Diritto alla vita e danno tanatologico: parola alle sezioni Unite Cassazione, Sez. III Civile – Ordinanza 4 marzo 2014, n.5056

DIRITTO ALLA VITA E DANNO TANATOLOGICO: PAROLA ALLE SEZIONI UNITE

Cassazione, Sez. III Civile – Ordinanza 4 marzo 2014, n.5056

 

di Luca D’Apollo (in parte estratto da Formulario sul danno alla persona Cedam, 2010)

 

La sentenza in commento sottopone alle Sezioni Unite il quesito giuridico che dal 2008 ha ingenerato i maggiori problemi esegetici: se il diritto alla vita sia una voce di danno (autonoma dal danno salute) civilisticamente risarcibile.

Di seguito vengono precisati i termini della questione

 

1. Danni da morte: le voci di danno

Il termine danni da morte viene utilizzato in maniera eterogenea tale da ricomprendere l’intera gamma di danno e pregiudizio subito sia dalla vittima primaria che dalla (dalle) vittima secondaria e che si sostanzia in

•           Danni patrimoniali della vittima primaria

•           Danni non patrimoniali della vittima primaria

•           Danni patrimoniali della vittima secondaria

•           Danni non patrimoniali della vittima secondaria

Rientrano nei danni patrimoniali della vittima primaria tutte le spese documentate e accertate giudizialmente a fronte dell’evento lesivo: spese mediche (visite specialistiche, terapie, riabilitazione, spese farmaceutiche), spese funerarie, danni patrimoniali futuri per perdita capacità lavorativa.

Nella categoria dei danni non patrimoniali della vittima primaria rientrano le lesioni alla sfera soggettiva, personale, psichica, emotiva, relazionale del danneggiato primario. Sarà necessario scindere l’ipotesi della lesione e della morte della vittima primaria.

Nel primo caso questi subisce un pregiudizio molto ampio nella propria sfera personale; volendo utilizzare, a fini descrittivi, le tradizionali voci di danno possiamo ritenere a ragione che in caso di eventi lesivo cui scaturisce una lesione del danneggiato avremo:

•           Danno biologico (fisico e/o psichico): lesione dell’integrità psico-fisica

•           Danno morale: lesione e turbamento dello stato d’animo con carattere temporaneo

•           Danno esistenziale: grave lesione e stravolgimento delle condizioni sociali di vita.

Tutte e tre le voci di danno hanno valore puramente descrittivo del pregiudizio subito e rientrano in un’unica posta risarcitoria: danno non patrimoniale della vittima primaria.

Diversamente nel caso di morte del danneggiato: difficilmente sarà configurabile un pregiudizio di carattere esistenziale. E ciò per una semplice ragione: il carattere esistenziale del danno lamentato indica una permanenza della lesione, una sua durevolezza, che nel caso di morte del danneggiato non si avrà mai.

Escluso il carattere esistenziale il danno non patrimoniale della vittima primaria in caso di morte si compone del danno biologico e del danno morale per la cui descrizione si rinvia ai paragrafi che seguono.

Passando ora ai danni della vittima secondaria, anche qui bisogna scindere le ipotesi di lesione ovvero morte della vittima primaria, facendo particolare attenzione a non confondere i pregiudizi subiti dai prossimi congiunti ex se, quali perdite patrimoniali proprie o lesioni della propria sfera personale/emotiva/sentimentale, da quelli subiti dalla vittima primaria e di cui si chiede giustizia jure hereditatis, ovvero in rappresentanza sostanziale e processuale della vittima primaria.

Nell’ipotesi di persona deceduta a causa di illecita condotta altrui, i prossimi congiunti hanno diritto al risarcimento:

– del danno patrimoniale iure proprio, a seguito di accertamento di utilità economiche di cui che i prossimi congiunti siano stati privati e già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a godere in futuro;

– del danno biologico iure proprio, allorché le sofferenze causate a costoro dalla perdita abbiano determinato una lesione dell’integrità psicofisica degli stessi (se viene fornita la prova che il decesso ha inciso negativamente sulla salute dei congiunti, determinando una qualsiasi apprezzabile permanente patologia o l’aggravamento di una patologia preesistente); vi rientra anche il cd danno psichico dei familiari che si differenza dal danno morale per il carattere permanente del trauma (App. Roma, 19 febbraio 2008, n. 492).

