessi, altro non è che un diverso modo di godere e disporre dei suoi beni, che la legge gli riconosce, come diritto soggettivo assoluto, proprio nel disposto dell’art. 832 c.c.

In altri termini, mentre la titolarità del diritto di proprietà è piena, l’esercizio di tale diritto è invece limitato al perseguimento degli scopi indicati nell’atto istitutivo.

Ma tale limitazione ha la sua fonte in un legittimo atto di autonomia negoziale del trustee, che acconsente a divenire tale atto frutto della sua libera volontà dispositiva, meritevole di protezione nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 1322 c.c. L’art. 12 Conv. consente al trustee di richiedere la trascrizione dei beni in trust nella sua qualità di trustee, a meno che ciò non sia incompatibile con l’ordinamento giuridico.

In sintesi si può concludere che:

          L’atto di trust conferisce beni in proprietà al trustee;

          Tale proprietà è piena nella titolarità del diritto, ma limitata nell’esercizio, che è finalizzato al raggiungimento dello scopo perseguito dal disponente con l’istituzione del trust.

          I beni in trust sono a tutti gli effetti segregati dal patrimonio del trustee e di tale separazione, ai fini della protezione dei terzi, del disponente e dei beneficiari, deve essere data menzione nella nota di trascrizione, risultando altrimenti vanificato il fine supremo della trascrizione stessa.

          La trascrizione deve essere effettuata perché una norma internazionale speciale concede alla parte il potere di richiederla e, altresì, perché il trust produce parte degli effetti tipici dei contratti di cui agli artt. 2643 e ss c.c.

 

  1. Il Trust e l’azione revocatoria[28].

 

6.1 Il ruolo dell’azione revocatoria.

 

Per comprendere la serie di problemi che il rapporto trust/azione revocatoria produce, è opportuno partire dall’effetto di diritto interno che si collega alla ratifica, da parte dell’Italia, della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata con la legge n. 364 del 16 ottobre 1989.

A tale ratifica non sono stati posti limiti all’introduzione dello schema dei trusts nel nostro ordinamento, al di fuori di quelli previsti nello stesso testo della Convenzione ratificata, la quale, all’art. 15, fa salve le regole di diritto interno ritenute di applicazione necessaria[29].

Tra tali regole estremamente importante è la riserva nell’art, 15, lett. e), relativa alla protezione dei creditori in casi di insolvibilità e, quindi, all’azione revocatoria, con ciò intendendo escludere che, attraverso il riconoscimento degli effetti dei trusts, si possa derogare alle norme ed ai principi di ordine pubblico della legge richiamata dalle norme in conflitto del foro.

Considerato che ormai i trusts fanno parte del nostro ordinamento e sono pienamente operanti in esso in quanto realizzano interessi meritevoli di tutela, si deve leggere in tale prospettiva la regola contenuta negli artt. 2740 e 2741 c.c. in ordine alla responsabilità patrimoniale del debitore o alla garanzia generica del credito ed al principio del concorso dei creditori nell’aggredire il patrimonio del debitore.

Bisogna chiedersi in primo luogo se gli effetti propri dei trusts, quali risultano, nei loro aspetti essenziali dalla Convenzione dell’Aja, contrastino con il principio sancito dall’art. 2740 c.c. e, in particolare con la riserva di legge prevista nel secondo comma di tale disposizione normativa oppure se il principio desumibile dalla norma del codice sopra citata si ponga su un piano assolutamente diverso.

Ciò non è senza incidenza sul funzionamento pratico dell’azione revocatoria, anche se il ruolo di quest’ultima non riguarda il riconoscimento degli effetti dei trusts nel diritto interno e quindi la validità del negozio dispositivo dei beni da parte del disponente (settlor), ma le limitazioni che all’operatività di quegli effetti si pongono, quando si ritiene che il singolo trust costituisca atto di disposizione da parte del disponente debitore, lesivo eventualmente della garanzia patrimoniale del credito. Pertanto il problema dei rapporti con il principio della garanzia generica del credito e con la regola del concorso dei creditori si pone su un piano preliminare a quello dell’effettiva operatività dell’azione revocatoria, poiché riguarda la stessa ammissibilità, nel nostro ordinamento, della funzione economico-giuridica che i trusts svolgono.

