Percezione di emolumenti assicurativi/previdenziali e liquidazione del danno: è applicabile l’istituto della cd. compensatio lucri cum damno? La soluzione adottata dalla sentenza della Corte di Cassazione n°13537/2014 (E. Guerri)

PERCEZIONE DI EMOLUMENTI ASSICURATIVI/PREVIDENZIALI E LIQUIDAZIONE DEL DANNO: È APPLICABILE L’ISTITUTO DELLA CD. COMPENSATIO LUCRI CUM DAMNO? LA SOLUZIONE ADOTTATA DALLA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N°13537/2014

di Elena Guerri, Avvocato

 

Sommario: 1. L’istituto della cd. compensatio lucri cum damno; 2. Compensatio e percezione di emolumenti assicurativi/previdenziali: le posizioni della giurisprudenza passate in rassegna dalla pronuncia della Cassazione n°13537/2014; 3. Conclusioni

 

1.L’istituto della cd. compensatio lucri cum damno

L’art. 2056 c.c., in materia di valutazione del danno da responsabilità aquiliana richiama gli artt.1223, 1226, 1227 c.c., dettati per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.

 L’art. 1223 c.c. stabilisce che il risarcimento deve comprendere la perdita subita dal danneggiato (cd. danno emergente) ed il mancato guadagno (cd. lucro cessante) in quanto siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento o dell’illecito, per via dell’estensione operata dal richiamato art. 2056 c.c. Si tratta del giudizio di cd. causalità giuridica, che prende in considerazione il collegamento tra il fatto dannoso e le conseguenze (danno-conseguenza), ed è volta a delimitare l’area del danno risarcibile.[1]

In sede di determinazione del danno dovrà, poi, sottrarsi ciò che il danneggiato abbia lucrato dall’illecito, cd. compensatio lucri cum damno.[2]

Ai sensi della cd. teoria differenziale[3], infatti, il danno è pari alla differenza tra la consistenza del patrimonio prima e dopo il verificarsi dell’inadempimento o dell’illecito. Pertanto, il bene leso è considerato come parte del patrimonio complessivo: da un lato la funzione del risarcimento del danno consiste nell’eliminare gli effetti negativi sul patrimonio cagionati dall’inadempimento/illecito, dall’altro la compensatio è volta a considerare i vantaggi conseguiti nel patrimonio sempre in seguito all’inadempimento/illecito.

Le Sezioni Unite della Cassazione, con la pronuncia n°28056/2008[4], hanno stabilito che l’istituto in oggetto può trovare applicazione solo qualora le conseguenze negative e quelle positive siano il risultato della medesima condotta. Autorevole dottrina[5] evidenzia come questa regola costituisca, nella pratica, un grande limite alla operatività della compensatio, dato che molto spesso l’inadempimento è solo l’occasione da cui è scaturita la serie causale che ha procurato il vantaggio.

Il fatto che né il Legislatore né la dottrina abbiano formulato una definizione di vantaggio si giustifica evidenziando come esso possa assumere i significati più disparati, dovendosi valutare caso per caso l’utilitas ricevuta. Infatti, il patrimonio di un soggetto va valutato senza rigide regole economiche, attraverso la valorizzazione di utilità singolarmente rapportabili a quel soggetto. L’assenza di una definizione normativa consente, inoltre, di modellare il riconoscimento del vantaggio sia sotto il profilo più strettamente giuridico, sia sotto quello economico, sociale e consuetudinario, nell’ottica di una valutazione equitativa.[6]

 

2.Compensatio e percezione di emolumenti assicurativi/previdenziali: le posizioni della giurisprudenza passate in rassegna dalla pronuncia della Cassazione n°13537/2014.

