La configurabilità della convivenza more uxorio. Nota a Corte di Cassazione, ordinanza del 13 aprile 2018 n. 9178 (Pres. Travaglino – Rel. Rubino).

La convivenza more uxorio, rilevante anche ai fini della risarcibilità del danno subito da un convivente in caso di perdita della vita dell’altro, si configura qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale. Il dato della coabitazione, all'interno dell'elemento oggettivo della convivenza, è attualmente un dato recessivo. Esso deve essere inteso come semplice indizio o elemento presuntivo della esistenza di una convivenza di fatto, da considerare unitariamente agli altri elementi allegati e provati e non come elemento essenziale di essa, la cui eventuale mancanza, di per sé, possa legittimamente portare ad escludere l'esistenza di una convivenza.

Corte di Cassazione, ordinanza del 13 aprile 2018 n. 9178 (Travaglino)

Il caso.
A seguito della morte di Tizio, precipitato nel 2007 nel vano ascensore dell’albergo Gamma, Caia iniziava una causa di risarcimento danni, assumendo che il defunto fosse all’epoca dei fatti suo convivente, pensionato e che lavorasse (benché non in regola) nel cantiere all’interno dell’albergo, ove la Beta s.r.l. stava svolgendo lavori di ristrutturazione. Caia chiedeva il risarcimento dei danni nei confronti del proprietario della struttura, dell’appaltatore, del responsabile dei lavori, del progettista e direttore dei lavori. Venivano chiamate in causa le rispettive compagnie assicuratrici per la responsabilità civile.
Parallelamente, il figlio della vittima, Sempronio, introduceva autonoma causa di risarcimento danni nei confronti delle medesime persone.
Il Tribunale rigettava la domanda di Caia, affermando che mancasse la prova del rapporto di convivenza, in quanto dalle risultanze istruttorie emergeva che Tizio risultava residente in Alfa al momento della sua morte, mentre Caia abitava nel paese di Omega.
A sua volta, la Corte d’Appello rigettava l’appello, ritenendo che dal contesto probatorio non emergesse a sufficienza la prova dell’esistenza di una convivenza stabile tra Tizio e Caia, nonostante vi fossero elementi idonei a ritenere sussistente un rapporto affettivo e una relazione di coppia, ma non un legame caratterizzato da quella stabilità e continuità che legittimano il convivente di fatto ad agire per i danni da perdita del rapporto affettivo ed eventualmente per i danni patrimoniali conseguenti alla morte del convivente.

Il diritto.
È noto che al convivente di fatto si riconosce il diritto, in caso di perdita del convivente, ad una uguale tutela rispetto al soggetto coniugato in caso di perdita del coniuge. Tuttavia, per non estendere indefinitamente le maglie delle situazioni risarcibili fino a ricomprendervi legami labili e non sufficientemente stabilizzati e meritevoli di tutela, la Suprema Corte ha negli anni elaborato una nozione di famiglia di fatto o di convivenza tutelabile all’interno della quale all’elemento soggettivo della relazione affettiva stabile si accompagni l’elemento oggettivo della reciproca, spontanea assunzione di diritti ed obblighi.
Infatti, come ben esplicato nella sentenza n. 23725/2008 della Corte di Cassazione, “Il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente “more uxorio” del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale; a tal fine non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la formazione di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite alla P.A. per fini anagrafici”. In altri casi si è affermato che “Il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio” ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale”. (Corte di Cassazione, sentenza n. 12278/2011).
Deve sottolinearsi che, nell’illustrazione degli elementi identificativi della convivenza di fatto, all’interno della giurisprudenza della Corte, se la coabitazione è stata finora indicata come un indice rilevante e ricorrente dell’esistenza di una famiglia di fatto, individuando l’esistenza di una casa comune all’interno della quale si svolge il programma di vita comune, non è stato peraltro ritenuto un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di per sé, fosse determinante al fine di escludere la configurabilità della convivenza.
Giova richiamare, in particolare, il principio di diritto affermato da Corte di Cassazione, sentenza n. 7128 del 2013, in base al quale integra di per sé un danno risarcibile ex art. 2059 c.c., giacché lede un interesse della persona costituzionalmente rilevante, ai sensi dell’art. 2 Cost. – il pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione.
Deve aggiungersi che, nell’ordinanza in commento, la Suprema Corte ritiene anche necessario prendere atto del mutato assetto della società dal quale emerge che ai fini della configurabilità di una convivenza di fatto, il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al passato.
Non può non considerarsi infatti che la scelta del luogo di abitazione talvolta non può essere conforme alle preferenze delle persone posto che il cambiamento sociale comporta che si instaurino e si mantengano rapporti affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che in passato e deve indurre a ripensare al concetto stesso di convivenza, la cui essenza non può appiattirsi sulla coabitazione.
Esistono anche realtà in cui le famiglie, siano esse di fatto o fondate sul matrimonio, si formano senza avere neppure, per un periodo di tempo più o meno lungo, una casa comune, intesa come casa dove si svolge la vita della famiglia, in quanto ognuno dei due partners è tenuto per i propri impegni professionali o per particolari esigenze personali, a vivere o a trascorrere la gran parte della settimana o del mese in un luogo diverso dall’altro.
In tale cornice, la Suprema Corte ritiene che non ha più alcun senso appiattire la nozione di convivenza sulla esistenza di una coabitazione costante tra i partners, lasciando fuori dai margini della tutela ogni altra relazione, che pur sia stabile sia affettivamente sia sotto il profilo della reciproca assunzione di un impegno di assistenza e di collaborazione all’adempimento degli obblighi economici, ma sia dotata di un assetto organizzativo della vita familiare diverso da quello tradizionale. Negare tutela a tutte queste molteplici situazioni vorrebbe dire perdere il contatto tra la necessità, esistente ed insopprimibile, di delimitare la sfera della risarcibilità alle situazioni giuridicamente meritevoli di tutela, e la necessità, di non inferiore dignità, di tutelare tutte le situazioni meritevoli di tutela senza trascurarne alcuna.
Il dato della coabitazione, all’interno dell’elemento oggettivo della convivenza, è quindi attualmente un dato recessivo. Esso deve essere inteso come semplice indizio o elemento presuntivo della esistenza di una convivenza di fatto, da considerare unitariamente agli altri elementi allegati e provati e non come elemento essenziale di essa, la cui eventuale mancanza, di per sé, possa legittimamente portare ad escludere l’esistenza di una convivenza.
La nozione di convivenza di fatto, intesa come un rapporto di fatto che si caratterizzi, oltre che per l’esistenza di una relazione affettiva consolidata, per la spontanea assunzione di diritti ed obblighi, tali da darle una stabilità assimilabile a quella coniugale, peraltro trova ora il suo supporto normativo nella L. n. 76 del 2016, che all’art. 1, definisce i conviventi di fatto come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, individuando sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco.
Conclusivamente, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, enuncia i seguenti principi di diritto:
– si ha convivenza more uxorio, rilevante anche ai fini della risarcibilità del danno subito da un convivente in caso di perdita della vita dell’altro, qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale:
– ai fini dell’accertamento della configurabilità della convivenza more uxorio, i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza degli elementi presuntivi, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi (quali, a titolo meramente esemplificativo, un progetto di vita comune, l’esistenza di un conto corrente comune, la compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese familiari, la prestazione di reciproca assistenza, la coabitazione), i quali devono essere valutati non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri.

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