Nella prospettiva dell’art, 2740 c.c. il patrimonio del debitore rileva nel momento in cui bisogna rimediare agli effetti dell’inadempimento, rendendo comunque, anche se entro certi limiti, possibile una realizzazione dell’interesse del creditore grazie alle azioni di natura esecutiva che egli può intraprendere appunto sul patrimonio del debitore al fine di soddisfarsi malgrado l’inadempimento di quest’ultimo; e ciò almeno per quanto riguarda l’esecuzione per espropriazione relativa alle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro, poiché l’esecuzione forzata in forma specifica, quando è possibile sfugge all’operatività del principio in esame, poiché realizza direttamente e non già per equivalente l’interesse del creditore.

Il dibattito che si svolge da tempo sul rapporto tra i principi della garanzia patrimoniale e del concorso dei creditori, da un lato, e del ruolo dell’autonomia privata nel settore della cause di prelazione, dall’altro, ha portato ad un chiaro ridimensionamento del principio della par condicio creditorum o, per usare l’espressione contenuta nell’art. 2741 c.c., che lo prevede in di codice civile, del concorso dei creditori[30]; ridimensionamento da tenere senza dubbio presente.

È certamente da escludersi che il principio in esame possa tradursi in un generale diritto di garanzia sui beni del debitore, secondo la prospettiva del pegno generale ex art. 1949 c.c.; e ciò per la scelta sistematica del nostro codice, che parla più correttamente di concorso e di cause di prelazione[31].

Il principio della par condicio creditorum, anche se si ritiene possa assurgere a principio generale dell’ordinamento ex art. 12 disp. prel. c.c., finisce con lo svolgere un ruolo in pratica residuale solo se si consideri l’abnorme presenza delle cause di prelazione legali nel nostro ordinamento[32], esaurendo la sua portata nel disattendere il criterio della priorità cronologica del credito, quale possibile misura della posizione reciproca dei creditori rispetto alla loro comune aspettativa di soddisfarsi sul patrimonio del debitore.

Il dogma della par condicio creditorum si risolve in definitiva, nell’ambito dell’esecuzione forzata individuale, in un astratto e perciò eguale potere del creditore, una volta che si verifichino i relativi presupposti, di aggredire i beni del debitore eventualmente esistenti nel suo patrimonio, e, nel campo delle procedure concorsuali, in primo luogo nel fallimento, come precisa espressamente l’art. 52 l. fall., nella concreta ed effettiva parità di trattamento di tutti i creditori chirografari, titolari di crediti pecuniari, sancita espressamente, tra l’altro, dall’art. 111, comma 1, n. 3 l. fall., ed operante, grazie allo strumento della revocatorio fallimentare, così come delineato dall’art. 67 l. fall., anche nel così detto periodo sospetto, anteriore alla dichiarazione di fallimento[33].

Ma al di là delle diverse ricostruzioni e dei diversi punti di vista che si adottano nell’interpretare gli artt. 2740 e 2741 c.c., si riconosce che la parità di trattamento dei creditori non è un principio rigido, ma solo un principio direttivo, variamente applicato nelle singole disposizioni di legge alle quali soltanto deve farsi capo[34], dall’altro, si ammette che la stessa regola del concorso, basandosi sul binomio regola-deroga, riconosce all’autonomia privata sia il potere di determinare il contenuto delle cause di prelazione legislativamente previste, secondo il principio sancito nell’art. 1322 c.c., sia quello di creare, come strumenti idonei a garantire il credito, le c.d. garanzie atipiche, come la cessione del credito a scopo di garanzia[35].

In definitiva, grazie alla frequente circolazione dei modelli giuridici e all’espansione del diritto uniforme non deve essere più il legislatore a scegliere la garanzia, ma deve essere l’autonomia dei privati a decidere l’opportunità, i tempi ed i modi di tutela del credito, con conseguente opponibilità al fallimento, poiché proprio in tale momento e grazie a tale effetto si realizza il fondamentale ruolo che la garanzia del credito ha nella vita commerciale[36].

 

6.2 L’effetto segregativo del trust.

 

Dalla determinazione dell’oggetto dell’azione esecutiva del creditore in tutti i beni presenti e futuri del debitore, si fa emergere un’altra caratteristica della responsabilità patrimoniale: quello della sua universalità, secondo cui tutti i beni del debitore, siano essi presenti o futuri, cioè entrati nel patrimonio del debitore dopo il sorgere dell’obbligazione, ma prima dell’inizio del procedimento esecutivo, sono oggetto del procedimento di espropriazione.