La giurisprudenza si è più volte interrogata circa l’applicabilità del principio della compensatio nel caso di risarcimento del danno ad un prossimo congiunto del danneggiato e contestuale percezione di emolumenti da parte di enti assicurativi o previdenziali.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n°13537 del 13 giungo 2014[7] ha preso posizione passando in rassegna le due contrapposte interpretazioni venute negli anni a delinearsi in giurisprudenza: entrambe hanno risolto il quesito dando una risposta negativa, ma con differenti motivazioni. Nella recente pronuncia, la Corte critica l’impostazione maggioritaria, per poi concludere, in linea con la tesi minoritaria, che in questo caso non abbia senso interrogarsi se l’istituto della compensatio trovi applicazione o meno.

Ma proseguiamo con ordine.

Secondo una prima, maggioritaria, impostazione (si vedano Cass. n°5504/2014 e Cass. n°3357/2009) nella liquidazione del danno patrimoniale non deve tenersi conto di quanto erogato al danneggiato dall’assicuratore o dall’ente previdenziale, poiché il meccanismo di compensatio lucri cum damno si può applicare solo quando il danno ed il lucro scaturiscano in modo immediato e diretto dal fatto illecito, mentre il diritto all’emolumento previdenziale od assicurativo sorge direttamente dalla legge e non dal fatto illecito.

La Cassazione, nella sentenza in commento, critica questa impostazione osservando come si fondi su presupposti, di fatto, erronei: è incoerente con le regole unanimemente applicate dalla giurisprudenza di legittimità in tutti gli altri settori della responsabilità civile; adotta una nozione di “causalità” datata e non coerente con la regola della cd. condicio sine qua non[8]; priva, di fatto, e senza giustificazione, l’assicuratore sociale o l’ente previdenziale dell’azione di surrogazione, con conseguente pregiudizio per l’economia di tali enti e, di conseguenza, per la collettività intera.[9]

Osserva, inoltre, la Corte come la maggior parte delle decisioni che aderiscono a questa soluzione siano motivate attraverso il mero riferimento ai precedenti conformi, derivanti da una sentenza capostipite, Cass. n°370/1958, la quale, peraltro, non aveva ad oggetto un caso di compensatio tra il danno da morte ed i benefici previdenziali, bensì una fattispecie in cui il danneggiante, responsabile della morte di una persona, voleva compensare il proprio debito risarcitorio con il vantaggio acquistato dal parente della vittima in seguito all’accettazione dell’eredità del defunto, pretesa che la Corte ritenne infondata.

Si riporta il percorso argomentativo seguito dalla Cassazione nella pronuncia oggetto di commento:

          In primo luogo, “il primo vulnus dell’orientamento tradizionale è di carattere logico.. intendere la compensatio lucri cum damno come una vera e propria “compensazione” tra crediti e debiti significa necessariamente disapplicare di fatto l’istituto della compensatio, perchè è assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sè solo, e cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno. Come messo in evidenza dalla dottrina prevalente da oltre un secolo, la compensatio lucri cum damno di compensazione non ha che il nome.. La c.d. compensatio lucri cum damno costituisce piuttosto una regola per l’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno risarcibile, ai sensi dell’art. 1223 c.c. … Nel caso oggetto del presente del giudizio non, dunque, se si realizzi una “compensazione” tra danno e pensione di reversibilità occorrerà chiedersi, ma piuttosto se un danno esista e quale ne sia l’ammontare: e tale accertamento va compiuto alla stregua dell’art. 1223 c.c. “Lucro” e “danno”, pertanto, non vanno concepiti come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la medesimezza della fonte. Del c.d. “lucro” derivante dal fatto illecito occorre invece stabilire unicamente se costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell’art. 1223 c.c. La conclusione appena raggiunta è corroborata dalla considerazione che l’ordinamento prevede numerose ipotesi in cui è la legge stessa ad ammettere la compensatio lucri cum damno nonostante perdita e vantaggio patrimoniale traggano origine da atti o fatti eterogenei: si considerino al riguardo le fattispecie previste dall’art. 1149 c.c. (compensazione tra il diritto alla restituzione dei frutti e l’obbligo di rifondere al possessore le spese per produrli); art. 1479 c.c. (compensazione tra minor valore della cosa e rimborso del prezzo, nel caso di vendita di cosa altrui); art. 1592 c.c. (compensazione del credito del locatore per i danni alla cosa con il valore dei miglioramenti); L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 1 bis, (compensazione del danno causato dal pubblico impiegato con i vantaggi conseguiti dalla pubblica amministrazione). Da tali disposizioni – e da molte altre analoghe – si desume l’esistenza d’un principio generale, secondo cui vantaggi e svantaggi derivati da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi hanno concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti, ovvero direttamente una previsione di legge”.

