IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA VIENE RIMESSO ALLE SEZIONI UNITE
Sommario: I. Brevi premesse – II. Diritto al risarcimento del danno a favore della madre – III. Autonomo diritto al risarcimento del danno anche a favore del padre – IV. Diritto al risarcimento del danno a favore del nato malformato – V. Onere di allegazione e contenuto della prova – VI. Il problema del nesso causale
I. Brevi premesse
La Terza Sezione Civile con ordinanza n. 3569 del 23 febbraio 2015, Rel. Sestini ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, le questioni, oggetto di contrasto, concernenti il danno da nascita indesiderata per la mancata informazione sull’esistenza di malformazioni congenite del feto, e relative all’onere di allegazione e al contenuto della prova a carico della gestante, nonché alla legittimazione, o meno, del nato a pretendere il risarcimento del danno.
L’omessa diagnosi di una malformazione genetica del nascituro pone delicate questioni giuridiche, prima tra tutte l’ammissibilità o meno della domanda risarcitoria proposta dal nato malformato nei confronti del medico, il quale non abbia informato la gestante della malattia congenita che affliggeva il nascituro.
Bisogna ricordare che la via risarcitoria era stata già aperta in Francia dal noto arret Perruche. L’Assemblée plénière della Cour de Cassation si era trovata a giudicare la vicenda della gravissima ed invalidante malattia di un bambino, Nicolas, che all’età di diciassette anni, si vedeva infine riconosciuto il diritto ad un significativo risarcimento verso il medico reo di non aver correttamente informato la madre circa gli esiti clinici e quindi in qualche misura, responsabile del mancato aborto da parte della medesima. La decisione francese ha statuito che: “quando gli errori commessi dal medico e dal laboratorio in esecuzione del contratto concluso con una donna incinta impedirono a quest’ultima di esercitare la propria scelta di interruzione della gravidanza, al fine di evitare la nascita di un bambino handicappato, questi può domandare il risarcimento del danno consistente nel proprio handicap causato dai predetti errori”(ANDEZATI, Dalla disgrazia al danno: come risarcire chi nasce con l’handicap? L’arte di giudicare della Cassazione francese nell’ “Affaire Perruche”, in Dalla disgrazia del danno (L’alambicco del comparatista), a cura di BRAUN, Milano, 2002, p. 369).
L’Affaire Perruche si concludeva tuttavia con un provvedimento legislativo: la Loi n. 303 del 4 marzo 2002. Detta legge oltre ad escludere il danno del bambino per essere nato, riconosceva il diritto al risarcimento del danno di entrambi i genitori (PINCIBO’, La nascita indesiderata tra Italia e Francia.).
La giurisprudenza di legittimità italiana, da parte sua, ha invece accolto e più volte ribadito la tesi negativa.
E’ bene precisare che il problema si pone nel caso in cui la malformazione sia congenita e quindi non sia imputabile, sotto il profilo causale, all’attività del medico e al sanitario si contesta soltanto di non aver riscontrato l’esistenza della suddetta malformazione, incidendo sulla libertà di scelta, in campo procreativo, spettante alla madre. Nell’ipotesi in cui, al contrario, il medico abbia direttamente causato la patologia del feto, non vi sono particolari ostacoli a riconoscere in capo al soggetto poi nato malformato il diritto al risarcimento del danno. Tale conclusione è stata condivisa sia da quella parte della giurisprudenza che ritiene che il nascituro sia, in quanto tale, già titolare di una forma pur limitata di soggettività giuridica, sia da parte dell’orientamento che invece nega decisamente la possibilità di riconoscere la soggettività giuridica del concepito.
Molto più complessa appare al contrario la questione che si pone nell’ipotesi in cui la malformazione sia congenita e al medico si contesti esclusivamente la omessa diagnosi.
II. Diritto al risarcimento del danno a favore della madre
La giurisprudenza in materia è pacifica nel riconoscere la legittimazione all’azione risarcitoria alla madre. In questo caso, infatti, il danno discende chiaramente dalla lesione del suo diritto di autodeterminazione in ordine alla scelta di interrompere o meno la gravidanza. La legge 22 maggio 1978, n. 140 ed in particolare gli artt. 4,6 e 7, riconoscono oggi alla gestante la possibilità di esercitare il diritto di interruzione della gravidanza nei primi novanta giorni qualora la donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni al concepito. Ella può altrimenti decidere di interrompere volontariamente la gravidanza dopo i primi novanta giorni quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Se è la madre ad agire in giudizio, occorre quindi distinguere due piani della fattispecie risarcitoria. Uno riguarda l’accertamento del diritto di abortire, l’altro attiene ai danni risarcibili.
