I LIVIDI INVISIBILI DELLA VIOLENZA PSICOLOGICA STALKING, VIOLENZE E MOBBING FAMILIARE

 

a cura dell’avv. Antonio Torre

 

La violenza intra-familiare rappresenta purtroppo una triste realtà, che coinvolge sempre più spesso la “coppia” in tutte le sue sfaccettature. Sempre più spesso ci troviamo di fronte soggetti incapaci di domare o manifestare in pubblico le proprie tensioni, l’aggressività, con la conseguenza che le frustrazioni, i disagi e le sofferenze, le riversano nella sfera più intima dei rapporti primari.

La famiglia non rappresenta solo un sistema in cui agiscono vincoli affettivi positivi, quali la condivisione, il rispetto e l’amore, ma anche un sistema carico di affetti negativi quali la sopraffazione, la perversione, la prevaricazione fisica, psicologica, sociale, economica e sessuale.

Il soggetto disturbato, violento e distruttivo, come lo psicopatico o il narcisista maligno o patologico, per l’innata esigenza di dominare e distruggere anche le persone di famiglia o con le quali hanno avuto dei figli, commette assai frequentemente reati ed illeciti dai quali ci si vede costretti a difendere se stessi e, qualora vi fossero, i propri figli.

Quante possibilità la vittima concede al soggetto che ha accanto? Quante volte le sue speranze sono state tradite e la violenza psicologica è, anzi, aumentata? Spesso ripetuti tradimenti, assenze, anche durante malattie o gravidanze, svalutazioni, critiche e silenzi hanno costituito gran parte della relazione. Il partner violento si è sottratto ad ogni responsabilità verso la sofferenza che procurava e verso gli impegni assunti, morali e materiali.

Il soggetto disturbato e violento abusa del partner ed abuserà, almeno psicologicamente, anche dei suoi figli, che vanno protetti. Alcuni soggetti hanno rapporti fondati solo sul possesso ed il controllo, la manipolazione e la rabbia, il ricatto (“se non fai ciò che dico ti abbandono e smetto di “amarti”) e queste modalità verranno poste in essere anche verso i figli.

Di recente configurazione, il concetto di mobbing, utilizzato nel diritto del lavoro, è stato trasposto all’ambito familiare.

Nell’affrontare il delicato e complesso tema del mobbing nel contesto delle relazioni coniugali e familiari è facile incorrere in una sorta di “sindrome della torre di Babele”, in cui si parla della stessa cosa con linguaggi diversi ed in contesti differenziati, ingenerando così incomprensioni e difficoltà interpretative.

La difficoltà maggiore consiste nel fatto che lo specifico tema del mobbing familiare risulta essere ancora poco esplorato non tanto dalla dottrina quanto piuttosto dalla giurisprudenza, con la conseguenza che le delicate questioni della identificazione del fenomeno, della sua dimostrazione in giudizio e degli strumenti di tutela devono necessariamente essere “presi in prestito” dal settore che ha visto nascere il mobbing e sul quale si sono sinora misurati e confrontati gli interpreti, vale a dire il diritto del lavoro e la tutela del lavoratore.

Il mobbing assume questa denominazione da espressioni anglosassoni che indicano l’azione di una folla, antagonista nei confronti di un singolo individuo.

Il verbo “to mob” significa accerchiare, affollarsi attorno a qualcuno ed esprime il senso del circondare, dell’assediare una persona che ne risulta vessata e posta in condizioni di inferiorità.

Il sostantivo “mob”, a sua volta, indica la folla, con un connotato negativo di agglomerato ostile, pericoloso e sostanzialmente illecito.

Il mobbing familiare si sostanzia in ripetute condotte irriguardose assunte da parte del convivente nei confronti dell’altro, fino a farle sfociare in atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, spesso anche pubblici.

Con il termine mobbing familiare si identificano tutti quei comportamenti denigratori nei confronti del coniuge tali da annullare la personalità e ridurre l’autostima della vittima. 

I fatti continui e reiterati dai quali scaturiscono vessazioni soprattutto a livello psicologico, che portano il soggetto che li subisce a sminuire la propria personalità e ad annullare la propria autostima tanto da porsi in netta sottomissione con l’autore. 

Dai semplici apprezzamenti negativi sulla capacità gestionale del menage familiare alla costante denigrazione della personalità della vittima delineano i caratteri del mobbing familiare e del suo obiettivo volto alla distruzione della personalità del partner.