          “Il secondo vulnus dell’orientamento tradizionale è di tipo dogmatico. L’affermazione secondo cui la regola della compensatio opera soltanto se “danno” e “lucro” scaturiscano in modo diretto ed immediato dal fatto illecito appare infatti frutto di un equivoco, a sua volta scaturente da un inconsapevole fraintendimento della dottrina tradizionale. Questa già alla fine dell’Ottocento aveva individuato, tra i presupposti della compensatio lucri cum damno, la necessità che danno e lucro derivassero dalla stessa condotta del responsabile… La regola secondo cui la compensatio esige la medesimezza della condotta, col passare degli anni, venne applicata sempre più tralatiziamente: e poiché la condotta è uno degli elementi dell’illecito, intorno agli anni Cinquanta del XX sec. la giurisprudenza nell’applicare il principio in esame incorse in una autentica metonimia, finendo con l’indicare la parte per il tutto: così l’originario requisito della “medesimezza della condotta”, da secoli fondamento della compensatio lucri cum damno, si trasformò nella “medesimezza del fatto”, e questa a sua volta nella “medesimezza della fonte” tanto del lucro quanto del danno. Ma è ovvio che altro è affermare che danno e lucro, per essere compensati, devono scaturire da una unica condotta del danneggiante, ben altro è sostenere che debbano scaturire dalla stessa causa. Mentre infatti la prima concezione ammetteva il concorso di cause, la seconda lo esclude. La regola applicata dall’orientamento tradizionale, in definitiva, non è affatto fondata sulla “dottrina tradizionale”, come si pretenderebbe, ma costituisce anzi una deviazione dai principi di quella”.

