La convivente ha diritto all’usufrutto sull’abitazione comune grazie al testamento Cassazione, sez. II, 20 dicembre 2011, n. 27773

 

LA CONVIVENTE HA DIRITTO ALL’USUFRUTTO SULL’ABITAZIONE COMUNE GRAZIE AL TESTAMENTO

Cassazione, sez. II, 20 dicembre 2011, n. 27773

(Pres. Schettino – Rel. Falaschi)

 

 

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 30 giugno 2006 C.A.M. evocava, dinanzi al Tribunale di Lodi, B.A. , CO.An. e CO.Sa. , R.D. e R.S.A. , quali eredi di B.L. , deceduto l'(omissis), chiedendo di accertare il diritto di usufrutto vitalizio in suo favore sull’immobile sito in (omissis) , di proprietà del de cuius, nonché il diritto al riconoscimento di una somma non inferiore ad Euro 150.000,00 per l’assistenza affettiva, morale e materiale prestata allo stesso B.L. in 20 anni di convivenza more uxorio. L’attrice precisava che con testamento olografo del 4.10.2001 il de cuius le aveva assegnato un legato di L. 50.000.000 ed aveva costituito in suo favore un usufrutto vitalizio sulla casa di (omissis) , da lui successivamente venduta per trasferirsi, insieme a lei, nella villa bifamiliare di (omissis) , sostenendo che costituiva volontà del defunto trasferire l’usufrutto sulla nuova abitazione.

Instaurato il contraddittorio, costituiti i convenuti i quali contestavano le domande attoree e in riconvenzionale chiedevano di accertare che l’occupazione dell’immobile da parte dell’attrice era privo di titolo, ordinandole di riconsegnarlo con i relativi arredi, oltre a condannarla al risarcimento del danno e alla restituzione di Euro 18.900,00 indebitamente prelevati nel c/c n. (omissis) della Banca Popolare Italiana cointestato con il de cuius, il Tribunale di Lodi, rigettava la domanda attorea e in accoglimento di quella riconvenzionale, condannava la C. al rilascio dell’abitazione e alla restituzione di Euro 18.900,00.

In virtù di rituale appello interposto dalla C. , con il quale chiedeva accertarsi l’esistenza del diritto di usufrutto sia in forza del testamento sia dell’art. 2 D.P.R. n. 136/1958, art. 138 T.U. n. 645/1958, art. 6 L. n. 405/1975, sia del diritto di abitazione di cui agli artt. 1022, 1023 e 1026 c.c., nonché il diritto all’attribuzione di una somma per l’assistenza prestata al de cuius e non dovuta la cifra per l’uso del c/c comune, in subordine chiedendo di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale per la declaratoria di illegittimità costituzionale del diverso trattamento riservato al convivente con riferimento all’art. 3 Cost., la Corte di appello di Milano, nella resistenza degli appellati che proponevano anche appello incidentale circa il mancato accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da mancato guadagno e di rimborso della quota parte di spese di successione, rigettava entrambi i gravami.

A sostegno dell’adottata sentenza, la corte territoriale affermava di condividere l’interpretazione del testamento olografo offerta dal giudice di prime cure, stante il tenore letterale dello stesso, che per il principio generale in claris non fit interpretatio, non poteva dare luogo ad una diversa volontà del de cuius, anche in considerazione della cronologia degli eventi, tempo del testamento (2001) ed epoca dell’acquisto del nuovo immobile (2004).

Aggiungeva che era incomprensibile l’eccezione di incostituzionalità, ragione per la quale non era stata esaminata dal giudice di prime cure, e comunque anche a richiamare la giurisprudenza della corte delle leggi, sentenza n. 310/1989, questa pur riconoscendo dignità al rapporto more uxorio, aveva attribuito una superiore dignità alla famiglia legittima per i caratteri dì stabilità e certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri, nascenti solo dal matrimonio, con conseguente inapplicabilità dell’art. 1022 c.c. al convivente, rientrando nella discrezionalità del legislatore la determinazione delle categorie dei successibili, con il solo vincolo derivante dall’art. 30 Cost..