Il mobbing familiare fa ingresso nell’ambito dei rapporti coniugali dopo il suo riconoscimento operato dai giudici della Corte di Appello di Torino nel 2000, che valuta come rilevante ai fini dell’addebito della separazione il comportamento ingiurioso ed offensivo tenuto in pubblico dal coniuge ai danni dell’altro coniuge.

Per mobbing familiare si deve intendere la concomitanza di una serie di comportamenti – alcuni dei quali potrebbero avere autonoma rilevanza penale – che vengono ripetuti costantemente in danno del partner.

Tali comportamenti si concretizzano in una serie di vere e proprie vessazioni, soprattutto di tipo psicologico, che portano il soggetto destinatario a subire una svalutazione della propria personalità, ad annullare la propria autostima al punto di venirsi a trovare in una posizione di totale sottomissione davanti al mobber (il partner che pone in essere tali comportamenti).

Così, ad esempio, dai semplici apprezzamenti negativi sulle capacità di gestione del menage familiare, si passa alla costante denigrazione dell’aspetto fisico, delle capacità del coniuge, alla sistematica demolizione dell’integrità della personalità mediante l’insulto, il rifiuto di ogni apprezzamento e via dicendo. Oltre la descrizione delle condotte, per definire la sussistenza di una ipotesi di mobbing familiare o mobbing coniugale, è necessario che tali condotte si ripetano nel tempo e che l’effetto psicologico vada oltre quello che, ad esempio, può essere attribuito ad un semplice litigio.

Quale è’ il disegno del mobber? La distruzione del partner; qual’è il disegno dello psicopatico e del narcisista maligno? La stessa, ossia la distruzione del partner.

Quello che caratterizza infatti il mobbing familiare (o mobbing coniugale) è un vero e proprio disegno posto in essere al fine di operare una vera e propria distruzione della personalità del partner che (quasi in preda alla c.d. Sindrome di Stoccolma) cade in uno stato di depressione indotta dal mobber (dai suoi comportamenti), nella quale la perdita completa dell’autostima e l’annullamento della personalità sono, spesso, lo strumento per indurre l’allontanamento della vittima. In pratica, ciò corrisponde alla fase della svalutazione che compone il ciclo delle relazioni malate di psicopatici e narcisisti patologici.

Raramente tali condotte assumono la configurazione di maltrattamenti fisici ma ciò non è da escludere, considerata la scarsa tendenza a portare all’attenzione dell’autorità tali episodi: la vittima cade in uno stato paragonabile a quello delle vittime di violenza, spesso restie per paura o vergogna (che in questo caso sono direttamente indotte dalle azioni del mobber– disturbato) a denunciare quanto subito.

Può essere utile riferimento la sentenza del T.A.R. Campania (Napoli Sez. II° n. 2036 del 20 aprile 2009) – nella prospettiva di mutuare elementi dal diritto del lavoro – che afferma come: “il mobbing presuppone dunque i seguenti elementi: a) la pluralità dei comportamenti e delle azioni a carattere persecutorio (illecite o anche lecite, se isolatamente considerate), sistematicamente e durevolmente dirette contro il dipendente; b) l’evento dannoso; c) il nesso di causalità tra la condotta e il danno; d) la prova dell’elemento soggettivo”.

Mentre, sotto il profilo della sussistenza dell’ipotesi di mobbing familiare o mobbing coniugale, nell’ambito di un giudizio relativo alla separazione dei coniugi (in questo caso ai fini dell’addebitabilità), la Corte di Appello di Torino (nel 2000) venne, per la prima volta, a configurare la fattispecie indicando la rilevanza di un “comportamento, in pubblico, del coniuge offensivo ed ingiurioso nei confronti dell’altro coniuge, sia in violazione delle regole di riservatezza, e sia, soprattutto, in riferimento ai doveri di fedeltà, correttezza e rispetto derivanti dal matrimonio, condotta ancor più grave se accompagnata dalle insistenti pressioni (“mobbing”) con cui il coniuge stesso invita reiteratamente l’altro ad andarsene di casa”.

La figura del mobbing familiare ha trovato spazio in una sentenza della Corte d’Appello di Torino del 21 febbraio 2000 con la quale i giudici di secondo grado hanno sdoganato il fenomeno dall’ambito del diritto del lavoro perché trovasse ingresso nel diritto di famiglia.