Il primo esige di valutare il rapporto tra la gestante ed il concepito in base alla legge 194/1978. Si dovrà verificare se sussistevano i presupposti per interrompere la gravidanza e più specificatamente se la corretta informazione della gestante avrebbe ingenerato in lei un processo patologico tale da mettere in grave pericolo la sua salute psico-fisica. La donna parte attrice deve dimostrare che se lei fosse stata correttamente informata, sarebbe insorta, con alta probabilità, una lesione della propria integrità psico-fisica, per cui la gestante avrebbe interrotto la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto (GORGONI, I danni da malattia congenita non diagnosticata, in Persona e mercato, p. 145).
Accertato l’inadempimento del contratto concluso tra medico e gestante ovvero delle obbligazioni sorte dal contatto sociale, viene in rilievo il secondo piano d’indagine: quello della valutazione dei danni risarcibili.
L’inadempimento del medico cagiona pregiudizi di natura sia patrimoniale che non patrimoniale. Quest’ultimi secondo la Cassazione a Sezioni Unite, sono risarcibili anche quando sia stato l’inadempimento del contratto ad averli cagionati. Ciò senza dover ricorrere al cumulo delle azioni (Cass. Se. Un. 11 novembre 2008, n. 26972, in Contr. E Impr., 2009, con nota MAZZAMUTO, Il rapporto tra gli artt. 2059 e 2043 c.c. e le ambiguità delle Sezioni Unite a proposito della risarcibilità del danno non patrimoniale).
Non vi sono perciò ostacoli tecnici ad ammettere, astrattamente, il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, provocati dalla condotta del medico che non abbia diagnosticato una malattia congenita del nascituro.
Imputato il fatto dannoso alla condotta del medico ed accertata la sua colpevolezza ci si pone il problema di identificare con chiarezza la natura dei danni risarcibili. Se al momento dell’omessa informazione sussistevano i presupposti dell’interruzione della gravidanza, i danni risarcibili non devono essere limitati e condizionati nel quantum dal bene giuridico protetto dalla legge del 1978, cioè dalla salute della donna (Cass. 2 ottobre 2012, n. 16754, in Giur. It. 2013, n.4).
Di conseguenza il risarcimento non può ritenersi esaurito nel costo necessario per rimuovere le cause del danno alla salute o dalla riparazione del danno biologico concretamente subito dalla donna. Se il medico non adempie esattamente all’obbligazione, sarà tenuto a risarcire tutte le conseguenze prodotte dalla propria condotta (art. 1223 c.c.) di natura patrimoniale come non patrimoniale. Dal punto di vista patrimoniale il quantum liquidato deve tener conto delle due voci di danno emergente e lucro cessante. Per il primo aspetto la somma risarcita sarà pari alla differenza tra le spese necessarie per il mantenimento di un figlio sano e quello affetto da gravi deficit (Cass. 4 gennaio 2010, n. 13, in Contratti, 2010, n. 7). Sotto il profilo del lucro cessante, il risarcimento deve compensare la eventuale diminuzione del reddito da attività professionale o dipendente svolta dal genitore.
Per quanto concerne invece la liquidazione dei danni non patrimoniali, occorre riprendere l’orientamento giurisprudenziale affermatosi di recente, per cui il danno non patrimoniale si articola in una pluralità di voci, con funzione meramente descrittiva quali il danno morale, il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale, anche detto danno esistenziale (Cass. 23 gennaio 2014, n. 1361, in Nuova giur. Civ. comm., 2014 n. 5, con nota di GORGONI, Il danno da perdita della vita: un nuovo orientamento della Cassazione).
Mentre il danno morale ed esistenziale prescindono dalla presenza del danno biologico, il quale necessita dell’accertamento medico-legale della lesione all’integrità psico-fisica, laddove, la nascita malformata non preannunciata dal medico abbia pregiudicato la salute della madre, il danno morale dovrà essere specificatamente valutato e quantificato dal giudice (Cass. 6 marzo 2014, n. 5243, in cassazione.net).
III. Autonomo diritto al risarcimento del danno anche a favore del padre
Altro punto fermo è il riconoscimento di un autonomo diritto al risarcimento del danno anche a favore del padre. A tale conclusione si giunge qualificando, alla luce del tessuto di diritti e doveri che secondo l’orientamento si incentrano sulla procreazione, il contratto tra medico e gestante come un contratto di prestazione d’opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito, che, per effetto dell’attività professionale del ginecologo diventa o non diventa padre.
