Come cambiano il tirocinio e l’accesso alla professione ( Avv. D. M.Caruso)

 

COME CAMBIANO IL TIROCINIO E L’ACCESSO ALLA PROFESSIONE

Avv. Denise Maria Caruso

 

 

Sebbene l’attesa sia finita e la riforma forense sia, ormai, legge dello Stato – grazie alla approvazione di un testo che, a distanza di ottant’anni, rifonda, profondamente, criteri di accesso, svolgimento ed irrogazione di sanzioni per il mondo dell’Avvocatura in Italia, dopo un iter lungo tutta la legislatura e che si direziona “in controtendenza con l’orientamento degli ultimi anni che appariva, invece, finalizzato a regolare tutte le professioni ordinistiche tramite una legge quadro e regolamenti di dettaglio” (cfr. Avv. Antonino Ciavola, Altalex, “Nuova Legge Forense: un primo approfondimento”, articolo del 19.01.2013) – sembra che, a farne le spese, siano, ancora una volta, i giovani, con l’istituzionalizzazione (cfr. art.41), tanto per esemplificare, del praticantato gratuito nei primi sei mesi e la possibilità facoltativa, da parte del datore di lavoro, di elargire un compenso a partire dalla settima mensilità. Una misura molto contestata, oggetto, anche, della pregiudiziale di costituzionalità, avanzata da alcuni parlamentari, che hanno, già, annunciato i ricorsi alla Consulta.

Sembra, infatti, che la Riforma faccia un passo indietro rispetto alla precedente legge sulle liberalizzazioni (cfr. L.27/2012) la quale sanciva, testualmente, che “al tirocinante, è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi 6 mesi di tirocinio”, individuando un dovere ben preciso da parte degli studi legali.

I Colleghi non me ne vogliano per il tono di latente polemica che permea la relazione, da me curata, posto che l’oggetto verte, inevitabilmente, sulla attività svolta da noi giovani, toccando, con mano, sia chi si appropinqua a svolgere la pratica, sia chi, invece, si affaccia, da poco, alla professione forense, tra mille difficoltà, dopo una vita di studi e sacrifici.

E’ chiaro che i principali deficitari, in questa situazione di perenne transitorietà, siano stati i giovani aspiranti alla carriera forense che, col passare degli anni, hanno visto ridursi, progressivamente, gli spazi d’ingresso all’universo degli avvocati, parallelamente al dilatarsi dei tempi di tirocinio e praticantato.

Considerato, preliminarmente, che le norme regolanti tale materia non presentano immediata applicazione, salvo quella avente ad oggetto la riduzione del tirocinio da 24 a 18 mesi – divenendo operanti dal III anno successivo all’entrata in vigore della riforma e necessitando di specifico regolamento d’attuazione – la premessa che, opportunamente, ritengo di fare, poggia le sue radici nel dato di fatto che, indubbiamente, si affacciano alla professione giovani che, per lo più, sono, ormai, lungi dall’essere preparati per affrontare il percorso professionale.

La “colpa” (se così può definirsi) è, in primis, riconducibile al sistema scolastico, sin dai suoi albori, dato che, in questi ultimi decenni, le istituzioni sembrano averlo distrutto, fatto a pezzi.

Altra parte di “colpa” sarebbe ascrivibile, altresì, alle università che non risolvono la problematica del numero spropositato di iscritti, provvedendo ad una seria selezione dei meritevoli.

Così come appare, analogamente, indiscutibile che, in assenza di altri particolari sbocchi, i laureati in legge, che si trovano a bussare alla porta della professione forense, siano sempre di più (purtroppo, non molti sono quelli mossi da specifiche vocazioni).

Il problema della selezione successiva è, allora, sicuramente, serio, ed è opportuno – oltreché, fondamentale – che l’Avvocatura se ne faccia carico, essendo vano attendersi che, da un giorno all’altro, l’università divenga selettiva, come lo era nel passato.

Sennonché, con questa “riforma”, non sembra innovarsi alcunché, semmai inasprirsi, soltanto, il vecchio modello, a totale detrimento e di svariati valenti giovani che, con significativi sacrifici, seriamente, si dedicano (rectius, vorrebbero dedicarsi) alla pratica – salvo poi trovarsi dinnanzi all’ingiusta tagliola che discende da esami scritti altamente aleatori, spesso privi di aderenza con la pratica forense – ; e per quegli studi legali che investono sulla formazione qualificata dei praticanti (dunque portandoli ad essere delle preziose risorse) ed, ogni anno, si trovano con gli stessi, paralizzati e traumatizzati, per mesi, dagli esami (tra scritti ed orali).

