È opponibile la simulazione al terzo che beneficia in buona fede di un legato? Cassazione, sez. VI, 9 gennaio 2012, n. 26

È OPPONIBILE LA SIMULAZIONE AL TERZO CHE BENEFICIA IN BUONA FEDE DI UN LEGATO?

Cassazione, sez. VI, 9 gennaio 2012, n. 26

(Pres. Felicetti – Rel. Giusti)

 

 

Fatto e diritto

Ritenuto che il consigliere designato ha depositato, in data 22 giugno 2011, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ.: “G..C. convenne davanti al Tribunale di Roma G..P., legatario di alcuni immobili nel testamento di suo marito, E..T., deceduto il (omissis), sostenendo la simulazione assoluta dell’atto in notar Santagata del 13 giugno 1977, con cui essa stessa e il marito avevano conferito alla comunione dei coniugi tutti i beni mobili ed immobili da loro acquistati congiuntamente e separatamente, e quindi chiedendo, previa declaratoria della reale natura di tale atto e, di conseguenza, della sua titolarità esclusiva degli immobili simulatamente conferiti, la revoca della disposizione testamentaria favorevole al P. .

Il convenuto si costituì, resistendo. Il Tribunale rigettò la domanda.

La pronuncia è stata confermata dalla Corte d’appello di Roma che, con sentenza depositata il 13 aprile 2010, ha rigettato il gravame della C..

La Corte territoriale – facendo applicazione dell’art. 1415 cod. civ., con conseguente inopponibilità della simulazione del terzo (tale essendo il legatario beneficiato della titolarità di beni che si assumono simulatamente acquistati dal testatore) purchè in lui ricorra il requisito soggettivo della buona fede – ha rilevato che nel caso in esame non solo manca qualsiasi prova della mala fede del P., e quindi della sua conoscenza della simulazione dell’atto di conferimento, ma non emergono neppure elementi indiziari o presuntivi comunque rivelatori di tale consapevolezza. La Corte d’appello ha pertanto concluso nel senso “della qualificazione del P. quale terzo di buona fede, al quale, pertanto, non è opponibile la simulazione: mentre l’accertamento della effettiva sussistenza di questa, in quanto oggetto di una domanda strumentale rispetto a quella di revoca o annullamento delle disposizioni testamentarie favorevoli al P., appare a questo punto ultroneo, ed esonera dal relativo esame.”

Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la C. ha proposto ricorso, con atto notificato l’8 ottobre 2010, sulla base di due motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso.

Il primo motivo denuncia vizio di insufficiente, illogica e giuridicamente errata motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamentando che la Corte d’appello abbia escluso l’avvenuta dimostrazione, da parte dell’appellante C., della mala fede dell’appellato P..

Il motivo è privo di fondamento.

La Corte d’appello è giunta all’indicata soluzione sottolineando:

che non rileva, neppure come elemento indiziario, la circostanza della convivenza dell’appellato con la famiglia T., alla quale non accede, come corollario, la partecipazione del P., peraltro ragazzo all’epoca del conferimento, ad ogni evento riguardante la famiglia ospitante; che non è idonea a indurre nell’appellato anche il solo sospetto della natura simulata dell’atto di conferimento la circostanza secondo cui la C. aveva mantenuto la gestione diretta degli immobili apparentemente conferiti in comunione, dato che questa si configura come una prassi gestionale tipica di molti nuclei familiari;

che l’interrogatorio dell’appellato non ha sortito l’effetto sperato dall’appellante; che la prova testimoniale articolata è inammissibile, perché il tenore della formulazione dei capitoli di prova impone al teste la valutazione di una circostanza, la consapevolezza della natura simulata dell’atto, che invece dovrebbe essere desunta dal giudice da dati ed elementi di fatto, dei quali soltanto il testimone può riferire.