La lesione psichica è l’ingiusto turbamento, giuridicamente apprezzabile, dell’equilibrio psichico della persona, con conseguente impedimento di estrinsecare la propria personalità nel contesto familiare e nel contesto sociale di appartenenza. Il danno psichico invece, come danno conseguenza, deve essere il risultato di una condotta lesiva, e consiste in una patologia psichica che inficia l’equilibrio della personalità del soggetto leso, provocando sofferenza e dolore, che nella scienza medica non sono sinonimi ma due pregiudizi diversi per entità ed intensità (in tal senso Cass. Civ., Sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530, che parla di danno psichico proprio del soggetto vittima del reato ma mutatis mutanndis fornisce una chiara definizione della questio iuris in discorso).

Il punto di partenza per la individuazione e valutazione del danno psichico è quindi la metodologia di accertamento nosografico di uno stato psichico con valore di malattia che accerti l’esistenza del pregiudizio e traduca al giurista in cosa consista il danno ingiusto e se lo stessa sia risarcibile

– del danno esistenziale iure proprio: lesione grave e irreparabile del legame familiare costituzionalmente tutelato.

 

2. Danno biologico-terminale

Nelle ipotesi di morte del danneggiato primario si risarcisce pacificamente il danno biologico terminale ovvero la lesione alla salute subita prima della morte, purché tra l’evento lesivo e la morte sussista un notevole lasso di tempo.

Si distingue il caso in cui la morte segua immediatamente (o quasi) alle lesioni da quello in cui tra le lesioni e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo.

Nel primo caso per cui si esclude la configurabilità del danno biologico: non vi è stato il tempo per accertare la maturazione del danno alla salute (si rinvia al par. 3.1.).

Diversamente nella seconda ipotesi per cui vi è un’effettiva compromissione dell’integrità psico – fisica del soggetto che si protrae per la durata della vita (Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2008, n. 870).

Trattasi di danno da fatto illecito con effetto mortale, che rientra nella nozione di danno biologico, cioè lesione della salute che la vittima subisce prima di morire: questi pertanto matura il diritto al risarcimento del danno (iure proprio), che, a seguito della sua morte, è trasmesso agli eredi (ius iure hereditatis).

La maturazione delle poste di danno risarcibili è, così, subordinato al dato storico: il momento in cui si verifica il danno. Ci si chiede così se basti la contestualità del danno rispetto alla morte del danneggiato.

La giurisprudenza costante della Cassazione afferma che la vittima consegue il diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale soggettivo cd. terminali in tutti i casi in cui tra il fatto che ha provocato le lesioni e il decesso sia intercorso un notevole o apprezzabile lasso di tempo: trattasi di un parametro di creazione giurisprudenziale che delega al singolo organo giudicante la verifica della concreta esistenza del danno.

Il danno biologico terminale in quanto danno da inabilità permanente si verifica sempre quando uno spazio temporale intercorra fra lesione e morte a causa di essa. In questa prospettiva l’apprezzabilità dello spazio intertemporale richiesta dalla giurisprudenza consiste nel requisito di una netta separazione temporale fra i due eventi che valga a distinguere la loro verificazione nel tempo. Verificatosi questo requisito il danno biologico terminale è sempre esistente per effetto della percezione anche non cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita (così Cass. civ., Sez. III, 28 agosto 2007, n. 18163).