Ancora, più recentemente, il Tribunale di Napoli (27 settembre 2007) ha affermato come: “la continua denigrazione di un coniuge da parte dell’altro, integrando il c.d. “mobbing”, può comportare l’addebito della separazione al coniuge responsabile di tali abusi”.

L’art. 143 c.c., infatti, enuncia in maniera lapidaria, la parità degli coniugi, rafforzando il dettato costituzionale in tema. Il mancato rispetto degli obblighi di cui all’143 c.c. (coabitazione, collaborazione all’indirizzo familiare, fedeltà e assistenza morale e materiale) può infatti, determinare il ricorso per separazione e giustificare l’addebito al coniuge inadempiente.

In particolare, si può individuare nel mobbing quel fenomeno che porta l’un coniuge ad attuare comportamenti o molestie psico – fisiche che comportano la perdita di autostima da parte dell’altro, fino a distruggerne la personalità. A proposito del mobbing familiare, però, è preliminarmente necessario fare una distinzione: il mobbing coniugale, consiste in un attacco, continuo e intenzionale, nei confronti del proprio coniuge per metterne in discussione il proprio ruolo, estrometterlo dalle decisioni o per indurlo a decisioni cui invece è contrario.

Segnali tipici sono: esternazione reiterata di giudizi offensivi e atteggiamenti irriguardosi nei confronti del proprio coniuge; atteggiamenti di disistima e di critica aperti e teatrali rifiuto di collaborare alla realizzazione dell’indirizzo familiare concordato; tentativi di sminuire il ruolo in famiglia; pressioni per lasciare la casa coniugale; continue imposizioni della propria volontà in relazione a scelte che si rendano necessarie nel corso della convivenza coniugale; azioni volte a sottrarre beni comuni alla coppia; mancato supporto alla vittima nel rapporto con gli altri familiari; coinvolgimento continuo di terzi nelle liti familiari.

Il mobbing familiare, può essere attuato anche all’interno della coppia genitoriale in seguito alla separazione o al divorzio.

Segnali possono essere costituiti da: sabotaggi delle frequentazioni con il figlio; emarginazione dai processi decisionali tipici dei genitori; minacce; campagne di denigrazione e delegittimazione familiare e sociale; sminuire il ruolo genitoriale agli occhi del figlio.

I comportamenti dello S. (il marito) erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: lo S. additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa” e che “ il marito curò sempre e solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere e con comportamenti ingiuriosi, protrattisi e pubblicamente esternati per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la T. (moglie) nell’autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita”; si legge ancora nella sentenza che “al rifiuto, da parte del marito, di ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, nonché delle insistenti pressioni – fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing – con cui lo S. invitava reiteratamente la moglie ad andarsene”; ritenuto che tali condotte sono “violatori del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art. 3 Cost. che trova, nell’art. 29 Cost. la sua conferma e specificazione”; conclude nel senso che al marito ”deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e di fedeltà [1]”.

Circoscrivere l’ambito del mobbing familiare a motivo di addebitabilità della separazione può, però, essere un modo troppo semplicistico di considerare il fenomeno, nasce quindi la necessità di scegliere fra strumenti che il diritto fornisce, fra quelli che meglio si attagliano alla necessità di tutela del mobbizzato.

In particolare, troverà applicazione alla fattispecie sicuramente il risarcimento del danno ex art. 2043; la tutela aquiliana è quella che meglio si adatta alla tutela della fattispecie in esame, in quanto i comportamenti mobbizzanti posti in essere dal coniuge, non rientrano fra quelli previsti dagli artt. 143 e 145 c.c., ma sono “ingiusti” in quanto l’illiceità della condotta del partner lede la personalità, l’autostima del coniuge.

Qualora l’illecito rientri nella fattispecie di reato di cui all’art. 570 c.p. (violazione degli obblighi di assistenza familiare) o art 572 c.p. (delitto di maltrattamenti in famiglia), la risposta sanzionatoria penale sarà fornita anche dai nuovi strumenti di tutela previsti dal legislatore con la l. n. 54/2001 e s.m.i. in tema di tutela contro i soprusi nell’ambito della famiglia.

Spesso e volentieri in passato, si è fatto rientrare il fenomeno del mobbing familiare nell’ambito della categoria del danno esistenziale, la cui autonomia oggi è stata ampiamente sconfessata dalla giurisprudenza.