Confermava, altresì, la decisione del giudice di prime cure circa il rigetto dei mezzi di prova articolati dalla ricorrente (capi 8 e 9 della memoria 8.6.2007), nonché quanto alla qualifica di adempimento di obbligazione naturale posta a base del non accoglimento della richiesta di liquidazione di Euro 150.000,00, correttamente omesso l’esame del diritto di abitazione, in mancanza di una domanda in tal senso da parte della C. .

Infine, la corte di merito respingeva anche l’appello incidentale in assenza di prova di avere richiesto alla C. la restituzione dell’immobile in epoca anteriore all’introduzione del presente giudizio, tardivamente proposta la richiesta di rimborso pro quota delle spese di successione.

Avverso indicata sentenza della Corte di Appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione la C. , che risulta articolato in sei motivi (erroneamente dichiarati n. 7 motivi), al quale hanno resistito B.A. , CO.An. e CO.Sa. , R.D. e R.S.A. con controricorso.

La ricorrente ha presentato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 558 e 1362 c.c. non avendo i giudici di merito valutato la volontà effettivamente manifestata da B.L. nel testamento olografo in ordine al suo intento di assicurare alla propria convivente un usufrutto abitativo vitalizio in caso di premorienza, non essendo stata svolta alcuna indagine interpretativa in tal senso.

Con il secondo motivo viene denunciata la violazione o falsa applicazione dell’art. 12 delle preleggi, degli artt. 1362 – 1367 e 143 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 per omesso esame del testamento alla luce dei criteri sistematico o logico sistematico e storico e ciò avrebbe impedito di interpretare il testamento, univocamente inteso come contratto tipico e atipico, con analisi della effettiva volontà del de cuius, tant’è che la corte di merito si sarebbe limitata ad una interpretazione letterale.

Con il terzo motivo viene censurata la ulteriore violazione dell’art. 1362 c.c. e la omessa o insufficiente motivazione per non avere i giudici di merito effettuato “una più penetrante ricerca al di là della mera dichiarazione della volontà del testatore”.

I tre motivi, da esaminare congiuntamente per la sostanziale connessione degli argomenti e per esigenza di coordinata esposizione, denunziando la ricorrente la violazione delle norme in tema di accertamento della effettiva volontà del testatore, sono fondati.

Occorre evidenziare che in tema d’interpretazione dei contratti, regole prioritarie per la ricerca della comune intenzione delle parti siano l’utilizzazione dei criteri ermeneutici soggettivi (artt. 1362-1365 c.c.), anzi di ricorrere a quelli oggettivi sussidiari (artt. 1366-1370 C.C.) e di chiusura (art. 1371 C.C), e, nell’ambito dei primi, il desumere, anzitutto, la volontà negoziale dal tenore letterale delle espressioni utilizzate dalle parti per manifestarla (art. 1362, comma 1, c.c.), queste non possano, tuttavia, salvo ne risulti una manifestazione inequivoca a tal punto da essere incompatibile con qualsiasi altro significato, essere prese in considerazione singolarmente o, comunque, nel ristretto ambito di ciascuna clausola della quale costituiscono l’esternazione, sebbene debbano essere valutate e verificate in relazione tanto alle altre clausole quanto all’intero contesto della dichiarazione negoziale nella quale sono inserite, onde se ne possa intendere l’esatto significato (art. 1363 c.c.).