Non si è, in alcun modo, compreso – né da parte del Legislatore né di coloro che ci hanno rappresentato – che la prima selezione dovrebbe giocarsi sulle reali possibilità dell’avvocatura di garantire un qualche futuro economico ai giovani. La professione forense dovrebbe permettere l’accesso di nuovi colleghi nella misura in cui può sostenerli economicamente, cioè dar loro da sopravvivere. Contrariamente, non si fa altro che preservare un accesso alla professione economicamente insostenibile (anche ai fini, poi, previdenziali).

Eppure, la soluzione, sarebbe molto semplice, a mio modo di vedere. Sarebbe ben più opportuno, ad esempio:

* imporre, agli avvocati, dei trattamenti economici minimi da garantirsi ai praticanti e, dipoi, ai giovani avvocati (per questi ultimi, almeno per un certo numero di anni dopo l’esame, ciò nell’ipotesi di impiego “full time”, da parte dello studio, ferma restando la possibilità di combinazioni tra fisso e percentuali sulle pratiche);

* stabilire un obbligo di frequentazione di corsi di approfondimento (sostenuti, economicamente, dal CNF e dai Consigli dell’Ordine);

* far riferimento ad un esame orale, centrato sulla conoscenza delle norme deontologiche e sull’esperienza maturata nel corso della pratica, senza trasformare l’accesso alla professione in un disumano concentrato di esami universitari, prettamente nozionistico ed astratto, scarsamente aderente alla vita lavorativa pratica.

Nella realtà, invece, se l’aspirante avvocato riesce a conquistarsi il “contratto”, ecco che potrà proseguire nel suo percorso; altrimenti, sarà bene che si indirizzi altrove, senza trovarsi ad illudersi ed a investire in una professione sempre più povera. Il fatto è che tutta una pletora di avvocati, sfruttando i giovani e, così, svolgendo, peraltro, concorrenza sleale (rispetto a quegli studi che, invece, li pagano), avviano, all’Avvocatura, una serie di aspiranti legali che la professione, semplicemente, non può permettersi.

La “riforma” si muove, dunque, in una direzione, diametralmente, opposta a quella auspicata, ancora una volta permettendosi lo sfruttamento dei giovani e creandosi tutti i presupposti per nuovi avvocati destinati ad una vita di stenti.

Non solo: si opta, con piena consapevolezza, per sottoporre i praticanti ad un esame palesemente vessatorio, inutilmente distruttivo, ai limiti della disumanità, tra l’altro, riducendosi il praticantato vero (quello svolto presso gli studi legali) ad un mero orpello (da circoscriversi, il più possibile, perché, altrimenti, mancherebbe il tempo per studiare per il terribile esame).

                     – Esame di Stato

* Art. 41, “Contenuti e modalità di svolgimento del tirocinio”

Correttamente, al co.1, si conferma che “Il tirocinio – non più definito pratica forense – professionale consiste nell’addestramento, a contenuto teorico e pratico, del praticante avvocato finalizzato a fargli conseguire le capacità necessarie per l’esercizio della professione di avvocato e per la gestione di uno studio legale nonché a fargli apprendere e rispettare i princìpi etici e le regole deontologiche”.

Il tirocinio, qualora correttamente svolto, è di fondamentale importanza: si diviene avvocati con la pratica, non già, solo, con le nozioni. Questo, un dato d’esperienza. Alcuni commentatori della riforma dichiarano, addirittura, una certa qual nostalgia per l’epoca in cui, prima di potersi fregiare del titolo di avvocato, vi era la qualifica intermedia (post esame) del “procuratore legale”, posto che, in realtà, occorre molto tempo affinché, al titolo di avvocato, possa farsi corrispondere una certa qual sostanza tale da giustificare l’impiego del titolo verso la clientela.

Sennonché, la norma va, chiaramente, nella direzione opposta:

              si riduce la durata del tirocinio a diciotto mesi. Il primo semestre può iniziare già durante l’ultimo anno del corso di laurea (cfr. art.40 che prescrive, sul tema, specifici accordi tra università e ordini forensi nonchè tra CNF e facoltà di giurisprudenza, volti all’introduzione di percorsi formativi per i tirocinanti);

              si prevedono forme alternative di tirocinio, al di fuori degli studi legali, potendo divenire avvocati soggetti che hanno frequentato uno studio per soli sei mesi (“In ogni caso il tirocinio deve essere svolto per almeno sei mesi presso un avvocato iscritto all’ordine o presso l’Avvocatura dello Stato”);

              tra queste forme alternative si ha anche “il diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali, di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, e successive modificazioni”; frequentazione valutata, ai fini del compimento del tirocinio per l’accesso alla professione di avvocato, per il periodo di un anno (!); verrebbe, quasi, da osservare come si voglia, così, prorogare, per un ulteriore anno, un modello, finora dimostratosi poco vincente, dell’attuale insegnamento universitario.

              Si prevede la possibilità di svolgere tirocinio presso due avvocati, contemporaneamente (anche se resta un mistero la platea di coloro disposti a spendersi su due fronti, con un carico orario e di lavoro più che oneroso ed con un corrispettivo economico nullo sancito ex lege) così come la possibilità di svolgere un periodo di praticantato all’estero con previsto limite temporale di soli sei mesi.

