Ci sono dei limiti al potere del giudice di accertare d’ufficio la nullità del contratto? Cassazione, sez. II, 10 maggio 2012, n. 7173

 

CI SONO DEI LIMITI AL POTERE DEL GIUDICE DI ACCERTARE D’UFFICIO LA NULLITÀ DEL CONTRATTO?

Cassazione, sez. II, 10 maggio 2012, n. 7173

 

Le Sezioni Unite (Cass. 21095/04) hanno infatti stabilito che il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità o l’inesistenza di un contratto ex art. 1421, cod. civ., va coordinato con il principio della domanda (artt. 99 e 112, cod. proc. civ.).

Nella specie se il rilievo era meramente strumentale, cioè funzionale alla domanda di revoca per ingratitudine delle donazioni, si è visto che era irrilevante, giacché avrebbe condotto comunque al rigetto (sia pure per altro motivo, cioè per inammissibilità della revoca per ingratitudine di una donazione nulla) di questa domanda, come ineccepibilmente osservato dalla sentenza impugnata.

Se invece si dovesse o volesse considerare la questione di nullità per difetto di forma ex art. 782 c.c., sollevata in conclusioni di appello e assente in primo grado, quale domanda in via autonoma di declaratoria di nullità del contratto di donazione, la Corte di appello bene avrebbe fatto a dichiararla inammissibile, perché introdotta in violazione delle regole (art. 345 c.p.c.) sulle preclusioni della domanda nuova nel rito civile di appello. Il potere di rilevare d’ufficio la nullità contrattuale sussiste infatti solo nel caso in cui sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione del contratto (S.U. 21095/04), la cui validità rappresenta quindi un elemento costitutivo della domanda. Tale potere non vale però a consentire il superamento del divieto di domanda nuova in appello: quando sia fatta valere in via principale ed autonoma, la domanda di nullità del contratto va ritualmente introdotta, il che nella specie non è avvenuto.

 

 

Cassazione, sez. II, 10 maggio 2012, n. 7173

(Pres. Schettino – Rel. D’Ascola)

 

Svolgimento del processo

Con sentenza 5 febbraio 2001, il tribunale di Milano respingeva la domanda proposta nel 1997 da L..G. nei confronti del proprio figlio unico F. , con la quale era stata chiesta la revoca per ingratitudine delle donazioni di partecipazioni societarie fatte al convenuto sotto forma di cessioni di quota, vendita, aumenti di capitale.

Rilevava che trattavasi di donazioni di natura remuneratoria. Il gravame proposto dall’attore veniva respinto il 15 febbraio 2005 dalla Corte d’appello di Milano, la quale rilevava:

a) che la nullità delle donazioni ex art. 782 c.c. era stata tardivamente eccepita in sede di conclusioni del giudizio di appello.

b) che le donazioni erano remuneratorie perché integrative del compenso versato al convenuto in relazione all’attività svolta nella s.a.s. di famiglia;

c) che non sussisteva comportamento ingiurioso, considerati i tesi rapporti tra le parti e la condotta del padre, che aveva rifiutato di comunicare al figlio, fino a costringerlo all’azione giudiziaria, i dati indispensabili per le denunce fiscali. L..G. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 7 aprile 2006, articolato su cinque motivi. Il convenuto ha resistito con controricorso. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

2) Le prime tre censure attengono a vizi di motivazione. Con il primo motivo il ricorrente critica la tesi della natura remuneratoria delle donazioni di quote del capitale sociale della Elettromeccanica Galli s.a.s. e della Immobiliare Cinque Ottobre srl. Sostiene che il tribunale avrebbe dovuto verificare se erano state fatte con intento donativo o retributivo, verifica che sarebbe stata omessa. Evidenzia le differenze con la liberalità i d’uso e afferma che nella specie non si tratterebbe di liberalità d’uso, ma di donazione semplice, perché non sarebbe stato chiarito di qual tipo di donazione remuneratoria si tratti se per speciale remunerazione, per riconoscenza o per meriti.