Per quanto, comunque, le due figure non coincidano perfettamente, soprattutto se si intende tenere presente il fenomeno del mobbing classicamente inteso, è possibile che i comportamenti attuati dal mobber possano così essere sanzionati con lo strumento del risarcimento ex art. 2043 c.c.

Il procedimento penale a carico del genitore per condotta violenta nei confronti del figlio e della moglie, anche se ancora pendente, costituisce indizio per escludere l’affidamento.

Indipendentemente dall’esito del giudizio penale pendente, il Tribunale ha ritenuto di disporre un affidamento esclusivo alla madre, adottando un atteggiamento prudenziale.

La decisione è giustificata anche dalla presenza di un profondo rancore che caratterizza il rapporto di coppia, non di mera conflittualità, normale nella fase separativa. L’uomo aveva dedotto che la separazione, con suo conseguente tracollo psicologico, era stata causata dalla moglie di cui aveva scoperto l’infedeltà coniugale.

Si ritiene, in ogni caso, che la semplice conflittualità non sia di per se ostativa all’affido condiviso ma lo diventa quando il figlio sia perennemente spettatore di conflitti estenuanti tra i genitori e a causa di ciò sia esposto a rischio di sofferenza psichica grave o a problematiche comportamentali.

Inoltre è rilevante l’inidoneità alla condivisione dell’esercizio della responsabilità genitoriale quando conduce ad un pregiudizio per il minore[2].

In sostanza, si preferisce l’affidamento esclusivo quando l’affidamento condiviso sia contrario all’interesse superiore del minore.

Una modalità particolarmente invasiva attraverso la quale si realizza il mobbing familiare è quella dello stalking, termine derivato dall’esperienza giuridica dei Paesi di common law e recepito dalla nostra dottrina negli ultimi anni — che indica un comportamento assillante e invasivo della vita altrui realizzato mediante la reiterazione insistente di condotte intrusive (telefonate, appostamenti, pedinamenti fino, nei casi più gravi, alla realizzazione di condotte integranti di per sé reato, quali minacce, ingiurie, danneggiamenti, aggressioni fisiche).

Si tratta, quindi, di comportamenti persecutori, diretti o indiretti, ripetuti nel tempo, che incutono uno stato di soggezione nella vittima provocandole un disagio fisico o psichico e un ragionevole timore di subire un male più grave.

Lo stalking familiare si sostanzia in un comportamento assillante e invasivo della vita del partner, mediante la reiterazione insistente di condotte intrusive nei suoi confronti che ne condizionano negativamente la vita quotidiana.

Con il termine stalking si intende indicare una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo che affligge un’altra persona, perseguitandola e procurandole stati di ansia e di paura, che possono arrivare a comprometterne il normale svolgimento della vita quotidiana.

Più propriamente si assiste alla consumazione di una serie ripetuta di atti, tesi alla sorveglianza e al controllo, alla ricerca del contatto o all’instaurazione di un rapporto di comunicazione, realizzati con il fine ultimo di affliggere e perseguitare la vittima.

L’ordinamento italiano ha individuato in detta condotta una fattispecie criminosa che con l’art. 7 d.l. 23.02.2009, n. 11, convertito in legge n. 38 del 2009, ha introdotto l’art. 612 bis c.p.c., rubricato atti persecutori.

Oltre alle intimidazioni e alle molestie altre forme di persecuzione possono riscontrarsi in ripetute telefonate e/o invio di sms ed e-mail, in corteggiamento assillante, in controllo assillante, in pedinamenti e appostamenti, in tentativi di screditare la vittima ed isolarla dal contesto familiare e amicale, in danneggiamento di oggetti di proprietà.

Al verificarsi di tali fatti la vittima deve cercare aiuto e sostegno e soprattutto assistenza in modo da evitare ogni coinvolgimento fisico ed emotivo.

Lo psicopatico, il narcisista patologico ed, in genere, il soggetto violento e manipolatore, tuttavia, vogliono controllare e dirigere lo scarto della vittima e qualora ella si ribelli, spesso, è fatta oggetto di atti persecutori.

Lo stalking tuttavia è un reato grave, punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi e si attua ogni volta che, a norma dell’art. 612 bis c.p. “chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici o se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma.