Lasciata al prudente apprezzamento del giudicante è la ricerca di un significato concreto da attribuire al concetto di “apprezzabile lasso di tempo”. Ciò ha determinato una altalenanza di posizioni che riconoscono il pregiudizio in caso di sopravvivenza per 29 giorni al sinistro (Cass. civ., Sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549) ovvero per ventiquattr’ore (Cass. civ., sez. III, 19.10.2007, n. 21976) anche qualora la vittima sia priva di coscienza. Diversamente è stato ritenuto non sufficiente un arco temporale di due (Cass. Civ., sez. II, 06.02.2007, n. 2546) o tre ore (Tribunale di Palermo, 8 maggio 2007, n. 1946)

Si è correttamente affermato che il parametro di giudizio del “considerevole lasso di tempo” non consista nella quantificazione del tempo di sopravvivenza in attesa della morte, bensì nella consistenza (serietà/gravità) della lesione psico-fisica della vittima primaria.

 

3. Danno morale terminale

Nel caso di lesione mortale ci si interroga se il danneggiato maturi un diritto di credito aquiliano non patrimoniale nella componente del danno morale. Il caso di scuola è quello del soggetto, vittima di incidente stradale, che era rimasto in vita, lucido di mente, nelle ore necessarie per l’arrivo dell’ambulanza, decedendo solo durante il trasporto o dopo un breve periodo in ospedale.

La tesi che nega tale voce di danno sostiene che trattandosi di un dolore transeunte a carattere soggettivo potrà verificarsi solo se il danneggiato sia vigile e lucido, diversamente è escluso in caso di coma, laddove si affermava che il soggetto in stato di incoscienza non può soffrire, ovvero percepire la lesione subita o avere razionalmente cognizione della propria morte.

La tesi non convince: così ragionando si limita il danno morale al suo valore soggettivo esterno, di sofferenza visibile, non tenendo in realtà conto che il danno morale si riferisce alla lesione interna del soggetto. A ciò si aggiunge che tutte le volte in cui il danneggiato primario muoia a seguito del danno evento si concretizza l’aspetto oggettivo del danno morale: ovvero il danno morale da morte ex art. 185 cp e art. 2059 cc.

In altri termini il danno morale terminale potrà essere a valenza soggettiva o a valenza oggettiva e sussiste anche nel caso di incoscienza del danneggiato primario.

Non è necessario che il soggetto provi il dolore della propria morte: in tal caso è pacifico che ci sia una sofferenza, che si suole descrivere come danno psichico catastrofale, quale danno terminale avvertito da chi, in condizioni di lucidità mentale, attende soccorsi che ritardano e sente venir meno la propria vita (Cass. Civ., sez. II, 06.02.2007, n. 2546).

La Corte di Cassazione ha più volte precisato che il danno terminale è presente ugualmente sia che la vittima abbia coscienza della lesione, sia che non l’abbia. In particolare, con riferimento al danno morale, è stato di recente ribadito che comprende anche le sofferenze fisiche e morali sopportate dalla vittima in stato di incoscienza (Cass. Civ., sez. III, 19.10.2007, n. 21976).

 

4. Danno tanatologico (o danno da morte)

Si esclude, come detto, il risarcimento del danno terminale se la morte si verifica contestualmente al danno.

In tutti i casi di morte immediata, per cui si esclude la configurabilità del danno biologico terminale, ci si interroga se si possa agire giudizialmente al fine di chiedere un risarcimento proprio in ragione della morte del danneggiato. Si parla di danno tanatologico o danno da morte, consistente nella lesione dell’integrità fisica con esito letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento lesivo (così Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549)

Una prima ricostruzione ritiene che il danno da morte abbia vita propria.

Si richiamano l’art. 2 Cost., la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, del 16 dicembre 1966, tutti ratificati dall’Italia, con apposite leggi: il diritto di vita sarebbe giuridicamente tutelato, imponendone il risarcimento nei casi di illegittima lesione.

Altro argomento a sostegno è tratto dagli articoli 2 e 3, co. 2, Cost., tra di loro correlati, essendo la vita la condizione esistenziale dell’espansione della persona umana.