              L’autonomia del praticante, prevista ed attuata fino ad oggi, mediante il patrocinio provvisorio, è soppressa: il comma 12 la rimpiazza con una sostituzione delegata, decorso un anno dalla iscrizione nel registro dei praticanti, escludendo che il tirocinante possa assumere incarichi, in proprio, anche per le cause di minor valore.

              Infine, l’attività di tirocinio consisterà, anche, nella frequenza di un corso di formazione della durata di 18 mesi: le scuole forensi diventano, dunque, così, obbligatorie.

Sia chiaro: per questa via, si finirà per consegnare il titolo di avvocato a soggetti che non hanno la più pallida idea di come funzioni uno studio legale, dei rischi, dei costi e delle prospettive reali di questo mestiere, di come si gestisca il rapporto (sempre più complesso) con i clienti (vedansi, al riguardo, le problematiche connesse alla corresponsione degli onorari, alla responsabilità professionale, alla assicurazione obbligatoria, al dovere di informativa e di preventivo, alla eccessiva facilità, da ultimo, con la quale, oggi, gli avvocati vengono assoggettati ad esposti e denunce).

Inoltre, si conduce, a tal guisa, una massa di giovani laureati in giurisprudenza ad investire su una professione che non conoscono, relativamente a tutti i suoi lati positivi e, soprattutto, negativi.

La “riforma” conferma, poi, la precedente legittimità dello sfruttamento economico dei giovani (cfr. co.11):

*Art. 41, co.11, “Il tirocinio professionale non determina, di diritto, l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato anche occasionale”

L’ennesimo privilegio corporativo è, quindi, ribadito a chiare lettere; persiste, pertanto, l’anomalia, tutta italiana, di una classe di autentici lavoratori (peraltro qualificati) – i praticanti – ai quali può negarsi, legittimamente, un qualsiasi trattamento economico, assicurativo e pensionistico (si disconoscono, tra l’altro, i praticanti senza patrocinio), tralasciandosi le considerazioni che ben si potrebbero svolgere, in termini generali, sul piano economico e sociale (in sintesi, si ha un’ampia categoria di persone che cominciano a contribuire al welfare intorno ai trenta anni, se non oltre, e che gravano sulle famiglie e, dunque, sulla capacità di risparmio/acquisto delle stesse); a questi lavoratori, non è garantito il rispetto dei ben noti diritti costituzionali di cui agli artt. 36, 37 e 38 Cost.; orbene, è, piuttosto, singolare che la classe forense – distintasi nello sviluppo della tutela dei lavoratori sotto tutti i profili, e che declama, ai quattro venti, la nobiltà del suo ruolo e invoca concetti quali dignità degli individui e promozione dei diritti – al contempo, nulla faccia, in concreto, per regolarizzare il trattamento economico (e non solo) dei praticanti e per costruire un sistema di criteri minimi contrattuali per la gestione dei rapporti di quest’ultimi con gli studi legali, nonostante modelli da prendere a riferimento ve ne sarebbero pure (cfr. ad esempio, in Inghilterra, esistono contratti-tipo e retribuzioni minime per gli aspiranti legali proseguendo, il medesimo, articolo, al suo co.11:

* Art. 41, co.11, “Negli studi legali privati, al praticante avvocato, è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio”

Ecco. Grave è che si debba affermare un principio di questo genere: Sembra che, approfittando dell’ambiguità del decreto liberalizzazioni, la riforma forense riconosca, sì, l’obbligo di rimborsare le spese ai praticanti. Ma, al tempo stesso, coglie l’occasione per eliminare qualsiasi possibile dovere, da parte degli studi legali, di pagare i tirocinanti in rapporto all’attività svolta.

Viene, allora, da domandarsi, dato che l’attribuzione del rimborso cessi al termine del periodo di pratica, che sorte avrebbero quei giovani che attendono di sottoporsi all’esame di avvocato oppure che l’hanno superato, ma continuano a frequentare lo studio e a lavorare, a tempo pieno, per il loro dominus, i quali rimarrebbero, dunque, completamente, scoperti.

E, proseguendo, ancora,

* Art. 41, co.11, “decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato”

Appare, qui, lampante la totale malafede del Legislatore e dei “fan” della cosiddetta “riforma”: “possono” (!!!), non già “devono”, essere riconosciute delle indennità; il che significa che gli “avvocati-sfruttatori-di giovani praticanti” potranno proseguire ad arricchirsi sul lavoro altrui, così avviando alla professione un numero di aspiranti colleghi che il mercato forense non può, in realtà, sostenere e, pure, falsando la concorrenza tra gli studi legali.