Invero, la soluzione di ogni controversia che s’incentri sull’interpretazione di un contratto, come l’accertamento di ogni situazione soggettiva che si affermi in ragione della vigenza di una regola convenzionale, non può prescindere dalla necessaria integrazione del dato testuale con quello logico-ricostruttivo, questa risultando legittimata, ed al contempo imposta, dall’espressa disciplina normativa del coordinato disposto desumibile dalle affermazioni dell’insufficienza del solo senso letterale delle parole del testo, di cui al primo comma dell’art. 1362 c.c., e dell’esigenza dell’esame comparativo delle singole clausole e complessivo dell’atto, di cui all’art. 1363 c.c.; per il che l’interpretazione non può limitarsi ad una considerazione atomistica delle singole espressioni o clausole, pur ove le une e le altre possano apparire rappresentative d’una manifestazione di volontà di senso compiuto, ma deve procedere secondo un iter che, partendo dall’accertamento del senso letterale di ciascuna, questo poi verifichi nel confronto reciproco ed, infine, razionalmente armonizzi nella valutazione unitaria dell’atto.

La predisposizione normativa del rapporto d’interdipendenza necessaria tra il primo comma dell’art. 1362 c.c. ed il successivo art. 1363 c.c. ai fini dell’accertamento della comune volontà delle parti quale desumibile dal testo contrattuale è stata, nel senso sopra indicato, ripetutamente evidenziata nelle pronunzie di questa Corte (e pluribus Cass. 27 giugno 1998 n. 6389; Cass. 28 giugno 2000 n. 8791) che ha, d’altronde, del pari più volte evidenziato come il nomen iuris dato al negozio dalle parti e le espressioni tecniche o pseudo tali utilizzate dalle stesse od anche dal rogante non vincolino l’interprete che ne ravvisi la incompatibilità con l’effettiva volontà risultante dalla disamina dell’atto compiuta mediante gli strumenti ermeneutici predisposti dal legislatore (Cass. 29 marzo 2004 n. 6233; Cass. 8 marzo 2007 n. 5287; Cass. 4 maggio 2011 n. 9755). Aggiungasi che, in particolare, l’interpretazione del testamento, cui in linea di principio sono applicabili le regole d’ermeneutica dettate dal codice in tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio mortis causa, è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da un più penetrante ricerca, al di là della dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell’art. 1362 c.c., va individuata con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria sulla base dell’esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione ed, in via sussidiaria, id est ove da! testo dell’atto non emergano con certezza l’effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, con il ricorso ad elementi estrinseci al testamento, se pur sempre riferibili al testatore, quali la personalità, la mentalità, la cultura, la condizione sociale, l’ambiente di vita, i rapporti pregressi con i soggetti menzionati nella scheda, ecc. (v. Cass. 5 maggio 2004 n. 8495; Cass. 7 luglio 2004 n. 12477; Cass. 22 luglio 2004 n. 13785; Cass. 22 ottobre 2004 n. 20604). Il giudice del merito, di conseguenza, nell’interpretazione del testamento, la quale si risolve in un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici, può attribuire alle espressioni adoperate nell’atto un significato diverso da quello tecnico o letterale, purché non contrastante o antitetico, quando, valutando la scheda nel suo complesso e tenendo conto dei sopra indicati elementi di giudizio propri alla persona del de cuius, tale diverso significato si presti ad esprimere in modo più adeguato e coerente la reale intenzione dello stesso.

Ebbene, nella specie, l’apprezzamento che ha condotto la Corte milanese in ordine alla natura della disposizione con la quale il de cuius ha effettuato attribuzioni alla convivente risulta affetto da evidenti vizi motivazionali.

Come condivisibilmente rilevato dalla ricorrente, la corte distrettuale – confermando la decisione del giudice di primo grado – non ha tenuto sufficientemente conto della circostanza, già evidenziata nel giudizio di appello, che il de cujus non avesse espressamente revocato la disposizione con la quale, con il testamento olografo del 4.10.2001, ha attribuito alla C. il diritto di abitazione relativamente all’appartamento nel quale convivevano al momento della disposizione, in (omissis) , e che la mancata revoca di detto riconoscimento in capo alla convivente è indicativa della sua volontà di garantire alla stessa, attraverso il diritto di abitazione dell’alloggio in cui vivevano, il godimento del bene in cui ella aveva sempre abitato sin dall’epoca dell’acquisto, con la intenzione inequivocabile che, alla morte di lei, il bene dovesse rientrare nella disponibilità degli eredi B. .