Ora il tema è trattato anche dall’articolo II-62 della Costituzione europea, nel senso di diritto ad esistere, come chiaramente desumibile dalla lettera e dallo spirito della norma europea in forza del principio di prevalenza della fonte costituzionale europea (articolo 16) che integra e completa la fonte italiana sul diritto alla vita.

La dottrina italiana ed europea che riconoscono la tutela civile del diritto fondamentale della vita, premono per il riconoscimento della lesione come momento costitutivo di un diritto soggettivo del danneggiato.

La certezza della morte, secondo le leggi, nazionali ed europee, è a prova scientifica, attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione dell’attività elettrica cellulare.

La morte cerebrale non è mai immediata, con due eccezioni: la decapitazione o lo spappolamento del cervello (Cass. civile, sez. III, 12.07.2006, n. 15760). Pertanto la scienza ci dice che ad ogni fatto illecito causativo della morte del danneggiato consegue un periodo, variabile, di tempo, in cui si ha la percezione della propria morte.

Chi aderisce alla tesi dell’esistenza del diritto alla vita e della sua risarcibilità afferma che il danno alla salute (o quello biologico empiricamente inteso) è risarcibile anche nel caso in cui la persona deceda a causa dell’incidente dovendosi considerare l’evento morte come forma più grave di tale tipo di danno.

Altro argomento sostenuto riferisce di una mancanza di tutela della vita in sede civilistica: il paradosso è che il danneggiato dovrebbe “sperare” di rimanere in vita, ma leso nella propria integrità psico-fisica per ottenere tutela.

La tesi predominante in giurisprudenza esclude totalmente l’esistenza del danno da morte. Non può esistere un danno tanatologico risarcibile (danno da morte immediata) e, in ogni caso, non potrebbe essere cumulabile con altri danni terminali (biologico e morale).

La posizione in parola si basa sull’idea per cui il bene “salute” ed il bene “vita” costituiscono beni distinti e tutelati in forma distinta. Mentre il primo ammette una forma di tutela risarcitoria, il secondo no, in quanto, strettamente connesso alla persona del suo titolare, non se ne può concepire la autonoma risarcibilità quando tale persona abbia cessato di esistere.

Alle argomentazioni della tesi positivista, secondo cui negando tale posta di danno si avrebbe una lacuna normativa a tutela della vita, si risponde affermando che il sistema risarcitorio non è l’unico mezzo di tutela nel nostro ordinamento: il diritto alla vita è ampiamente tutelato in sede penale (ex multis, artt. 575 e 589 c.p.) e la sanzione penale è la massima forma di reazione dell’ordinamento ad un illecito (così Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549).

La tesi del danno in sé non convince in dottrina e soprattutto in giurisprudenza per due motivi.

Si sostiene in primis che il diritto alla vita è adespota: il soggetto che perde la vita non è in grado di acquistare un diritto risarcitorio, perché finché è in vita non vi è perdita e quando è morto da una parte non è titolare di alcun diritto e dall’altra non è in grado di acquistarne.

In secondo luogo riconoscendo il danno da morte si finirebbe per assegnare alla tutela dell’art. 2043 c.c. una funzione solo sanzionatrice (o di pena privata), mentre pacificamente la sua funzione è quella risarcitoria.

Le sezioni unite della cassazione nel 2008 (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972) ritengono che il danno tanatologico puro non sia risarcibile, ma siano risarcibile i riflessi morali dell’evento lesivo sulla sfera giuridica dei parenti.

 

4.1.La nostra tesi: danno tanatologico come danno da reato per i congiunti

Personalmente ritengo che il danno tanatologico puro non possa essere risarcito iure proprio (alla vittima primaria): non può, più, essere vantato dal suo titolare e pertanto è un danno ingiusto non giustiziabile civilmente. Altrimenti ragionando si avrebbe un aggiramento delle regole aquiliane al solo fine di consentire un maggiore quantum debeatur per gli eredi. Questi, invece, potranno avere tutela diretta vantando il pregiudizio iure proprio sofferto quali parenti di vittima di reato (omicidio colposo): il danno tanatologico (iure proprio) puro artificio teorico sarebbe invocato non certo dal de cuius bensì dagli eredi, i quali sono costretti ad una ardita ricostruzione giuridica per ottenere tutela per la vita del dante causa.