Insomma, si conferma come, in Italia, siano sempre avvantaggiati i comportamenti disonesti e, moralmente, inaccettabili. Non solo. Anche uffici legali degli enti pubblici, gli uffici giudiziari e l’Avvocatura dello Stato, riconoscono, per legge, al praticante avvocato, un rimborso per l’attività svolta… ma, attenzione, solo ove previsto dai rispettivi ordinamenti e nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente. Ne consegue che, se non vi sono i fondi o se l’ente stesso stabilisce che i praticanti non vadano pagati, i giovani aspiranti avvocati si ritroveranno, ancora una volta, a lavorare gratuitamente, anche per un anno.

 

* Altra problematica risulta essere connessa alla circostanza che la legge in esame consenta, espressamente, ai praticanti, di sbarcare il lunario svolgendo, contestualmente al tirocinio, ex art.41, co.4, anche“un’attività di lavoro subordinato pubblico o privato, purchè con modalità e orari idonei a consentire l’effettivo e puntuale svolgimento e in assenza di specifiche ragioni di conflitto di interessi”

La superiore previsione solleva, difatti, non poche perplessità, posto che sembra inattuabile che l’esercizio contestuale delle due attività possa non riscontrare innumerevoli questioni di ordine pratico e logistico, così come difficile appare la possibilità di vedersi garantito il perseguimento di risultati soddisfacenti, ciò con riguardo ad entrambi le direzioni, contemporaneamente, perseguite.

Sarebbe stato, ben più opportuno, disporre – o optare – una scelta improntata sull’esclusività della professione lavorativa: ovvero, scegliere tra lo svolgere, pienamente, un’attività di lavoro subordinato pubblico o privato, e l’esercitare la professione forense.

Bisogna, tuttavia, affermare che una siffatta – auspicabile – scelta risulta, allo stato attuale, di difficile adozione, posto che, la seconda opzione potrebbe essere, oggi, preferita solo da chi permetterselo può, in quanto sostenuto, economicamente, dalla famiglia; nel caso contrario, appare appetibile lo svolgimento di un lavoro extra che consenta di sopravvivere ogni mese!

Detta disposizione, in sostanza, non mira alla realizzazione di una adeguata formazione del giovane praticante; sembra, semmai, contenere un implicito, ma consapevole, riconoscimento del fatto che non v’è intenzione di garantire ai giovani un compenso proporzionale all’attività svolta; pertanto, invece di sbloccare questo farraginoso, decadente e penalizzante sistema, non si fa altro che mascherare di opportunità quella che è, nei fatti, una mera, palese, forzata e triste necessità (di fatto, sottraendo tempi e risorse alla pratica effettiva). 

Alla luce di quanto detto, sul punto, una considerazione resta ineludibile: il periodo di pratica negli studi resta indispensabile per colmare il deficit formativo delle università. Il problema, però, è che, spesso, il tirocinio si trasforma in un periodo di manovalanza e, non tutti gli studi, offrono un compenso ai giovani, in termini economici o di competenze. Ai miei occhi, dunque, la riforma rappresenta un’occasione mancata per offrire maggior tutela, non solo ai praticanti, ma, anche, ai giovani che hanno completato il tirocinio e che non hanno un proprio studio e lavorano come collaboratori. Questa categoria vive in un vero e proprio limbo dantesco, in una “terra di nessuno”, priva di qualsiasi garanzia: non sono pochi i casi di avvocati 35enni o 40enni licenziati dalla sera alla mattina, senza alcun paracadute, Tfr o ammortizzatore sociale. Eppure, anch’essi sono lavoratori, sono dei professionisti.

Non può, infine, non rilevare la delineata e sempre crescente discrasia tra la mancanza di una tutela sostanziale, da un lato, e i doveri, comunque, incombenti sugli avvocati, dall’altro (cfr. il richiamato rispetto delle norme deontologiche e la soggezione al potere disciplinare del C.O.A. di appartenenza): tenendo presente che i praticanti sono tenuti alla osservanza degli stessi doveri degli avvocati (cfr. art.42, immediatamente applicabile).

* Art. 43, “Corsi di formazione per l’accesso alla professione di avvocato”

“Il tirocinio, oltre che nella pratica svolta presso uno studio professionale, consiste altresì nella frequenza obbligatoria e con profitto, per un periodo non inferiore a diciotto mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale tenuti da ordini e associazioni forensi, nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge” (con previsione di verifiche intermedie e finale del profitto).

La previsione di tale obbligo formativo è, sicuramente, condivisibile. Le scuole forensi, in conseguenza di suddetta previsione, diventano, dunque, obbligatorie.

Innegabile il ritenersi opportuna e proficua la partecipazione a corsi di formazione specificamente volti ad offrire una sostanziale preparazione ai fini dell’esame di Stato, ma non solo: anche ad affrontare le problematiche che si riscontrano nell’abito della quotidiana vita lavorativa.