Con il secondo motivo parte ricorrente rileva che controparte ha sostenuto trattarsi di liberalità d’uso non soggetta all’art. 805 c.c., in tema di esclusione della revocazione per ingratitudine. Sostiene che non c’è ipotesi di liberalità d’uso e che i giudici di merito hanno errato sia nell’omettere di indicare il tipo di donazione remuneratoria, sia il motivo remuneratorio per ciascuno dei singoli otto atti di donazione.

Con il terzo motivo sono denunciati vizi di motivazione in ordine alla natura dell’apporto prestato dal donatario all’azienda di famiglia e in particolare sul fatto che il compenso di 8 milioni di lire lordi mensili erogatogli sia stato ritenuto “non esaustivo” dei compensi. Parte ricorrente evidenzia tra l’altro che il convenuto è stato retribuito; che non può aver sempre avuto ruolo dirigenziale dal 1981 al 1994; che aveva ricevuto donazioni già nel 1975 – 1977 e poi nel marzo 1981 e del 1982 e 1985. Non vi sarebbe quindi correlazione tra attività prestata e singoli atti.

L’esame dei tre motivi – nonché del quinto, relativo alla natura degli atti di donazione – risulta irrilevante in relazione alla preliminare circostanza che la sentenza si regge su doppia ratio decidendi, ciascuna di per se1 sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso.

2.1) Oltre a ribadire la natura remuneratoria delle donazioni, la Corte di appello si è infatti preoccupata di escludere in ogni caso la sussistenza dei presupposti della loro revocabilità per ingratitudine.

Orbene, poiché detta ratio non è stata attaccata con specifica censura, i quattro motivi indicati risultano inammissibili.

3) Conviene esaminare separatamente il quarto motivo, che denuncia nullità delle donazioni per mancanza dei requisiti di forma ai sensi dell’art. 782 c.c., a norma del quale la donazione deve essere fatta per atto pubblico, sotto pena di nullità.

La Corte di appello ha escluso l’ammissibilità della questione sollevata, evidenziando la novità di una siffatta domanda (così deve essere qualificata la richiesta “declaratoria di nullità”), in quanto introdotta solo nella fase finale del giudizio di appello.

Ha rimarcato che trattasi di inammissibile alterazione dell’oggetto iniziale dell’azione e ha fatto rilevare che l’accoglimento del rilievo di nullità porterebbe comunque al rigetto della domanda originaria (e dell’appello), che mirano alla revoca delle donazioni e che ne presuppongono quindi la validità.

3.1) Invano parte ricorrente sostiene che la nullità può esser fatta valere anche d’ufficio dal giudice.

Il rilievo non coglie nel segno. Le Sezioni Unite (Cass. 21095/04) hanno infatti stabilito che il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità o l’inesistenza di un contratto ex art. 1421, cod. civ., va coordinato con il principio della domanda (artt. 99 e 112, cod. proc. civ.).

Nella specie se il rilievo era meramente strumentale, cioè funzionale alla domanda di revoca per ingratitudine delle donazioni, si è visto che era irrilevante, giacché avrebbe condotto comunque al rigetto (sia pure per altro motivo, cioè per inammissibilità della revoca per ingratitudine di una donazione nulla) di questa domanda, come ineccepibilmente osservato dalla sentenza impugnata.

Se invece si dovesse o volesse considerare la questione di nullità per difetto di forma ex art. 782 c.c., sollevata in conclusioni di appello e assente in primo grado, quale domanda in via autonoma di declaratoria di nullità del contratto di donazione, la Corte di appello bene avrebbe fatto a dichiararla inammissibile, perché introdotta in violazione delle regole (art. 345 c.p.c.) sulle preclusioni della domanda nuova nel rito civile di appello. Il potere di rilevare d’ufficio la nullità contrattuale sussiste infatti solo nel caso in cui sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione del contratto (S.U. 21095/04), la cui validità rappresenta quindi un elemento costitutivo della domanda. Tale potere non vale però a consentire il superamento del divieto di domanda nuova in appello: quando sia fatta valere in via principale ed autonoma, la domanda di nullità del contratto va ritualmente introdotta, il che nella specie non è avvenuto.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite liquidate in Euro 5.000 per onorari, 200 per esborsi, oltre accessori di legge.

 

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