Diversamente ragionando l’esigenza di tutela della vita del danneggiato principale sarà apprestato con gli strumenti penali che lo Stato prevede ex lege (l’azione penale in caso di omicidio colposo trae impulso d’ufficio), mentre la tutela aquiliana dei prossimi congiunti vittime secondarie di un reato si avrà ex art. 20590 cc e 185 cp.

In ordine alla liquidazione del danno da morte il giudice valuterà ex artt. 1226-2056 con ampio apprezzamente discrezionale e calato nella situazione reale la relazione personale tra il congiunto e la vittima, la gravità del reato, le circostanze dello stesso, il dolo e la colpa del danneggiante.

Anche la giurisprudenza più recente (post Sez. unite 2008) valuta il danno da morte quale ipotesi di danno (morale) da reato utilizzando come parametro di giudizio la condotta del danneggiante in aggiunta al dato della sofferenza intrinseca subita dal danneggiato. Si afferma così che il risarcimento del danno ingiusto non patrimoniale deve essere equitativamente valutato tenendo conto delle condizioni soggettive della vittima, della entità delle lesioni e delle altre circostanze che attengono alla valutazione della condotta dell’autore del danno (Cass. civ., Sez. III, 13 gennaio 2009, n. 479).

 

5. Le ultime posizioni giurisprudenziali: Cassazione n. 1361/2014

La questione è stata da ultimo ribaltata. la Cassazione con pronuncia n. 1361/2014, dopo un lungo excursus sul panorama dottrinario e sui dicta di parte della giurisprudenza di merito, è pervenuta ad una diversa conclusione, sulla premessa secondo la quale ‘la perdita della vita non può lasciarsi, invero, priva di tutela (anche) civilistica’, poiché ‘il diritto alla vita è altro e diverso dal diritto alla salute’, così che la sua risarcibilità ‘costituisce realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza’

Tale decisione, facendo proprie talune indicazioni provenienti da quella parte della dottrina che, a vario titolo e con disparate argomentazioni, ritiene risarcibile il danno c.d. tanatologico, ha così inteso superare il criterio della individuazione di un adeguato periodo di lucidità e di coscienza nella vittima del sinistro ai fini dell’acquisizione al suo patrimonio di un diritto trasmissibile iure successionis.

Il contrasto di giurisprudenza così generatosi, e la concorrente particolare importanza della questione induce, pertanto, il collegio a rimettere gli atti del procedimento al Primo Presidente perché valuti l’esigenza di investire le Sezioni unite di questa Corte, al fine di definire e precisare per imprescindibili ragioni di certezza del diritto il quadro della risarcibilità del danno non patrimoniale già delineato nel 2008, alla stregua degli ulteriori contributi di riflessione, tra loro discordanti, offerti dalla sezione semplice sul tema del diritto della risarcibilità iure haereditario del danno da morte immediata.

 

 

Cassazione, Sez. III Civile – Ordinanza 4 marzo 2014, n.5056

(Pres. Russo – est. Travaglino)

 

 

 

Motivi della decisione

1. Il quinto motivo del ricorso – che lamenta violazione e/o falsa e in ogni caso erronea applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 2043 c.c. e 32 della Costituzione – si conclude con il seguente quesito di diritto: dica la Corte se sia legittimo o non negare il risarcimento del danno biologico richiesto iure haereditario dagli stretti congiunti della vittima allorquando la vittima stessa sia immediatamente deceduta a seguito delle gravi lesioni riportate in un incidente stradale.

2. Osserva il collegio che, con la sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014, questa stessa sezione ha affermato il principio secondo il quale deve ritenersi risarcibile iure haereditario il danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni riportate a seguito di un incidente stradale.

3. Tale sentenza si pone in consapevole contrasto con la propria, precedente giurisprudenza, che più volte ha avuto modo di pronunciarsi in senso opposto in subiecta materia.