Il marito, sebbene non sia parte del contratto d’opera professionale stipulato tra la moglie ed il medico, ha comunque interesse all’esecuzione diligente della prestazione sanitaria (il terzo protetto dal contratto è non già creditore della prestazione, ma solo interessato al diligente adempimento della stessa, ex art. 1176 c.c.. Da qui l’inutilizzabilità della figura del contratto a favore di terzo, il quale acquista il diritto alla prestazione contrattuale nei confronti del promittente per effetto della stipulazione, ex art. 1411 c.c.). Ciò perché anch’egli è titolare del diritto alla procreazione cosciente e responsabile e deve adempiere i doveri derivanti dal fatto della procreazione, cui corrispondono diversi diritti del figlio. Inoltre il padre condivide con la madre la sofferenza psichica cagionata dall’inaspettata nascita di un figlio malformato (GORGONI, I danni da malattia congenita non diagnosticata, in Persona e mercato, P. 149).
Se ne deduce che la non diagnosticata patologia congenita del nascituro, lede il diritto di entrambi i genitori alla procreazione cosciente, facendo sorgere in capo al padre un’autonoma posizione all’interno del rapporto obbligatorio, disponendo non di una tutela aquiliana, bensì di un’azione ex contractu per richiedere il risarcimento di tutti i danni subiti (CASTRONOVO, Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, 1976, p. 174).
IV. Diritto al risarcimento del danno a favore del nato malformato
Chiarite le posizioni giuridiche coinvolte dall’inadempimento del medico, è necessario soffermarsi sulla questione davvero controversa, concernente la possibilità di riconoscere iure proprio un diritto al risarcimento del danno a favore del nato malformato.
In Italia si registrano due orientamenti contrapposti.
Il primo nega che il fatto di essere nato malformato, per una malattia contratta naturalmente, ma di cui il medico non si sarebbe accorto, possa costituire un danno. È ovvio sottolineare che la malattia, in quanto ereditaria, non è imputabile alla condotta del medico. Si tratta, infatti, di patologie su cui il medico non può incidere, guerendole o anche solo attenuandole. Di conseguenza non essendo l’evento imputabile al professionista, viene a mancare il presupposto fondamentale della valutazione dei danni risarcibili, non essendo questi conseguenza immediata e diretta della condotta del sanitario.
Di certo l’inadempimento dell’obbligo di informativa nei confronti della gestante non determina una condizione di salute diversa del nato rispetto a quella che si sarebbe avuta nella piena attuazione del consenso informato. L’alternativa, quindi, non sarebbe stata la guarigione del feto, bensì la non nascita dello stesso, concretizzatasi con l’interruzione della gravidanza, voluta dai genitori. Rileverebbe perciò, come causa petendi della domanda risarcitoria la lesione del diritto a non nascere. Il nato lamenterebbe non già la lesione della propria salute, ma l’essere nato a causa della condotta omissiva del medico. Conseguentemente il danno starebbe nell’essere nato. Ma una tale evenienza non può costituire un pregiudizio risarcibile. Non esistendo nel nostro ordinamento il diritto di non nascere (Cass. 11 maggio 2009, n. 10741, in nuova giur. Civ. comm. 2009, p. 1258).
Il secondo orientamento è stato fatto proprio da una decisione più recente, la quale ha osservato che il figlio non si duole del fatto di essere nato, bensì della malattia contratta. In pratica, sarebbe fuorviante impostare il problema in termini di diritto di nascere, affermazione che tra l’altro postula un concepito titolare, laddove al contrario esso non è soggetto di diritto, in quanto la capacità giuridica si acquista solo al momento della nascita.
Il danno è rappresentato non dalla nascita handicappata o dall’esistere in sé per sé, ma dalle ricadute che l’handicap produce sull’esistenza umana, sul vivere stesso. Il nato non si duole della nascita, bensì delle conseguenze esistenziali negative determinate dalla propria condizione fisico-psichica (Cass. 2 ottobre 2012,m. 16754, in Giur. It., 2013).
Naturalmente il solo danno non è sufficiente a fondare la pretesa risarcitoria. Occorre prima di tutto individuare, sul piano della responsabilità civile, il pregiudizio lamentato dal minore e dunque la legittimazione di quest’ultimo.