Purtroppo il copione è spesso il medesimo: lo stalker (spesso un ex-fidanzato o marito), comincia a perseguitare quello che per lui è un oggetto ossessivo di desiderio, insinuandosi (con telefonate, sms o altri mezzi) ripetutamente nella vita privata della vittima. A volte, si realizza una vera e propria escalation persecutoria (partendo da episodi piuttosto innocui per giungere a episodi pericolosi per la vittima) che fa sfociare lo stalking in atti di violenza e, addirittura, in brutali omicidi.

Tale assunto è confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità[3]. Il delitto non è, pertanto, configurabile in presenza di un’unica, per quanto grave, condotta di molestie e minaccia[4], mentre è irrilevante il fatto che, all’interno del periodo di vessazione, la persona offesa abbia avuto transitori momenti di benevola rivalutazione del passato e di desiderio di pacificazione con il marito persecutore[5].

La condotta va, inoltre, valutata nella sua articolazione complessiva, tant’è che condotte in sé non punibili autonomamente potrebbero invece presentarsi rilevanti ai fini dell’integrazione del reato[6].

Per minaccia si intende la prospettazione ad altri di un male futuro ed ingiusto, la cui verificazione dipende dalla volontà dell’agente[7].

Per molestia deve intendersi tutto ciò che viene ad alterare dolosamente, fastidiosamente e importunamente, in modo immediato o mediato, lo “stato psichico” di una persona[8].

È configurabile la condotta di atti persecutori tramite molestie, ad esempio, nel comportamento di chi reiteratamente telefoni alla persona offesa presso il luogo di lavoro trasmettendo messaggi dal contenuto ingiurioso e con riferimenti espliciti alla vita sessuale, così cagionando un grave e perdurante stato d’ansia[9], o nel comportamento di chi reiteratamente invii alla persona offesa “sms” e messaggi di posta elettronica o postali sui cosiddetti “social network”, nonché divulghi attraverso questi ultimi filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima[10] o, ancora, nel comportamento di chi, con pedinamenti sistematici, appostamenti e con una serie continua di telefonate, offendendone il decoro e l’onore della persona offesa, inviando delle missive all’indirizzo della stessa, abbia ingenerato nella vittima un continuativo stato di preoccupazione ed una sensibile modificazione delle normali abitudini di vita[11] .

Integra il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. la reiterata redazione e ripetuta diffusione di messaggi funzionali a umiliare due coniugi, a violare la loro riservatezza, a rappresentare la vita sessuale della moglie come aperta a soggetti estranei[12].

In particolare, l’aggravamento di pena scatta «se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici».

Il delitto in analisi è punito, di regola, a querela della persona offesa. Vista la particolare natura del reato, è previsto il c.d. “microsistema di tutela integrata” e, in particolare, del provvedimento di ammonimento del questore.

Detta norma attribuisce al questore il potere di ammonire oralmente il soggetto, prima della proposizione della querela, nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, «a tenere una condotta conforme alla legge».

La vittima può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta.

 

Il fenomeno manipolatorio del Gaslighting.

Il termine di gaslighting deriva dal film “Gaslight” (1944) di Georg Cukor che narra la storia di una coppia in cui il marito attua particolari strategie di manipolazione nei riguardi della moglie alterando le luci a gas e facendole credere di essere diventata pazza.

Possiamo considerare questo fenomeno come un abuso psicologico dove si va ad intaccare la sicurezza del sé e l’autostima della vittima indebolendola da un punto di vista psicologico e rendendola dipendente dal manipolatore, in questo caso il ‘gaslighter’.

Il gaslighting è una tecnica manipolatoria molto sottile e non facile da riconoscere, soprattutto nella fase iniziale. Solitamente, vengono coinvolti parenti o partner. È possibile individuare tre fasi attraverso cui si sviluppa questo processo[13] quali: nella prima, si va a creare una distorsione della comunicazione agendo verbalmente, in modo tale che la vittima non si accorga di essere manipolata. Viene anche chiamata fase dell’incredulità: la vittima non è ancora in balia del manipolatore, non crede in ciò che lui dice e mantiene una certa sicurezza di sé.

Nella seconda fase, la vittima cerca di difendersi dalle continue vessazioni del gaslighter ma inizia a non sentirsi più sicura come prima. Nel tentativo di difendersi, le sue sicurezze e convinzioni incominciano ad indebolirsi permettendo al manipolatore di adottare le sue strategie di manipolazione, sapendo bene che ciò che dice non corrisponde alla realtà senza che la vittima glielo confermi.

