Il pignoramento del bene in comunione legale dei beni va fatto pro quota o sull’intero? Cassazione, Sez. III, 14 marzo 2013, n. 6575 (G.Marasciuolo)

 

IL PIGNORAMENTO DEL BENE IN COMUNIONE LEGALE DEI BENI VA FATTO PRO QUOTA O SULL’INTERO?

Cassazione, Sez. III, 14 marzo 2013, n. 6575

Gennaro Marasciuolo

 

 

La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l’espropriazione, per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione, abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all’atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione.

La soggezione ad espropriazione di un bene compreso nella comunione legale dei beni, provocando lo scioglimento di detta comunione limitatamente a quel bene, comporta che il coniuge non debitore che ha eguale contitolarità, diventa soggetto passivo dell’espropriazione in concreto operata, con diritti e doveri identici a quelli del coniuge debitore esecutato: tale sua condizione imporrà la notificazione anche al coniuge non debitore del pignoramento, come pure l’applicazione al medesimo dell’art.498, e dell’art.567 cpc, vale a dire la necessità dell’avviso ai suoi creditori iscritti personali e della documentazione c.d. ipotecaria almeno ventennale a lui relativa, al fine di non pregiudicare i diritti di terzi validamente costituiti anche da lui sul medesimo bene.

 

 

La fattispecie.

La sentenza in commento chiarisce molti aspetti legati al pignoramento di un bene sottoposto al regime della comunione legale dei beni.

E’ molto frequente, infatti, che il creditore particolare di un coniuge si trovi innanzi alla possibilità di aggredire l’unico bene di valore che, però, è sottoposto al regime della comunione.

Il creditore, a questo punto, è ad un bivio: o aggredire l’intero bene ovvero la sola quota parte, corrispondente alla metà, astrattamente di pertinenza del coniuge debitore.

La Suprema Corte, a tal riguardo, è chiara: il creditore deve pignorare l’intero bene, ma la metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene staggito o del valore di questo, in caso di assegnazione, spetta di diritto al coniuge non debitore.

L’iter argomentativo seguito dalla Corte di Cassazione.

Il regime della comunione legale dei beni è molto particolare ed ha delle caratteristiche proprie rispetto alla comunione ordinaria:

1)       è “senza quote”, poiché i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni assoggettati al suo regime;

2)       non è ammessa la partecipazione di estranei;

3)       è finalizzata  alla tutela della famiglia;

4)       può sciogliersi nei soli casi previsti dalla legge;

5)       è indisponibile da parte dei singoli coniugi, i quali non possono scegliere quali beni farvi rientrare e quali no, ma solo mutare integralmente il regime patrimoniale, con atti dalla forma solenne, opponibili ai terzi soltanto con l’annotazione formale a margine dell’atto di matrimonio;

6)       nei rapporti coi terzi, ciascuno dei coniugi, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può disporre dell’intero bene comune.

Tali caratteristiche, però, non possono sortire l’effetto di sottrarre i beni, che fanno parte della comunione legale, dal pignoramento dei creditori particolari del singolo coniuge, vale a dire, diversi dai creditori familiari che, ad es., hanno eseguito delle prestazioni in favore della famiglia.

Se ciò fosse possibile, infatti, da una parte, si violerebbe il disposto di cui all’art. 189 c.c. che garantisce ai creditori particolari del coniuge di soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione e, dall’altra, si priverebbe l’accesso al credito al singolo coniuge, che non potrebbe fornire delle idonee garanzie per il credito a richiedersi, creando, seppur in modo indiretto, nocumento allo stesso nucleo familiare.

Ma se non è perseguibile la strada della non pignorabilità del bene in comunione legale, non è neanche accettabile la tesi della pignorabilità del singola quota, pari alla metà, di pertinenza del coniuge debitore, atteso che, se ciò fosse possibile, con la vendita della singola quota, si ammetterebbe l’ingresso di un estraneo nella comunione legale e si costituirebbe, inoltre, un diritto reale dal contenuto insussistente, atteso che, prima del pignoramento, il bene staggio non era diviso in quote.

Orbene, alla luce dei rilievi che precedono, la Suprema Corte ritiene che il bene in comunione legale debba essere sottoposto per intero a pignoramento, con la conseguenza che la comunione si scioglierà limitatamente a quel bene e l’intera proprietà potrà essere trasferita, con l’apposito decreto del Giudice dell’esecuzione, a terzi.

Per effetto della perdita del bene comunque uscito dalla comunione legale, il coniuge non debitore avrà diritto al controvalore lordo ottenuto al termine della procedura esecutiva, non potendolo gravare anche delle spese di una procedura giudiziale, quella esecutiva, di cui non ha causato l’origine.

I Giudici con l’ermellino precisano che l’ipotesi di attribuire la metà del valore ottenuto alla comunione non può essere accettata per due ordini di motivi: il primo, perché il bene staggito è comunque uscito dalla comunione e, conseguentemente, il suo valore deve essere ripartito fra i coniugi, seguendo i principi che regolano lo scioglimento della comunione nel suo complesso; il secondo, perché l’attribuzione alla comunione della metà del valore comporterebbe il fiorire all’infinito di altre esecuzioni individuai sul controvalore.