A fronte della evidenziata circostanza, nessun argomento significativo la Corte territoriale ha addotto a sostegno del proprio convincimento, tale non potendosi ritenere né il rilievo che la volontà del testatore essendo nel senso di costituire in favore della C. l’usufrutto vitalizio “sulla casa di mia proprietà in (omissis) “, in base al dato testuale, non vi fosse spazio per ritenere che avesse voluto costituirlo sul diverso immobile di (omissis) da lui acquistato dopo avere venduto la predetta casa; né l’altro, secondo il quale, tenuto conto della cronologia degli eventi, in particolare del fatto che la vendita e l’acquisto degli immobili fossero intervenuti nell’aprile 2004, due anni prima della morte, il testatore ben avrebbe potuto costituire un nuovo usufrutto vitalizio in favore della C. con atto tra vivi contestualmente o meno all’acquisto della villetta in (omissis) ovvero con un nuovo testamento (v. pagine 4 e 5 della decisione), elemento che non sarebbe valorizzabile per escludere la mancata revoca del testamento olografo.

A ciò deve aggiungersi che la Corte di merito nell’interpretazione del negozio mortis causa – giova ribadirlo, atto sempre revocabile e modificabile dall’autore – a fronte di una dichiarazione di volontà non eseguibile nei termini testuali, ha utilizzato il solo criterio letterale per accertare la volontà del testatore.

Di converso, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto valutare, alla luce della revocabilità dell’atto, gli effetti acquisitivi della disposizione testamentaria correlati a detto comportamento omissivo, e, cioè, pronunciarsi sul punto se il descritto comportamento del de cuius dovesse qualificarsi come confermativo del lascito in favore della detenzione del bene, per uso abitativo, da parte della convivente, come sostenuto dalla ricorrente ovvero come modifica di detta disposizione.

In altri termini, la motivazione dell’impugnata sentenza si rivela gravemente insufficiente rispetto all’esigenza interpretativa che il giudice d’appello era chiamato a soddisfare e che consisteva nell’accertare se in favore della ricorrente il testatore avesse voluto, con l’attribuzione a lei del diritto di abitazione dell’appartamento sito in (omissis) , attribuire detto diritto solo con riferimento all’appartamento ivi indicato, ovvero se il diritto attribuito alla C. consistesse nel diritto di usufrutto della loro abitazione comune in generale, la cui nuda proprietà era immediatamente assegnata agli eredi del B. . La verifica della ricorrenza della prima di dette ipotesi interpretative esigeva dall’interprete un’indagine condotta sull’intero contesto delle disposizioni dettate da B.L. sia in favore della C. sia degli eredi del de cuius, per verificare non solo la natura del diritto attribuito alla ricorrente, ma soprattutto se lo stesso diritto sul bene fosse stato conferito tout court agli eredi ovvero secondo un ordine successivo, per cui risulta evidente l’assoluta insufficienza di un’interpretazione, come quella data dalla Corte d’appello, che si affidi esclusivamente alla valorizzazione della locuzione “sulla casa di mia proprietà in (omissis) ” adoperata dal testatore con riferimento ad una delle disposizioni a favore della C. . La non univocità di tale espressione, con riferimento alle vicende successive (vendita di detto immobile ed acquisto, nell’immediato, della villetta in (omissis) ove il B. con la ricorrente aveva stabilito la nuova residenza) e rispetto all’esigenza interpretativa de qua, avrebbe richiesto un esame complessivo di tutte le espressioni usate dal testatore per verificare se detta locuzione, anziché segnare l’attribuzione di un diritto di abitazione con riguardo ad un determinato bene, valesse, insieme ad altre, a rimarcare il momento della operatività della disposizione a favore della C. con riferimento alla loro ultima abitazione. L’interpretazione della scheda – come già detto – va effettuata con una più penetrante ricerca, che al di là della dichiarazione, accerti la volontà del testatore, individuata, alla stregua dell’art. 1362 c.c., con riferimento ad elementi intrinseci alla stessa scheda testamentaria, sulla base dell’esame globale del testamento e non già di ciascuna singola disposizione, e, in via sussidiaria, ove cioè dal testo dell’atto non emerga con certezza l’effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, con il ricorso ad elementi estrinseci al testamento, ma pur sempre riferibili al testatore, quali ad esempio la personalità dello stesso, la sua mentalità, cultura, condizione sociale, ambiente di vita.