Corsi tenuti, come, del resto, dal nostro Ordine, con uno spaccato, volutamente, pratico, delle argomentazioni teoriche, non possono che arricchire e conferire spessore al tirocinio.

Anzi, si auspica l’apporto di una regolamentazione specifica e programmatica in tutti gli Ordini Forensi d’Italia.

Da questo punto di vista, il Foro di Catania sembra avere assunto una veste, del tutto, all’avanguardia, cogliendo, precorritore di tempi, le esigenze di preparazione nonchè lavorative di tanti giovani che si affacciano alla professione e che mostrano un profondo bisogno di essere accompagnati, per mano, in un cammino che li rafforzi professionalmente e li prepari, seriamente, all’esercizio della professione forense. Noi, del resto, ne siamo diretti testimoni. Bisogna avere l’umiltà e la correttezza verso se stessi di affermare la necessità di aiuto in una fase, sì complessa e delicata, come quella del praticantato. Da soli, senza studio, senza una adeguata formazione, senza il confronto con i propri pari e l’indirizzamento di chi ha più esperienza di noi, non si arriva da nessuna parte.

*Art.11, “Formazione Continua”

In conformità con quanto previsto per gli altri professionisti (articolo 7, Dpr 7 agosto 2012, n.137) l’articolo 11, del testo approvato dalla Camera, predispone la formazione continua, coll’enunciare “l’obbligo dell’avvocato di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della professione nell’interesse dei clienti e dell’amministrazione della giustizia”.

Vien delegato il CNF a stabilire le modalità e le condizioni per l’assolvimento dell’obbligo di aggiornamento, da parte degli iscritti, e per la gestione e l’organizzazione dell’attività di aggiornamento a cura degli ordini territoriali, delle associazioni forensi e di terzi, superando l’attuale sistema dei crediti formativi.

Pochi risultano gli esonerati: gli ultrasessantacinquenni, gli iscritti all’albo da oltre venticinque anni, i docenti e ricercatori universitari, coloro che ricoprono cariche con funzioni legislative e coloro che siano sospesi dall’albo a norma del comma 1 dell’articolo 20 a seguito di mandato di natura istituzionale.

In realtà, alcuni hanno avuto modo di asserire come sia paradossale che la norma introduca un obbligo di formazione continua e costante aggiornamento per gli avvocati, salvo poi esentare proprio gli ultrasessantacinquenni e gli iscritti all’albo da oltre 25 anni [oltre ai docenti, ai ricercatori universitari, a coloro che ricoprono cariche con funzioni legislative e ai sospesi dall’albo].

Ci si è chiesti: Possibile che un anziano professionista, over-60, abbia minore bisogno di aggiornarsi rispetto a un giovane, fresco di studi e con una buona propensione di base all’uso degli strumenti informatici (?)

Possibile che chi ricopre altre cariche, pur fregiandosi del titolo di avvocato, debba essere esentato dal summenzionato obbligo?

* Art. 9, “Specializzazioni”

Vien riconosciuta, dall’articolo 9, la possibilità, anche per gli avvocati, come previsto per i professionisti in generale (dall’articolo 2, Dpr 7, agosto 2012, n. 137), di ottenere e indicare il titolo di specialista, ma il conseguimento di tale titolo non comporta riserva di attività professionale.

Vengono offerte due vie alternative al conseguimento del titolo: l’esito positivo di percorsi formativi almeno biennali, organizzati presso le facoltà di giurisprudenza, ovvero la comprovata esperienza nel settore di specializzazione negli ultimi cinque anni, limitatamente agli avvocati iscritti all’albo da almeno otto anni.

Le relative valutazioni sono riservate da apposito regolamento del CNF, che può, anche, revocare il titolo di specialista. Peraltro, il CNF aveva, già, intrapreso iniziative nel settore, sotto la previgente normativa. In via transitoria, son mantenuti i titoli di specializzazione conseguiti in area accademica.

In realtà, sembra lontana la via della specializzazione, laddove, piuttosto, la si ritarda, di anni, obbligando, le giovani leve, ad una formazione generalista per poter ottenere l’abilitazione (vedi le materie oggetto di prova orale).

Sarebbe, altresì, auspicabile che, le stesse Università, per il tramite delle proprie scuole, offrissero una preparazione lungi dall’essere generica, addestrando verso canali specifici, piuttosto che frammisti.