Per tale principio dell’universalità della garanzia patrimoniale viene prevista la deroga del secondo comma dell’art. 2740 c.c., secondo cui le limitazioni della responsabilità patrimoniale sono ammesse solo nei casi previsti dalla legge e sono pertanto tipiche, sicché esse possono trovare la loro fonte solo nel dettato legislativo e mai nell’autonomia dei privati. Il richiamo a tale rigoroso principio di legalità delle limitazioni della responsabilità patrimoniale è stato addotto per sollevare perplessità e, molte volte, per negare la stessa possibilità di riconoscimento dei trusts nel nostro ordinamento[37].

Nei termini suddetti il problema dell’ammissibilità dei trusts nel nostro ordinamento e dei limiti che la loro operatività può incontrare per il ricorso al rimedio revocatorio non appare impostato in termini corretti.

In primo luogo occorre ricordare che le limitazioni legali alla responsabilità patrimoniale sono numerosissime e varie anche nel panorama legislativo tradizionale. Esse vanno dall’impignorabilità assoluta ex art. 514 c.c.; all’istituzione di un vero e proprio patrimonio autonomo ex artt. 528 e ss c.c.; alla creazione di un vero e proprio patrimonio separato, come nel caso dei beni dell’erede che ha accettato con beneficio di inventario ex art. 497 c.c..

Le ipotesi in cui tale fenomeno si realizza in tempi recenti sono sempre più frequenti nel nostro panorama legislativo, specialmente nel settore dei mercati finanziari[38]. Esse non possono racchiudersi in un unico schema, tanto che si parla a volte di patrimoni autonomi, altre volte di patrimoni separati, altre volte ancora di segregazione patrimoniale in senso tecnico, schema che ricorre nel caso dei trusts[39].

La segregazione si differenzia già sul piano del contenuto dal patrimonio separato e da quello autonomo, in quanto può riguardare anche un solo bene o diritto e non necessariamente un insieme di situazioni giuridiche. In essa poi, a differenza di quanto accade nel patrimonio separato, vi è un’incomunicabilità assoluta tra beni che ne costituiscono l’oggetto ed il soggetto che ne è titolare, ed una coincidenza, egualmente totale, tra proprietà e gestione, che nel caso del trust è il trustee, e complesso di beni, come invece accade nel patrimonio autonomo, figura ben nota alla tradizione codicistica e spesso utilizzata per destinare masse patrimoniali alla realizzazione di determinati scopi.

L’effetto della segregazione è fenomeno non sconosciuto alla nostra esperienza giuridica, nell’attuale stadio evolutivo del nostro ordinamento giuridico la legge crea sempre più frequentemente casi di segregazione di beni o di complessi di beni per il soddisfacimento di particolari interessi di soggetti terzi, modificando il principio dell’unicità del patrimonio su cui si basa l’istituto della garanzia patrimoniale del credito, sancito dall’art. 2740 c.c. e del concorso dei creditori, sancito dall’art. 2741 c.c.. E ciò per imprescindibili esigenze di tutela di ben determinati interessi sottrae determinate categorie di beni alla regola del concorso dei creditori.

Sulla base di un così articolato panorama legislativo si ritiene ormai da alcuni non più sostenibile che sulla base dell’art. 2740, comma 2, c.c., si possa ritenere esistente un divieto per l’autonomia privata di conseguire la creazione di patrimoni separati[40].

Nell’ipotesi dei trusts il problema si semplifica. In tali fattispecie il disponente (settlor) trasferisce, ma può anche disporre verso se medesimo, il bene o una massa di beni al fiduciario (trustee), che diventa titolare legale a tutti gli effetti dei beni, che però risultano segregati nel suo patrimonio a vantaggio di eventuali beneficiari.

A tale riguardo è da evidenziare che il disponente, con il suo atto di disposizione, assoggettato ai necessari controlli in sede revocatoria secondo la legge del foro in cui esso opera, non limita in alcun modo la responsabilità patrimoniale del fiduciario (trustee) o di se medesimo, secondo la logica dell’art. 2740, comma2, c.c., poiché i beni oggetto dell’atto di disposizione entrano a far parte del patrimonio del fiduciario (trustee), o si dispongono come segregati nel patrimonio dello stesso disponente (settlor), come segregati secondo un potere riconosciuto al disponente dalla Convenzione dell’Aja, così come ratificata dall’Italia.