Viene, all’uopo, in rilievo proprio l’omessa revoca della disposizione da parte del testatore, che, specie se raffrontata con la esigenza di tutela di colei che era stata affettivamente al suo fianco negli ultimi venti anni, avrebbe potuto conferire all’indagine interpretativa una diversa prospettiva ed un diverso esito.

I tre motivi meritano, dunque, accoglimento.

Con il quarto motivo viene dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 2 D.P.R. 31.1.1958 n. 136, dell’art. 138 T.U. n. 645/1958, dell’art. 6 legge n. 365/1958, della legge n. 405/1975 per essersi fa corte di merito limitata a dichiarare che i predetti parametri legislativi si riferivano a specifiche materie, ingiustificate nella specie, mentre andava colta una chiara invasione nella famiglia di fatto e nel caso di convivenza more uxorio.

Insisteva, in ipotesi di non applicabilità degli istituti alla fattispecie in esame, nel sollevare eccezione di incostituzionalità per violazione degli artt. 2 e 3 Cost..

Con un quinto motivo (erroneamente definito sesto) viene denunciata la violazione dell’art. 1022 c.c. relativamente al diritto di abitazione, anche per insufficienza e contraddittorietà della motivazione, per non avere la corte di merito – qualificandola erroneamente come nuova – configurato nell’ipotesi in esame detta fattispecie.

L’esame delle predette censure resta assorbito dall’accoglimento dei primi tre motivi del ricorso, nei quali vengono affrontate questioni pregiudiziali alle ulteriori doglianze.

Con il sesto ed ultimo motivo (erroneamente definito settimo) la ricorrente denuncia la violazione del diritto alla retribuzione sancito dalla Costituzione e dal diritto del lavoro, anche per insufficiente motivazione, con riferimento al mancato riconoscimento del diritto della C. ad effettuare il prelievo di Euro 18.900,00 per affrontare le spese ordinarie della vita familiare. La censura viene riferita anche alla mancata ammissione della istruttoria per le somme dovute per l’assistenza per oltre venti anni.

Il motivo è infondato avendo fatto la sentenza impugnata corretta applicazione dei principi affermati da questa corte in materia di arricchimento senza causa. Infatti nel caso in cui venga lamentato l’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro, sono state ritenute indennizzabili le sole prestazioni che esulino dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza (v. da ultimo, Cass. 15 maggio 2009 n. 11330).

In conclusione, vanno accolti i primi tre motivi di ricorso, assorbiti il quarto ed il quinto, rigettato il sesto.

Conseguentemente, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, la quale, nel riesaminare il punto della controversia relativo alle censure accolte, si atterrà ai principi ed ai rilievi sopra enunciati ed esposti. Il giudice di rinvio provvedere anche in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

La Corte, accoglie il primo, il secondo ed il terzo motivo di ricorso, assorbiti il quarto ed il quinto, rigettato il sesto;

cassa la sentenza impugnata per quanto in motivazione e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Milano, anche per la liquidazione delle spese di questo grado di giudizio.

 

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