Diffamazione a mezzo internet: necessario l’accertamento dell’indirizzo IP.

Corte di Cassazione, Penale, sez. V, n. 5352 del 5 febbraio 2018. Nota a sentenza dell'Avv. Simona Aduasio.

La diffamazione commessa a mezzo internet – ed in particolare a mezzo social network – è ormai da tempo sotto i riflettori della giurisprudenza di legittimità, che in più occasioni si è confrontata con le difficoltà rappresentate dall’accertamento di condotte poste in essere in rete.
La sentenza in commento (qui il testo: Corte di Cassazione, Penale, sez. V, n. 5352 del 5 febbraio 2018.) si occupa per vero della rilevanza dell’accertamento dell’indirizzo IP con riferimento al reato di diffamazione a mezzo social network.
Nella vicenda in esame l’imputata veniva condannata in primo e in secondo grado alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento del danno nei confronti della parte civile per il reato di cui all’art. 595, comma 3, del codice penale, per aver offeso la reputazione del sindaco del proprio Comune, diffondendo un messaggio diffamatorio attraverso il social network Facebook.
Con ricorso per Cassazione il difensore dell’imputata deduceva l’illogicità della motivazione e la violazione dei criteri legali di valutazione della prova, in contrasto con gli art. 111 Cost., 192 e 546 cod. proc. pen.
Difatti la Corte di Appello aveva reputato riferibile all’imputata il messaggio postato sul social network Facebook sulla base dei seguenti indizi:
– la provenienza da un profilo riporta il suo nome e cognome;
– la natura dell’argomento di discussione del forum (riguardante pretese di lavoratori del Comune), di interesse della ricorrente, essendo l’imputata, all’epoca dei fatti, sindacalista;
– la circostanza che la stessa non avesse mai lamentato l’utilizzo abusivo da parte di altri del proprio nome e cognome, né avesse mai denunciato alcuno per furto di identità.
La ricorrente ha invece lamentato la mancata identificazione dell’indirizzo IP di provenienza del post, la mancanza di conoscenza della persona del sindaco da parte dell’imputata, l’assenza di qualsiasi contrasto con il predetto, il diverso ambito di interesse dell’attività sindacale rispetto ai lavoratori di cui al forum.
Viene peraltro censurata la motivazione della Corte di Appello nella parte in cui non prende in considerazione il dato dell’omessa verifica da parte dell’accusa dell’indirizzo IP di provenienza della frase diffamatoria, nonché con riferimento alla mancanza di prova fornita attraverso i cd. file di log, contenenti tempi e orari della connessione.
Orbene, con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione ha accolto le doglianze della difesa, annullando la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce.
La Suprema Corte ha infatti ritenuto che la sentenza di appello, non confrontandosi con tutte le argomentazioni antagoniste evidenziate nei motivi di gravame, abbia optato per una motivazione insufficiente circa il prospettato dubbio relativo all’eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nickname dell’imputata, mandando il messaggio sul forum di discussione, mal utilizzando il criterio legale di valutazione della prova di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., quanto alla convergenza, concordanza e precisione degli indizi posti a base della ritenuta responsabilità.

Avv. Simona Aduasio
www.simonaaduasio.it

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