*Art. 22, “Giurisdizioni Superiori”

L’articolo 22 tende a creare maglie strettissime al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori: da un lato, viene a riesumare il desueto esame di ammissione (previsto dalle Leggi degli anni ‘30) – che, a memoria d’uomo, sembra abbiano, finora, superato soltanto pochissimi primi della classe da contar sulle dita – e, dall’altro, istituisce una Scuola Superiore dell’Avvocatura, demandandone la disciplina al CNF, anche per quanto attiene selezione per l’accesso e verifica finale di idoneità, a mezzo, quest’ultima, di apposita commissione composta da avvocati del CNF, professori universitari ed ermellini. Ma questa nuova forma di aristocrazia forense andrà a regime soltanto fra molto tempo, giacché il via libera indiscriminato, di cui alla previgente legge, continua a valere, non soltanto, per chi sia già iscritto a questo speciale albo – com’è ovvio – ma, anche, per chi abbia maturato o maturi quei requisiti entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge di cui al progetto adesso approvato dalla Camera. Insomma, l’imbuto potrà riguardare soltanto gli ultimi (o penultimi) arrivati.

*Art. 46, “Esame di Stato”

Esattamente come era previsto precedentemente : “L’esame di Stato si articola in tre prove scritte ed in una prova orale”, sennonché:

“Le prove scritte si svolgono con il solo ausilio dei testi di legge senza commenti e citazioni giurisprudenziali”. Inoltre, sembra che (dato che la Legge non è chiara sul punto) non sarebbero ammessi all’esame coloro che non abbiano superato una prova di preselezione informatica (la quale seguirebbe, temporalmente, al rilascio del certificato di compiuta pratica).

Un’autentica vessazione, sembra, questa: del tutto anacronistica, in un contesto giuridico quale quello attuale in cui, su ogni norma, si hanno plurimi orientamenti giurisprudenziali, impossibili da memorizzare, anche avendo a disposizioni più vite. Sembra, alquanto, difficile dimostrare la conoscenza degli orientamenti della giurisprudenza su tutte le materie civili e penali oggetto dell’esame.

Dunque, assisteremo ad una valutazione degli elaborati più rigida, quantomeno, analogamente, più approfondita, con la Commissione che sarà chiamata a motivare, per iscritto, a fianco del testo, le proprie annotazioni di carattere positivo o negativo.

Sembra, dunque, farsi un passo indietro, anche su tale argomento, in quanto la restrizione all’utilizzo di soli testi di legge, in sede d’esame di stato, era già la regola per i vetusti esami di procuratore.

Negli anni ’80, il procedimento era mutato, dal momento in cui si ravvisò che il lavoro di un avvocato serio non poteva esaurirsi nell’attività di offrire pareri o disporre atti giudiziari, nella sola analisi dei testi legislativi, ma doveva, pur, estendersi, almeno, ad un’indagine sull’interpretazione giurisprudenziale, e, da qui, enucleare i principi per un corretto elaborato.

L’esperienza delle prove, però, non sembra avere offerto, in generale, risultati positivi, perché, assai spesso, ne è risultata una semplice, pedissequa, ricopiatura di precedenti ricavati dai codici commentati, con conseguente difficoltà, per le commissioni esaminatrici, di distinguere quel che, di personale, fosse stato immesso nell’elaborato e, come tale, fosse giudicabile ai fini della preparazione del candidato, dalla congerie di precedenti citati che, evidentemente, di per sé, non possono venire ritenuti errati, salvo che, del tutto, inconferenti.

Alcuni commentatori affermano, al riguardo, tuttavia, che, così facendo, l’esame perderebbe la propria caratteristica pratica (tipica di ogni esame di abilitazione) divenendo meramente teorico e, ciò, come già detto, a discapito di una formazione e preparazione alla vita lavorativa di ogni giorno, densa, detta ultima, non solo, di elementi concettuali, ma, bensì, soprattutto, connotati da basilare concretezza.

* Art. 46, co.7, 9. Questo ritorno alle origini, peraltro, richiede rigorosi controlli e, così, il comma 7, all’uopo, dispone che, a tal fine, “i testi di legge portati dai candidati per la prova debbano essere controllati e vistati nei giorni anteriori all’inizio della prova e collocati sul banco su cui il candidato sostiene la prova”, aggiungendo (comma 8) che “i candidati non possano portare con sé testi o scritti, neanche informatici, né ogni sorta di strumenti di telecomunicazione, pena la immediata esclusione dall’esame, con provvedimento del presidente della commissione, sentiti almeno due commissari”. E la stessa procedura di esclusione viene prevista dal successivo comma 9, “qualora siano fatti pervenire nell’aula, ove si svolgono le prove dell’esame, scritti od appunti di qualunque genere, con qualsiasi mezzo, per il candidato che li riceva e non ne faccia immediata denuncia alla commissione”.

* co.10. Ma si giunge, anche, al reato: “chiunque faccia pervenire, in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto e` punito a norma del comma 10, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni”. Stante il tenore della norma, essa non sembra applicabile per il semplice suggerimento tra candidati, presupponendo il passaggio di testi relativi al tema proposto.