          “Il terzo vulnus dell’orientamento tradizionale è di tipo sistematico. L’orientamento che consente il cumulo della pensione di reversibilità e del risarcimento del danno patrimoniale da morte del coniuge, come s’è detto, si fonda sull’assioma secondo cui la regola della compensalo lucri cum damno s’applica soltanto se il vantaggio e la perdita patrimoniali traggano origine dal fatto illecito. Ciò postulato in astratto, l’orientamento in esame nega che tale condizione ricorra nel caso in esame, perché solo il diritto al risarcimento è conseguenza del fatto illecito, mentre il diritto alla pensione di reversibilità ha per fonte una norma di legge. Il fatto illecito, rispetto a tale diritto, costituirebbe invece una mera occasione. Questa opinione, quale che ne fosse la condivisibilità all’epoca in cui venne formulata (anni Cinquanta del XX sec), oggi non è più coerente con la concezione di “causalità” che si è venuta sviluppando nella giurisprudenza di questa Corte ormai da molti anni in qua. Da un lato, infatti, la distinzione scolastica tra “causa remota”, “causa prossima” ed “occasione” è stata da tempo abbandonata, e sostituita dalla nozione di “regolarità causale”. Secondo tale nozione, per stabilire se un fatto possa dirsi causato da un altro non è proficuo arrovellarsi a discettare se il secondo sia stato causa o mera occasione del primo: non foss’altro che per la difficoltà, quando non per l’impossibilità, di distinguere tra l’una e l’altra. Occorrerà, invece, per affermare l’esistenza d’un nesso di causalità giuridica tra condotta e danno, ricorrere al criterio della condicio sine qua non, in virtù del quale una condotta è causa di un evento tutte le volte che, senza la prima, il secondo non si sarebbe verificato … La tesi secondo cui l’uccisione d’una persona non è “causa” della percezione della pensione di reversibilità è incoerente col diritto della responsabilità civile perché non vi è dubbio che nel rapporto tra l’assistito e l’ente previdenziale il diritto alla pensione di reversibilità scaturisce dalla legge, e la morte del beneficiario è mera condicio iuris per l’erogazione del beneficio. Al diritto previdenziale non interessa la causa della morte: quale che essa sia, la pensione di reversibilità sarà comunque erogata alla persona indicata dalla legge come beneficiario. E’ nell’ambito di questo rapporto, dunque, che il fatto illecito può dirsi mera occasione dell’attribuzione patrimoniale … Non è dunque, corretto interpretare l’art. 1223 c.c., in modo asimmetrico, e ritenere che “il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato” quando si tratta di accertare il danno, ed esigere al contrario che lo sia, quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito. L’insostenibilità dell’orientamento tradizionale è poi resa vieppiù evidente dalla considerazione che l’affermazione secondo cui la compensatio lucri cum damno non s’applica quando il vantaggio sia una conseguenza indiretta del fatto illecito è inspiegabilmente ripetuta solo quando si tratti di compensare il danno patrimoniale da morte con la pensione di reversibilità, mentre in fattispecie concettualmente analoghe la giurisprudenza di questa Corte giunge a soluzioni diametralmente opposte: come quando si tratti di scomputare il c.d. aliunde perceptum dal danno patito dal lavoratore ingiustamente licenziato (giurisprudenza consolidata, a partire da Sez. U, Sentenza n. 2762 del 29/04/1985, Rv. 440539 e sino alla più recente Sez. L, Sentenza n. 5676 del 10/04/2012, Rv. 621879); ovvero quando si tratti di scomputare dal risarcimento del danno per accessione invertita l’indennità di espropriazione comunque percepita dall’espropriato”.

          “Il quarto vulnus dell’orientamento che nega la compensatio tra risarcimento del danno patrimoniale da uccisione del congiunto e pensione di reversibilità è anch’esso di tipo sistematico: ed è il più macroscopico ed inaccettabile. L’orientamento che nega la compensano tra il danno ed i benefici percepiti dall’ente previdenziale o dall’assicuratore sociale, infatti, finisce per abrogare in via di fatto l’azione di surrogazione spettante (ex artt. 1203 e 1916 c.c., o in virtù delle singole norme previste dalla legislazione speciale) a quest’ultimo. E’ noto infatti che limite oggettivo della surrogazione è il danno effettivamente causato dal responsabile, il quale non può mai essere costretto, per effetto dell’azione di surrogazione, a pagare due volte il medesimo danno: una al danneggiato, l’altra al surrogante. Pertanto, una volta che il responsabile del sinistro sia costretto a pagare l’intero risarcimento senza tener conto del beneficio previdenziale od assicurativo percepito dalla vittima per effetto dell’illecito, non potrebbe poi essere costretto dall’ente previdenziale od assicurativo a rifondergli le somme da questo pagate alla vittima…. l’orientamento tradizionale priva l’assicuratore sociale o l’ente previdenziale d’un diritto loro espressamente attribuito dalla legge addossa alla fiscalità generale, e quindi alla collettività, un onere il cui peso economico serve non a ristorare la vittima, ma ad arricchirla: così posponendo di fatto l’interesse generale a quello individuale”.