Sono le disposizioni della Convenzione che legittimano nel nostro ordinamento una particolare tecnica di segregazione dei beni e consentono l’uso di uno strumento particolare e più sofisticato di tutela dei creditori, che si pone accanto, pur nella sua diversità di struttura e di funzione, alla tecnica ben nota delle cause di prelazione. Occorre ricordare che gli artt. 2 e 11 Conv. sono le disposizioni che senza costituire deroghe al principio della garanzia patrimoniale e del concorso, legittimano nel nostro ordinamento gli effetti segregativi sopra indicati.

Deve precisarsi che, poiché i beni dei trusts costituiscono una massa distinta rispetto al patrimonio del trustee, essendo egli investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del singolo trust e le norme particolari impostegli dalla legge (art. 2, comma 2, lett. C), poiché i beni del trust devono essere separati dal patrimonio del trustee in caso di insolvenza di quest’ultimo o di sua bancarotta, i beni futuri oggetto dell’eventuale atto del disponente vengono sempre ad esistenza nel patrimonio segregato che il fiduciario (trustee) gestisce e quindi, a norma dell’art. 11, comma 2, lett. B Conv. e dell’art. 46 l. fall., non potranno mai essere compresi nel fallimento.

 

6.3 L’oggetto dell’azione revocatoria.

 

Il ruolo dell’azione revocatoria non riguarda il riconoscimento degli effetti dei trusts nel diritto interno, ma le limitazioni che all’operatività di quegli effetti si pongono, quando si ritiene che il singolo trust, unitariamente considerato, costituisca atto di disposizione da parte del debitore, lesivo della garanzia patrimoniale del credito.

Con riguardo all’effettiva operatività dell’azione revocatoria, diventa necessario affrontare una serie di problemi, poiché si deve in primo luogo chiarire come la complessa disciplina della stessa, prevista, per la revocatoria ordinaria, nell’art. 2091 c.c. e, per i rimedi in sede fallimentare, negli artt. 64 e ss. l. fall., possa operare rispetto ad un istituto, che si manifesta con una notevole varietà di strutture e di funzioni e che è sorto peraltro in un contesto culturale completamente diverso dal nostro.

Una prima difficoltà riguarda proprio l’individuazione dell’atto pregiudizievole, che viene impugnato con l’azione revocatoria e che costituisce l’oggetto di tale rimedio.

Data l’estrema complessità dei problemi sollevati dal trust, è necessario individuare esattamente il meccanismo con cui l’azione revocatoria incide sugli effetti dell’atto di disposizione che con essa si impugna.

Come è ormai generalmente ammesso nella nostra esperienza giuridica, revocatoria ordinaria e fallimentare hanno un’unica funzione ed un’eguale efficacia, in quanto consentono al creditore e, nel caso di fallimento e delle analoghe procedure concorsuali liquidatorie, al curatore fallimentare o al commissario, di ottenere, in presenza di determinati requisiti, una dichiarazione di inefficacia relativa nei propri confronti, per sua natura costitutiva, degli atti di disposizione del patrimonio, che, anche se validi, arrecano pregiudizio alla garanzia patrimoniale del creditore o, nel caso delle procedure concorsuali, all’intero ceto dei creditori.

Dopo diversi interventi della giurisprudenza[41], la natura costitutiva della sentenza che accoglie la domanda sia di revocatoria ordinaria che fallimentare non viene messa in discussione.

Pertanto, a prescindere dalle conseguenze di tale qualificazione con riferimento all’impossibilità di esecuzione provvisoria della sentenza in questione, sia i presupposti che gli effetti della stessa devono essere individuati in termini coerenti con tale riconosciuta natura.

Con riferimento ai presupposti, è evidente che la giustificazione della sentenza di accoglimento della domanda revocatoria, qualunque sia la sede in cui venga proposta, non può essere la sanzione contro l’atto di disposizione del debitore che viola un presunto vincolo di indisponibilità del patrimonio, a garanzia dei creditori.

Il debitore-disponente-settlor conserva sempre la piena disponibilità dello stesso e l’atto revocato è pienamente valido oltre che lecito, provocando la sentenza solo l’inefficacia relativa dell’atto medesimo e la conseguente reintegrazione della garanzia patrimoniale violata[42]; e ciò sulla base di un giudizio di valore dell’atto medesimo, che riguarda il carattere pregiudizievole e fraudolento dello stesso[43].

 

 

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