 

Ma le sanzioni non si esauriscono a chi fa copiare: “i candidati destinatari dei testi sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza”; va tenuto, altresì, conto che, nel caso di condanna disciplinare irrogata durante il periodo di pratica (cfr. Sezioni Unite, Cassazione 9 Aprile 2008, n.9166), la pena va scontata anche una volta superato l’esame ed ottenuta l’iscrizione all’albo degli avvocati. Comunque, tale procedimento disciplinare non scatta, per l’ipotesi di cui al citato comma 8, per i candidati che portino con sé testi o scritti, informatici, ogni sorta di strumenti di telecomunicazione, ferma rimanendo, tuttavia, l’immediata esclusione dall’esame.

* Art. 46, co.3. la prova orale annovera, nella sua nuova versione, “la dimostrazione della conoscenza di ben cinque materie obbligatorie (“ordinamento e deontologia forensi, diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale”), oltre altre due materie a scelta (“Per la prova orale, ogni componente della commissione dispone di dieci punti di merito per ciascuna delle materie di esame”; inoltre, è necessaria la sufficienza in ogni materia: “Sono giudicati idonei i candidati che ottengono un punteggio non inferiore a trenta punti per ciascuna materia”).

Non viene, dunque, più, richiesto di discutere di brevi questioni come prima.

Ci si chiede quanti mesi occorreranno per presentarsi all’esame orale con una preparazione accettabile.

Poco chiaro, inoltre, cosa s’intenda per premiare, in dieci punti di merito, per materia: la capacità mnemonica (oggi, ampiamente, coadiuvata, nella pratica di tutti i giorni, da ogni sorta di banca dati) o la capacità di ragionamento e la capacità di destreggiarsi nella pratica di tutti i giorni? Alcuni asseriscono che, con tale metodo, verrebbe premiato chi sarà in grado di memorizzare una quantità immensa di dati.

Ora, se lo scopo era quello di rendere l’esame impossibile ed inaccessibile ai praticanti, seriamente e quotidianamente impegnati a lavorare negli studi legali, sembra che detto scopo sia stato raggiunto.

Alcuni definiscono l’esame, difatti, un capolavoro di vessazione e angheria nei confronti dei futuri praticanti che, per prepararsi all’esame ed avere una qualche chance di passarlo, al massimo, dedicheranno sei mesi alla pratica vera, cioè quel periodo di tempo di permanenza presso uno studio legale, ritenuto, dalla novella “riforma”, imprescindibile per conseguire il certificato di compiuta pratica.

Gli effetti di questo sistema, in definitiva, sembrano, per molti versi, tingersi di colori negativi per tutti, non solo per i futuri praticanti:

              si chiude la porta in faccia alla maggior parte dei giovani aspiranti avvocati (fatta, ovviamente, eccezione per coloro che potranno permettersi una pratica fittizia e di starsene a casa a studiare);

              si disincentiva, noi avvocati, a metterci in casa praticanti, inesorabilmente, destinati, per un lungo periodo, ad essere vessati da esamini ed esamoni, stressati, indisponibili per la maggior parte del tempo, magari obbligati a ripetere, più volte, le prove prima di riuscire ad acquisire il titolo.

Tra l’altro, si staglia il seguente bel risultato, ovverosia: noi avvocati – già privati, dalla “riforma”, di prospettive di guadagno, e senza particolari strumenti per concorrere sul mercato – tra due anni, allorquando si passerà al nuovo sistema, ci troveremo, pure, privati, di fatto, di apprendisti, i quali, magari, andranno a sfruttare la loro laurea proprio dai nostri concorrenti.

Un dato è certo: ancor più di prima, l’esame, con scarsa certezza, premierà i praticanti “effettivi” che avranno “investito” il loro tempo in attività scarsamente retribuite; probabilmente, i praticanti “veri” saranno posti sullo stesso piano degli altri e risulteranno, enormemente, svantaggiati per il minor tempo a disposizione per la preparazione.

Ed allora. Davvero, possiamo, seriamente, ritenere che questa sia la via giusta per formare dei giovani avvocati in grado di affrontare, una volta acquisito il titolo, i clienti ed i problemi reali?

Sembra che, in Italia, prevalga un atteggiamento masochistico: mentre, nel resto del mondo, si favorisce l’ingresso dei giovani nelle realtà lavorative (ivi comprese quelle professionali) e si cerca di svecchiare i contesti lavorativi, nel nostro paese, si procede nel senso, diametralmente, opposto.

Ebbene. In definitiva, quale “rilancio” della professione forense potrebbe prospettarsi, se gli unici a non essere colpiti, in qualche modo, dalla “riforma”, sono gli avvocati ormai avviati verso il tramonto della professione? (non me ne vogliano).

Che la riforma della professione (come dell’università) sia necessaria, questo costituisce un dato innegabile.

Ma, altrettanto, necessario appare allargare lo sguardo verso i giovani, soprattutto quelli che si stanno impegnando nel dare il loro sostegno e il loro apporto per un risultato migliore e più equo.