Nella terza fase, la vittima si convince di avere problemi a livello mentale (come, ad esempio, una disfunzione cerebrale) e diventa dipendente dal carnefice. Ha bisogno di lui per tentare di uscire dal suo stato confusionale. La vittima si trova in una condizione depressiva in cui è totalmente vulnerabile sul piano psicologico.

La vittima diventa talmente vulnerabile da non essere più in grado di chiedere aiuto esterno: si isola anche a livello sociale perché si sente inadeguata.

Il gaslighter è un soggetto molto frequente in quelle coppie dove la donna è la vittima del compagno e si viene a creare una grave forma di perversione relazionale. Questo rapporto si cronicizza nel preciso momento in cui la persona manipolata si convince che il manipolatore ha spesso ragione idealizzandolo[14].

Il gaslighting è in correlazione con il mobbing familiare e con lo stalking.

Nel primo caso, il fenomeno si sviluppa all’interno delle relazioni familiari e tra coniugi allo scopo di denigrare uno dei membri del nucleo. Nel caso dello stalking, il gaslighting è l’evoluzione del comportamento abusante (seppure ricorra a modalità più sottili) che dà forma ad una grave violenza psicologico-emozionale[15].

Da un punto di vista clinico, non c’è un quadro diagnostico nosografico preciso (DSM-V) che lo classifichi come disturbo.

Può essere considerato come una sottospecie di sadomasochismo, correlabile con disturbi di personalità narcisistica o da parafilie. Non tutti gli individui di questo tipo, però, rientrano in certe caratteristiche associate ad una diagnosi precisa.

Il fenomeno è legato ad una serie di cause e concause che vanno valutate caso per caso[16].

 

 

 

 

Conclusioni.

Sia donne che uomini possono essere vittime di violenza psicologica.

Esistono uomini che amano e uomini che vogliono possedere. Nelle relazioni il controllo ossessivo è una violenza psicologica che subiscono molti partner, riconoscerla è importante.

Svalutazione continua, controllo delle amicizie e degli affetti, gelosie ingiustificate e stalking, insulti e minacce, limitazioni all’autonomia morale ed economica, insistenza continua per ottenere rapporti sessuali, falsi pentimenti, sono tutti indici di eccessivo controllo e di violenza psicologica perpetuati a danno di qualsivoglia partner.

Per riuscire a reagire alla violenza psicologica è necessario tempo, forza e consapevolezza da parte della persona che la subisce, perché l’unica via da percorrere è quella della fuga (intesa come venir via e lasciare la situazione che ci fa star male).

Ma per riuscire a percorrere questo cammino, il percorso è lungo, e sicuramente il primo passo è riconoscere di avere un problema e chiedere aiuto. Chiedere aiuto non è mai sintomo di debolezza: anzi tutto il contrario!

È sinonimo di coraggio e consapevolezza, ed è qualcosa di cui andare fieri (e questo vale per ogni situazione che ci fa star male).

Occorre pertanto, per uscire da una situazione di violenza psicologica: Ammettere il problema e affrontarlo: se c’è qualcosa che vi fa star male, avete un problema. L’accettazione è il primo passo alla soluzione del problema; Chiedere aiuto: parlate del vostro problema con i vostri cari, amici e parenti perché vi possano essere di supporto, ma rivolgetevi soprattutto a un esperto del settore, terapeuta o avvocato, perché vi possa seguire professionalmente nel vostro percorso (o se volete intraprendere un caso giudiziario nei confronti di chi ha esercitato violenza su di voi); Concentratevi su voi stessi, sui vostri desideri e bisogni: la violenza psicologica tende a sminuire, denigrare, umiliare le persone che la subiscono: ripartire da sé stessi dopo una violenza psicologica, è un modo per imparare a mettersi al centro del proprio mondo e stare bene; Migliorare l’autostima: connesso al punto precedente, è importante ricordare quanto si è importanti e unici, e quanto ci meritiamo amore e serenità; Lasciare la persona, il lavoro, la situazione che fa star male: l’amore non fa star male; se qualcuno vi tratta male non vi ama, vi sta solo manipolando.