3.Conclusioni

In conclusione, la Cassazione nella riportata pronuncia ritiene di dover aderire alla interpretazione estensiva del concetto di conseguenza immediata e diretta di cui all’art. 1223 c.c., altrimenti il principio di compensatio non si potrebbe mai applicare. La giurisprudenza, infatti, intende tale formula come comprendente tutte le conseguenze che scaturiscano normalmente dall’illecito, secondo la teoria della cd. regolarità causale, che specifica il principio della condicio sine qua non. Infatti, è evidente che l’incremento patrimoniale derivante dalla prestazione assicurativa o previdenziale è conseguenza che scaturisce dall’illecito, dato che senza quest’ultimo anche il primo non ci sarebbe stato.[10]

Per completezza espositiva, si ricorda che, per ricostruire il concetto giuridico di nesso causale nell’ambito della responsabilità civile, in assenza di una disposizione ad hoc, si sia fatto ricorso alle teorie sviluppatesi nel diritto penale, ove gli artt. 40 e 41 c.p. sanciscono la responsabilità del soggetto per l’evento dannoso nel caso in cui la sua condotta sia stata causa o concausa del suo verificarsi. Dottrina e giurisprudenza si sono interrogate a lungo sull’individuazione dei criteri per ravvisare il nesso di causalità tra l’evento e la condotta, determinanti la responsabilità dell’illecito, elaborando varie teorie.[11]

La più seguita in giurisprudenza è quella della cd. conditio sine qua non (o “dell’equivalenza delle concause”), da accertare ex post attraverso il cd. “giudizio controfattuale”, per cui la causalità è esclusa se senza la condotta l’evento non si sarebbe verificato[12]: le cause concorrenti, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non escludono il rapporto di causalità fra quest’ultima e l’evento, costituendo tutte causa dello stesso (art. 41 cp, comma primo). Tale teoria è stata criticata per via dell’eccessiva estensione del concetto di causa e delle relative conseguenze[13], potendosi risalire anche molto in là nel tempo, col paradosso che talvolta si fa in dottrina, ad esempio, di ritenere responsabile la genitrice di un omicida per il fatto commesso da quest’ultimo!

Le altre teorie costituiscono, per lo più, dei correttivi a questa della condicio sine qua non, aventi, secondo la tesi maggioritaria, fondamento normativo nell’art. 41, comma secondo, c.p., secondo cui le cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento escludono il rapporto di causalità. Tra queste, quella cd. della “causalità adeguata”, o “regolarità causale” (che non è, si ricorda, andata esente da critiche[14]), per cui gli eventi possono considerarsi causati dalla condotta dell’uomo in base a criteri di normalità, valutati alla stregua della comune esperienza, escludendo, di conseguenza, il rapporto di causalità in presenza di fattori straordinari, atipici, imprevedibili. Il giudice, dovrà, pertanto, compiere un giudizio di cd. prognosi postuma, ovvero chiedersi ex ante quali fossero i normali, prevedibili, sviluppi dell’azione ed ex post confrontare in concreto il decorso causale verificatosi con quello ipotizzabile[15].

Tornando all’esame della recente pronuncia in commento, la Cassazione riporta il diverso e minoritario orientamento che dà, comunque, risposta negativa al quesito, ma sulla base di un diverso ragionamento, per cui non si deve parlare tanto di compensatio lucri cum damno, ma di inesistenza stessa del danno patrimoniale, per la parte già ristorata dal beneficio assicurativo/previdenziale (in questo senso Cass., n°3806/1998). Pertanto, non è corretto chiedersi se applicare o meno l’istituto della compensatio, dato che il beneficio in questione ha eliso il danno patrimoniale da ristorare.

La Corte riporta, al riguardo, il seguente sillogismo: “a- il beneficio erogato dall’assicuratore sociale (o dall’ente previdenziale) ha lo scopo di attenuare il danno patrimoniale subito dai familiari della vittima; b- di conseguenza, esso elide in parte qua il danno subito da questi ultimi; c- ergo, non tanto di compensatio lucri cum damno si dovrebbe parlare in casi simili, quanto di inesistenza stessa del danno patrimoniale, per la parte elisa dal beneficio assicurativo” e come anticipato, aderisce a questa ricostruzione.

 

 

 


[1] Cfr. PALADINI, Il giudizio di causalità giuridica, su www.e-glossa.it. Ad esso si contrappone il giudizio di cd. causalità materiale, che indica il collegamento tra la condotta e l’evento di danno che ha cagionato (cd. danno-evento). La verifica della sussistenza del nesso di causalità materiale precede quella della valutazione della causalità giuridica: prima si verifica se la condotta ha cagionato il danno ed in seguito la sua entità, Cfr. PALADINI, Il giudizio di causalità materiale, su www.e-glossa.it.

