I presupposti di applicazione delle astreintes ex art. 614-bis c.p.c. (S. Campedelli)

I PRESUPPOSTI DI APPLICAZIONE DELLE ASTREINTES EX ART. 614-BIS C.P.C.

Silvio Campedelli 

 

 

A. Premessa.

Il presente contributo si propone di censire le problematiche concernenti l’irrogazione delle penalità pecuniarie ex art. 614-bis c.p.c., introdotte dall’art. 49, comma I, della legge di riforma 18.06.2009, n. 69, in vigore dal 04.07.2009, con particolare riguardo all’individuazione del perimetro, sostanziale e processuale, entro il quale le stesse possono legittimamente trovare applicazione.

Giova premettere, allora, come la reticenza, se non addirittura l’equivocità del testo normativo, unitamente alla scarsità dei precedenti giurisprudenziali in termini, inducano, nella disamina della tematica in parola, ad assegnare particolare importanza alle suggestioni provenienti dal formante dottrinale, nonché a valorizzare l’esperienza giudiziale stratificatasi in relazione ad altri istituti presenti nel nostro ordinamento, latu sensu riconducibili alla coercizione indiretta ovvero ai danni punitivi.

V’è, infatti, una sostanziale convergenza d’opinioni sulla riconducibilità dell’art. 614-bis c.p.c. ai rimedi protesi ad indirizzare il contegno del debitore verso l’esecuzione delle proprie obbligazioni, aggravando le conseguenze pregiudizievoli correlate alla persistenza dell’inadempimento[1].

L’espediente più frequentemente impiegato per conseguire tale finalità deterrente consiste nell’imputazione, in capo al debitore inadempiente, di un dovere di pagamento che non trova un preciso riscontro in un corrispondente pregiudizio arrecato al creditore.

Ciò comporta, ovviamente, l’emancipazione della responsabilità civile dalla funzione compensativa e satisfattiva cui è stata tradizionalmente associata, assegnando alla medesima un’inedita vocazione punitiva[2]. D’altro canto, allorché la penalità pecuniaria si sostituisse sic et simpliciter al rimedio risarcitorio, perderebbe integralmente la propria virtù compulsiva, non sanzionando l’inadempimento del debitore in misura più accentuata di quanto già non avvenga con l’applicazione dell’ordinaria disciplina in punto di responsabilità contrattuale. È proprio per questo che non può non destare perplessità l’inclusione del “danno quantificato o prevedibile” tra i criteri che, ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c., il Giudice è tenuto ad impiegare nella commisurazione della penalità pecuniaria. La quale, infatti, dapprima viene sottratta al sistema della responsabilità risarcitoria (ed ai vincoli applicativi che ne derivano, come, in special modo, il divieto di condannare il debitore al ristoro di pregiudizi inesistenti o non puntualmente dimostrati), per poi mutuarne il carattere fondamentale, ossia la stretta connessione con il danno arrecato al creditore.

A prescindere da tale anomalia, non pare revocabile in dubbio che la prevenzione dell’inadempimento rappresenta il connotato funzionale più significativo dell’art. 614-bis, onde per cui è ragionevole ricercare gli antesignani di tale previsione normativa, da un lato, nelle cd. astreintes contemplate nell’ordinamento francese[3] e, dall’altro, negli strumenti coercitivi propri del sistema tedesco, ricondotti alle zwangsgeld (ordini di pagamento con funzione sanzionatoria) ed alle zwangshaft (provvedimenti restrittivi della libertà personale)[4].

Già prima della riforma ex legge 69/2009, i suesposti modelli erano stati timidamente recepiti e valorizzati dal legislatore italiano nella disciplina di talune particolari fattispecie di responsabilità, accomunate tutte dall’esigenza di reintegrare nella sua specifica identità il diritto del danneggiato pregiudicato dall’illecito o dall’inadempimento, non riuscendo il rimedio risarcitorio a garantire una piena tutela del danneggiato[5]. Si allude, in special modo:

a)       alle sanzioni previste, in materia di rapporto di lavoro svolto in regime subordinazione, avverso i licenziamenti illegittimi[6], la condotta antisindacale[7], nonché alle discriminazioni tra uomini e donne sul luogo di lavoro[8];

b)       alle sanzioni civili contro l’inosservanza dei provvedimenti d’inibitoria emessi per la prevenzione di violazioni accertate[9] o imminenti[10] dei diritti di proprietà industriale;

c)       alle penalità pecuniarie irrogabili per ciascuna inottemperanza alle inibitorie concesse a protezione del diritto d’autore[11];

d)       alle somme dovute dall’imprenditore o dal professionista per l’inosservanza degli obblighi verso i consumatori, accertati nel giudizio collettivo[12];

e)       al risarcimento del danno, disposto, a vantaggio dell’altro coniuge o del figlio, a carico del coniuge, che si renda inadempiente al provvedimento giudiziale in materia di esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento[13].

 Le sporadiche apparizioni, nelle venature del nostro ordinamento, di istituti a carattere (ulteriormente) sanzionatorio della disobbedienza al comando giudiziale hanno ricevuto il loro suggello nella previsione di cui all’art. 614-bis, la quale, ad una sommaria lettura, sembrerebbe trovare un’ampia e generalizzata applicazione nel campo dei rapporti obbligatori.

Il contenuto letterale della norma in questione, infatti, parrebbe escludere dalla propria sfera di operatività soltanto due fattispecie, ossia:

          in astratto ed a prescindere da qualsivoglia apprezzamento giudiziale, le controversie in tema di lavoro subordinato pubblico e privato, nonché di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409 c.p.c.[14];

          in concreto, i casi in cui, secondo la prudente valutazione del Giudice, la somministrazione della penalità pecuniaria si rivelerebbe manifestamente iniqua; evenienza, questa, che, in ragione dell’impiego dell’avverbio “manifestamente”, sembrerebbe relegata ad ipotesi assolutamente marginali.

Un’interpretazione più approfondita della disposizione legislativa in disamina, specie se condotta alla luce delle esigenze sistematiche, sembra comprimerne notevolmente l’ambito di operatività, non soltanto perché il requisito della manifesta iniquità ricorre, nella prassi, molto più frequentemente di quanto si possa teoricamente immaginare, ma soprattutto in quanto alcuni limiti di applicazione, benché non letteralmente espressi, traspaiono dalla conformazione della stessa proposizione normativa. E ciò tempera notevolmente l’entusiasmo con il quale parte della dottrina aveva salutato l’introduzione, nell’ordinamento processuale, di uno strumento generale di coercizione indiretta dell’adempimento[15].

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