3.1. In particolare, la pronuncia n. 6754/2011 di questa stessa sezione, nella scia di una risalente giurisprudenza di legittimità (Cass. ss.uu. n. 3475 del 1925, cui, nel tempo, si sarebbero conformate, tra le tante, Cass. n.2654 del 2012 e n. 13672 del 2010), aveva affermato il principio di diritto della irrisarcibilità per via ereditaria del danno da morte immediata;

3.2. Il principio, come è noto, era stato espressamente posto a fondamento della decisione n. 372 del 1994 della Corte Costituzionale, che aveva escluso profili di illegittimità costituzionale dell’art. 2043 codice civile, in relazione al c.d. ‘danno biologico da morte’, in dipendenza del ‘limite strutturale della responsabilità civile, nella quale sia l’oggetto del risarcimento che la liquidazione del danno devono riferirsi non alla lesione per se stessa, ma alle conseguenti perdite a carico della persona offesa’.

4. La giurisprudenza di questa sezione si è poi spinta, in tempi più recenti, ad affermare la trasmissibilità agli eredi del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale consistito nella sofferenza morale provata tra l’infortunio e la morte solo se, in tale periodo di tempo, la persona sia rimasta lucida e cosciente;

5. La questione venne esaminata funditus nella decisione n. 26972 del 2008, con la quale le Sezioni unite, chiamate a dare risposta a un coacervo di quesiti – posti dall’ordinanza di rimessione n. 4712 del 2008 – inerenti alla complessa materia della liquidazione del danno non patrimoniale, ebbero modo di affermare che la costante giurisprudenza di legittimità, da una parte, nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e d’altra parte lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, osservando poi come venga in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo: sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione, e concludendo che, d’altra parte, non può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso;

6. Sul tema del danno da morte immediata (il tema, cioè, in relazione al quale le sezioni unite avevano escluso la possibilità di rimeditare il costante indirizzo giurisprudenziale della Corte in assenza di un argomentato dissenso), una recente sentenza di questa sezione (la n. 19133/2011) ha affermato il principio che quando all’estrema gravità delle lesioni segua, dopo un intervallo di tempo brevissimo [….], la morte, non può essere risarcito il danno biologico ‘terminale’ connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguito al sinistro;

7. Con ampia e articolata motivazione, la pronuncia n. 1361/2014, dopo un lungo excursus sul panorama dottrinario e sui dieta di parte della giurisprudenza di merito, è pervenuta, dunque, ad una diversa conclusione, sulla premessa secondo la quale ‘la perdita della vita non può lasciarsi, invero, priva di tutela (anche) civilistica’, poiché ‘il diritto alla vita è altro e diverso dal diritto alla salute’, così che la sua risarcibilità ‘costituisce realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza’;

8. Tale decisione, facendo proprie talune indicazioni provenienti da quella parte della dottrina che, a vario titolo e con disparate argomentazioni, ritiene risarcibile il danno c.d. tanatologico, ha così inteso superare il criterio della individuazione di un adeguato periodo di lucidità e di coscienza nella vittima del sinistro ai fini dell’acquisizione al suo patrimonio di un diritto trasmissibile iure successionis;

4. Il contrasto di giurisprudenza così generatosi, e la concorrente particolare importanza della questione induce, pertanto, il collegio a rimettere gli atti del procedimento al Primo Presidente perché valuti l’esigenza di investire le Sezioni unite di questa Corte, al fine di definire e precisare per imprescindibili ragioni di certezza del diritto il quadro della risarcibilità del danno non patrimoniale già delineato nel 2008, alla stregua degli ulteriori contributi di riflessione, tra loro discordanti, offerti dalla sezione semplice sul tema del diritto della risarcibilità iure haereditario del danno da morte immediata.

 

P.Q.M.

 

Rimette gli atti al Primo Presidente perché valuti l’opportunità di assegnare il ricorso alle sezioni unite.

 

 

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here