Reagire alla violenza psicologica non è facile, soprattutto quando sono coinvolti i sentimenti, ma è un passo necessario per ritrovare la serenità e la felicità. Imparare a chiedere aiuto e a riconoscere il problema è un passo fondamentale.

Per sottrarsi alla violenza ed allo sfruttamento si deve recuperare la capacità di azione, di difesa, la autostima ed i propri confini.

Si deve uscire dal ruolo di vittima passiva del predatore e tornare ad essere padrone delle proprie scelte e della propria vita.

Voglio concludere infine, questo saggio riportando uno stralcio del romanzo di Cinzia Pennati, “Il matrimonio di mia sorella”, Giunti editore, che a sommesso parere dello scrivente può essere declinato in qualunque forma e genere, atteso che la violenza non conosce confini, vale per ciascun essere umano.

(…) “Figlie mie, siate delle fottute egoiste. Pretendete ciò che è vostro. La maternità non è una missione.
Il matrimonio neppure. La vostra esistenza sì. Siate egoiste quando vi chiedono di rinunciare in nome della famiglia. Non alzatevi da tavola, se un uomo non lo ha fatto prima di voi. Ritagliatevi spazi degni, per fare ciò che vi piace: cinema, teatro, passioni. Siate egoiste quando vi chiedono di essere il loro “tutto”. Che siano figli, partner, amici. Tenete qualcosa per voi. Di segreto. Protetto. Irraggiungibile. Siate egoiste. Non condividete ogni cosa. Ci sono luoghi che vi devono appartenere in maniera esclusiva, in cui potrete tornare quando le cose non vanno. Siate così egoiste da essere economicamente indipendenti. Un conto in banca solo vostro, che a mischiare amore e soldi si fa un gran casino. E non si sa mai. Siate egoiste quando l’altro si offende perché non siete ancora a casa, perché non c’è la cena pronta. Pazienza. Non smettete di fare quello che state facendo. Se siete lì, vuol dire che quello spazio merita il vostro tempo. Siate egoiste quando il lavoro, la carriera sono importanti e vengono prima del resto. Per gli uomini è così, dato accettato e riconosciuto. Perché non dovrebbe esserlo per voi? Siate egoiste. Non fate l’amore se non volete. Non fingete. Siate sincere. Anelate al piacere piuttosto, siate egoiste come lo è un uomo. Pensate a voi. Prima di tutto a voi. Figlie mie. Al vostro corpo. Ai desideri. All’anima. Difendere i vostri diritti come una necessità finché non avranno lo stesso peso degli uomini che avete accanto. Diritti che vanno al di là di una famiglia, di un figlio, di un amore. Sono qualcosa di così intimo che riguarda solo voi e nessun altro. Impossibile violarli, il rischio è l’infelicità camuffata da felicità. Il sacrificio camuffato in amore. Siate così fottutamente egoiste da salvarvi. E non importa quanto vi criticheranno, vi faranno sentire in colpa, vi richiameranno nello spazio chiuso di un ruolo. Magari quello di moglie. Magari quello di madre. Voi non abbiate dubbi. Scegliete sempre di essere le donne che desiderate. Siate fottutamente egoiste.
Questa la mia eredità di madre, per voi
”.

 

[1] App. Torino, 21 febbraio 2000.

 

[2] Cass. Civ. n. 16593/2008, n. 21591/2012 e n. 12976/2012.

[3] C. pen., Sez. III°, 7.3.2014, n. 23485 e di merito T. Mantova, 18.8.2009; T. Milano, 17.4.2009; T. Firenze, 22.10.2012.

[4] C. pen., Sez. V°, 24.9.2014, n. 48391.

[5] C., Sez. V°, 16.9.2014, n. 5313; C. pen., Sez. V°, 17.6.2014, n. 41040.

[6] C. pen., Sez. V°, 23.4.2014, n. 37448.

[7] C. pen., Sez. V°, 12.5.2010, n. 21601.

[8] C. pen., Sez. V°, 27.9.2007, n. 40748; C. pen., Sez. I°, 24.3.2005, n. 19718.

[9] T. Milano, 5.9.2009.

[10] C. pen., Sez VI, 16.7.2010, n. 32404.

[11] A. Milano, 27.9.2011.

[12] C. pen., Sez. V, 5.3-10.7.2015, n. 29826.

[13] Mascialino, 2011.

[14] Salvadori, 2010.

[15] Trapella, 2011.

[16] Mascialino,2011.

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