[2] Cfr. CARINGELLA, BUFFONI, Manuale di diritto civile, 2010, pp. 527-528.

[3] Ibidem, p. 519. Questa teoria si contrappone alla nozione cd. reale, per cui per danno deve intendersi la diminuzione di valore che subisce il bene in seguito all’inadempimento o all’illecito contrattuale. Ne consegue che il limite del danno risarcibile è rappresentato dal valore venale del bene. La dottrina osserva come ci siano ragioni sistematiche in favore dell’adozione della teoria differenziale: quando l’ordinamento ha voluto intendere il danno in senso reale ha utilizzato espressioni differenti da quelle che riscontriamo all’art. 1223 c.c., come agli artt. 726 c.c., 995 c.c., 2798 c.c., 1038 c.c.; al riguardo si veda MASTROPAOLO, voce Danno, III) Risarcimento del danno, Enciclopedia del diritto, p. 9.

[4] Si riporta la massima: “L’effetto della compensatio lucri cum damno, che si riconnette al criterio di determinazione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1223 c.c., si verifica esclusivamente allorché il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, quali suoi effetti contrapposti, e non quando il fatto generatore del pregiudizio patrimoniale subito dal creditore sia diverso da quello che invece gli abbia procurato un vantaggio. (Nella specie, è stata confermata la sentenza di merito che aveva escluso che il danno patito da un dipendente del Consiglio nazionale delle ricerche – Cnr – per il ritardato investimento in buoni postali fruttiferi di alcune delle quote annualmente accantonate del trattamento di fine rapporto potesse compensarsi con il guadagno ottenuto dal medesimo dipendente in ragione dell’anticipato investimento di analoghe quote relative ad altre annualità)”.

[5]  Cfr. CARINGELLA, BUFFONI, op. cit., p. 527.

[6]  Cfr. FERRARI, La compensatio lucri cum damno come utile strumento di equa riparazione del danno, Milano, 2008, pp. 48-49.

[7] La Corte si è pronunciata sul risarcimento dei danni ai familiari, moglie e figli, conseguenti alla morte di un uomo trasportato su un mezzo di trasporto pubblico, in seguito alla brusca frenata da parte del conducente. Si riporta la massima: La paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente; in difetto di tale consapevolezza non è nemmeno concepibile l’esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni. In ogni caso, quando in dipendenza della morte della persona vittima dell’illecito i propri congiunti acquisiscono il diritto a prestazioni previdenziali – come è per la moglie, che acquisisce il diritto alla reversibilità della pensione del marito – non può risarcirsi il danno patrimoniale dovuto alla perdita dell’ausilio economico della vittima stessa, visto che la carenza di tale apporto economico è superata dalla erogazione del trattamento pensionistico”.

[8] Cfr. infra.

[10] Per un commento Cfr. MARIANO, La Corte fa il punto sull’entità del danno risarcibile in caso di sinistro stradale con esito legale, Rivista Magistra. Approfondimenti per il concorso in magistratura, n°2/2014, pp. 40-41.

[11] Cfr. Il nesso di causalità, su www.studiocataldi.it e GAROFOLI, Manuale di diritto penale-Parte generale, Roma, 2011, p. 520 e ss.

[12] Cfr. CARINGELLA, BUFFONI, op. cit., p. 1173 e ss.

[13] Cfr. nota 11.

[14] Essendo basato, infatti, il ragionamento su un giudizio di probabilità, ne conseguono applicazioni incerte; include, inoltre, nel giudizio di causalità considerazioni più attinenti alla sfera della colpevolezza, Cfr. GAROFOLI, op. cit., pag. 537.

[15] Cfr. GAROFOLI, op. cit., pag. 536.

 

 

 

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