La decisione della Corte d’appello è sorretta da una motivazione adeguata e congrua, privi di vizi logici e giuridici. La sentenza impugnata, anche là dove ha e-scluso l’ammissibilità della prova testimoniale, si sottrae pertanto alle critiche di cui è stata oggetto. Tali critiche – oltre a risolversi nella prospettazione di una diversa valutazione del merito della causa e nella pretesa di contrastare apprezzamenti di fatti e di risultanze probatorie che sono inalienabile prerogativa del giudice del merito – non tengono conto del fatto che il sindacato di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. è limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esaustiva motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nella sentenza impugnata. Spetta, infatti, solo al giudice del merito individuare la fonte del proprio convincimento e valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dar prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. Né per ottemperare all’obbligo della motivazione il giudice è tenuto a prendere in esame tutte le risultanze istruttorie e a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che egli indichi gli elementi sui quali si fonda il suo convincimento e dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e fatti che, sebbene non specificamente menzionati, siano incompatibili con la motivazione (Cass., Sez. lav., 23 dicembre 2009, n. 27162). Inoltre, secondo il costante insegnamento di questa Corte (Cass., Sez. Un., 21 dicembre 2009, n. 26825), si ha carenza di motivazione, nella sua duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, soltanto quando il giudice di merito omette di indicare nella sentenza gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza però un’approfondita disamina logica e giuridica, ma non anche nel caso di valutazione delle circostanze probatorie in senso difforme da quello preteso dalla parte. Pa-rimenti, si ha motivazione insufficiente nell’ipotesi di obiettiva deficienza del criterio logico che ha indotto il giudice del merito alla formulazione del proprio convincimento ovvero di mancanza di criteri idonei a sorreggere e ad individuare con chiarezza la ratio decidendi, ma non anche quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati (Cass., Sez. lav., 2 febbraio 1996, n. 914).

Il secondo motivo denuncia violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.), per non avere la Corte accertato l’intervenuta simulazione.

Il motivo è infondato. Non è configurabile il vizio di omessa pronuncia, perché la Corte d’appello – avendo escluso la condizione soggettiva di mala fede del terzo acquirente, ai sensi dell’art. 1415 cod. civ. – ha ritenuto logicamente assorbito l’esame della dedotta simulazione.

In conclusione, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 cod. proc. civ., per esservi rigettato”.

Letta la memoria di parte ricorrente.

Considerato che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra;

che i rilievi critici contenuti nella memoria illustrativa non colgono nel segno;

che infatti, il primo motivo si limita, nella sostanza, a censurare la motivata valutazione dei giudici di merito, che hanno escluso di poter ricavare dalla convivenza del P.      la di lui conoscenza della simulazione dell’atto di conferimento, e tende a mettere in discussione l’argomentato apprezzamento circa l’inidoneità delle circostanze dedotte a porsi come indizi gravi, precisi e concordanti di detta conoscenza, cosi sollecitando, contra legem e cercando di superare i limiti del giudizio di cassazione, un nuovo giudizio di merito su quelle stesse circostanze;

che inoltre, il denunciato errore della Corte d’appello nel non avere ammesso i capitoli di prova dedotti con l’atto di appello ed indicati a pag. 14 e 15 del ricorso, non appare decisivo, perché le circostanze su cui i testi avrebbero dovuto deporre (il fatto che il P. sapesse: che l’atto di conferimento dei beni in comunione era stato posto in essere solo per motivi fiscali, oltre che per far apparire il T. più capace patrimonialmente; che la C. continuava a comportarsi come unica ed esclusiva proprietaria; che i canoni di locazione affluivano su un contro corrente non cointestato al marito) non sono univoci nel senso di dimostrare la conoscenza da parte del P. della natura simulata dell’atto di conferimento dei beni alla comunione legale;

che quanto al secondo motivo, a ragione il giudice di merito ha ritenuto che l’esclusione della consapevolezza in capo al terzo rendeva ultroneo l’esame della dedotta simulazione dell’atto di conferimento;

che pertanto, il ricorso deve essere rigettato;

che le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali sostenute dal controricorrente, che liquida in complessivi Euro 4.200, di cui Euro 4.000 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

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