Secondo una prima tesi, il minore farebbe valere un diritto a non nascere. Poiché l’errore del medico ha determinato la nascita (in quanto se il medico si fosse accorto della malformazione la madre avrebbe abortito) sembra ovvio concludere che è proprio della nascita che il minore si duole, avendo preferito non nascere affatto, anziché esserlo in quelle condizioni. La Cassazione ha definito il diritto a non nascere come un diritto adespota cioè senza titolare, in quanto non potrebbe esserlo il concepito, poiché privo di capacità giuridica, né il nato giacché la nascita è un fatto incompatibile con lo stesso diritto in esame.
La tesi successiva parte invece da una prospettiva diversa. Chi nasce malato non fa valere la lesione del diritto a nascere sano o del diritto a non nascere affatto. Fa valere ora per allora la lesione della salute, fa cioè valere ora una lesione infertagli quando era nascituro (CRICENTI, Il danno da nascita indesiderata rimesso alle Sezioni Unite (per le ragioni sbagliate), in Diritto civile Contemporaneo, 2015 n. I).
V. Onere di allegazione e contenuto della prova
Questo contrasto è ormai rimesso alle Sezioni Unite.
Se infatti i genitori si dolgono della circostanza che, non avendoli il medico informati di una malformazione, essi hanno perduto la possibilità di abortire, ne deriva che la condotta del medico può aver procurato un danno in quanto è dimostrato che i genitori avrebbero abortito. In difetto di tale prova l’omissione del medico non è rilevante.
Se per ipotesi i genitori avessero portato avanti la gravidanza, l’errore del medico, sarebbe risultato del tutto irrilevante. Al contrario, se l’intenzione dei genitori era quella di abortire, tale interesse è stato pregiudicato dalla condotta del medico, inducendoli ugualmente al parto.
Anche in questo caso possiamo individuare due distinti filoni di pensiero.
Il primo ritiene che sia sufficiente la decisione della gestante di sottoporsi alle specifiche indagini mediche per dedurne l’intenzione della stessa di abortire, in caso di esito infausto (Cass. 10 novembre 2010,n. 22837, in Resp. Civ., 2011, p. 464 ss.).
Secondo filone di pensiero, invece, ritiene che non basti allegare semplicemente di essersi sottoposti ad indagini sul feto, essendo al contrario necessario dimostrare di avere espressamente dichiarato al medico la volontà di interrompere la gravidanza in caso di malformazione del feto, oppure la prova che, pur non avendolo espressamente dichiarato, era comunque intenzione della gestante di abortire in quel caso (Cass. 22 marzo 2013,n. 7269, in biodiritto.org).
Questa seconda tesi richiede non solo la dimostrazione che l’omessa informazione del medico ha inciso sul diritto di abortire, ma anche che tale diritto sarebbe stato esercitato (CRICENTI, Il danno da nascita indesiderata rimesso alle Sezioni Unite (per le ragioni sbagliate), in Diritto civile contemporaneo, 2015, n. 1).
VI. Il problema del nesso causale
L’aspetto giuridico più delicato del danno lamentato dal nato per omessa diagnosi della malattia congenita è però quello del nesso di causalità materiale.
Come già ribadito, infatti, l’handicap in sé considerato non è cagionato dalla condotta omissiva del medico, il quale, pertanto, non può essere considerato responsabile di alcun danno-conseguenza subito dal neonato.
L’ultima decisione del caso aggira il problema, affermando che se il medico impedisce alla donna di abortire il nascituro malformato, allo stesso deve essere imputato il tipo di esistenza che è comunque costretto a condurre il nato. Ciò che è da imputare al medico sarebbero quindi le conseguenze negative sull’esistenza dello stato di infermità. È la futura vita handicappata a dover essere tutelata, rispettata e alleviata per via risarcitoria.
Chi nasce malato non invoca un diritto di non nascere e non si duole del fatto di essere nato, ma si duole della malattia. Se il danno non è la nascita, ma è la malattia, si può dire che la condotta del medico è causa della malattia nel senso che se egli se ne fosse accorto questa sarebbe stata evitata, evitando la nascita. Questo di fatto vorrebbe però dire che si elimina la malattia eliminando il malato (CRICENTI, op. cit.).
Dunque chi agisce non lamenta di essere nato, ma lamenta lo stato di malattia che di fatto lo affligge (CRICENTI, meglio non essere mai nati? Il diritto a non nascere rivisitato, in Riv. Crit.dir. priv. 2013, p. 315).
Dott.ssa Francesca Timpani