E, questo impegno, deve essere tenuto presente tutte le volte che si pensa, ai laureati in legge o ai praticanti avvocati, come a ragazzi che, non riuscendo in altri progetti, hanno ripiegato sull’Avvocatura, creando un pericoloso soprannumero ed una scomoda concorrenza, che vanno, a tutti i costi, contrastati.

Concludo – utilizzando le parole dell’Avv. Andrea Pisani Massamormile, in occasione dello scorso Congresso di Bari –  dichiarando che, a noi giovani, piacerebbe pensare “nello scorcio di storia che stiamo vivendo, dove si vedono i colori grigi della decadenza di una civiltà, ad una Avvocatura che sia impegnata a dare un lampo, una scintilla che torni ad illuminare la strada sull’attuazione di un grande sforzo culturale per un nuovo manifesto dell’Avvocatura che restituisca la nostra immagine di DIFENSORI DELLE IDEE ARMATI DI CULTURA…

E’ la via per restituire senso critico, soprattutto, ai nostri GIOVANI; è un bene prezioso, benchè sia così ostile a chi si vorrebbe imporre attraverso l’omologazione delle coscienze”.

Ebbene. Noi giovani abbiamo avuto la sfortuna di vivere un momento, per la professione, fortemente travagliato da innumerevoli, continui e complessi cambiamenti.

Non dovremmo, ciononostante, questo è quello che penso ed auspico per tutti, lasciarci abbattere, ma essere compatti, far sentire la nostra voce e munirci di cultura, pur tra mille difficoltà ed ostacoli.

A questo punto, reputo opportuno porre fine a questa relazione con una provocazione o, meglio, con uno spunto di riflessione, rivolto, in prima battuta, ai miei giovani colleghi – ma anche agli altri – postulando loro due domande:

* Preferireste continuare a ‘parcheggiare’ all’interno di un fantomatico recinto di finte speranze, senza sbocco?

* Preferireste, ancora, albergare le statistiche ufficiali che attestano, menzognere, un enorme numero virtuale di professionisti, ai quali verrà sempre rivolta, sic et simpliciter, la abbietta, infamante, semplicistica accusa di essere evasori fiscali, anziché denunciare la presenza di un numero effettivo, e sempre crescente e preoccupante, di disoccupati?

  

Catania 22/03/2013

 

 

 

Fonti:

G.U. venerdì 18 gennaio 2013, n.15. “Legge 31.12.2012 n.247. Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”.

Ufficio Studi del C.N.F., 22.01.2013. Dossier n.1/2013 “Nuova Disciplina dell’ordinamento della professione forense. Legge 31  dicembre 2012, n.247”.

C.N.F. presso il Ministero della Giustizia –  Ufficio studi. “F.A.Q. sulla L 31.12.2012, n.247”.

Altalex, 19.01.2013. “Riforma forense: under 50 penalizzati da logiche logore, vessatorie e masochistiche”,  di Mario Bona.

Altalex, 19.01.2013. “Nuova Legge professionale: un primo approfondimento”, Nota dell’avv. Antonino Ciavola.

Altalex, 21.01.2013. “Riforma forense: la nuova legge professionale in Gazzetta”.

Guida al Diritto, 14.11.2012. “Avvocati: Tirocinio di 18 mesi e sulla targa debutta la ‘specializzazione’”, di Eugenio Sacchettini.

Guida al Diritto, 03.12.2012. “Esame d’avvocato senza codici commentati, pesanti sanzioni per chi copia”, di Eugenio Sacchettini.

Guida al Diritto, 18.01.2013. “L’Analisi della Riforma. Riforma in Gazzetta: il calendario dell’attuazione”, di Giuseppe Sileci.

Quotidiano giuridico politico economico LeggiOggi.it, 26.11.2012. “Riforma forense, le reazioni di praticanti e studenti”.

Quotidiano giuridico politico economico LeggiOggi.it, 14.12.2012. “Riforma forense: il Senato dirà sì al praticantato gratuito”.

Quotidiano giuridico politico economico LeggiOggi.it, 17.12.2012. “Riforma forense, esame di Stato e specializzazione: la nuova carriera”; “Riforma forense, tirocinio gratuito, estero e doppio impiego: le novità”.

Quotidiano Giuridico Politico Economico LeggiOggi.it, 21.12.2012. “La Riforma Forense è Legge dello Stato! Tutte le novità e il testo finale”.

Quotidiano giuridico politico economico LeggiOggi.it, 24.01.2013. “Riforma forense, le norme subito in vigore. Il dossier del Cnf”.

Quotidiano giuridico politico economico LeggiOggi.it, 14.02.2013. “Riforma forense, tutte le Faq: compensi, parametri, formazione e tirocini”.

Blog ‘Repubblica degli Stagisti’, 21.01.2013. “Riforma forense: un’occasione mancata per tutelare i praticanti?” di Andrea Curiat.

 

 

 

 

 

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