Dal punto di vista processuale, infine, il coniuge non debitore, avendo eguale contitolarità con il coniuge esecutato sul bene staggito, diventa soggetto passivo dell’espropriazione, acquisendo identici diritti e doveri. Ne consegue, che al coniuge non debitore dovrà essere notificato il pignoramento e nei suoi confronti troveranno applicazione anche gli artt. 498 e 567 c.p.c. concernenti l’avviso ai creditori iscritti personali e l’istanza di vendita.

Qualche perplessità.

La Suprema Corte, di certo, ha sollevato dall’imbarazzo della scelta molti operatori del settore, ma allo stesso tempo, ad una lettura critica della sentenza in commento, ha fatto sorgere alcuni dubbi.

Infatti, il caso concreto, dal quale la Corte ha preso spunto, riguardava l’opposizione proposta da parte di un coniuge non debitore, a causa della vendita di un bene immobile caduto nel fallimento dell’altro coniuge.

Da qui il giustificabile smarrimento provocato dalla sentenza n. 6575/2013, atteso che il fallimento, ai sensi dell’art. 191 c.c., produce lo scioglimento del regime della comunione legale, facendo venir meno il presupposto di tutto l’iter argomentativo della Corte di Cassazione, vale a dire, la sussistenza di quel particolare regime.

E’ apprezzabile che la Suprema Corte abbia enunciato i principi di diritto innanzi riportati “nell’interesse della legge”, ma, forse, avrebbe potuto cogliere un’altra occasione, pronunciandosi su di una fattispecie che non comportava lo scioglimento ex lege della comunione legale dei beni.

 

 Cassazione, Sez. III, 14 marzo 2013, n. 6575

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. L.A. propose al tribunale di Torino opposizione avverso l’ordinanza di vendita di un immobile caduto nel fallimento della E. SAS e dell’accomandatario, di lei coniuge, D.G. in proprio, deducendo essere il bene, da questi acquistato il 9.11.92, compreso nella comunione legale con lui, ricostituitasi per la riconciliazione intervenuta successivamente ad una prima separazione consensuale del 1986, come riconosciuto in una successiva separazione, anch’essa consensuale, del 25 marzo 1998; ma la convenuta curatela dedusse la mancanza di prova della ricostituzione della comunione legale tra i coniugi per effetto dell’addotta riconciliazione intervenuta dopo la (prima) separazione, comunque non opponibile ai terzi; ed il tribunale rigettò la domanda.

La corte di appello di Torino dichiarò poi inammissibile il gravame della L.A., articolato su venti ragioni di doglianza, rilevando la mancata specifica impugnazione di entrambe tali rationes deciderteli e condannando l’appellante alle spese anche del secondo grado.

Per la cassazione di tale ultima sentenza, resa in data 4.5.07 col n. 702, ricorre ora, con atto notificato il 10.1.08 ed affidandosi a due motivi, la L.; degli intimati resiste, ma con controricorso notificato soltanto il 7.11.12, la Curatela.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. La ricorrente articola due motivi, dolendosi:

– con il PRIMO, di “violazione o falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c. n. 3)”, della dichiarata inammissibilità del gravame, concludendo col seguente quesito di diritto:

costituisce violazione o falsa applicazione del primo comma dell’art. 342 c.p.c., la dichiarazione di inammissibilità dell’appello per difetto di indicazione dei motivi specifici allorquando, come nella fattispecie, i motivi dell’impugnazione, pur ipoteticamente infondati nel merito, sono tuttavia esposti senza che siano adoperate formule o seguiti schemi particolari ma siano chiaramente individuabili le statuizioni investite dal gravame e le specifiche critiche indirizzate alla motivazione che le sostiene?”;

– con il SECONDO, di vizio motivazionale, della mancata considerazione delle ragioni specifiche dell’impugnazione indicate nell’atto introduttivo e delle argomentazioni più dettagliatamente svolte nella comparsa conclusionale; ma senza concludere con autonomo e separato momento di sintesi o riepilogo.

Dal canto suo, l’intimata Curatela contesta in rito e nel merito le avverse censure, a mezzo di un controricorso – però – manifestamente tardivo.

3. Ciò posto, deve rilevarsi che il ricorso è inammissibile, per violazione dell’art. 366 bis cpc, norma che – per essere stata la sentenza impugnata pubblicata tra il 2.3.06 ed il 4.7.09 – continua ad applicarsi alla fattispecie, nonostante la sua abrogazione (ai sensi della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 5), in uno alla rigorosa interpretazione elaborata da questa Corte (Cass. 27 gennaio 2012, n. 1194; Cass. 24 luglio 2012, n. 12887; Cass. 8 febbraio 2013, n. 3079):

3.1. pertanto, i motivi riconducibili all’art.360 cpc, nn.3 e 4, devono essere corredati da quesiti che devono, a pena di inammissibilità, compendiare:

a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice;

c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie (tra le molte, v.: Cass. Sez. Un., ord. 5 febbraio 2008, n. 2658; Cass., ord. 17 luglio 2008, n. 19769, Cass. 25 marzo 2009, n. 7197; Cass., ord. 8 novembre 2010, n. 22704);

d) questioni pertinenti alla ratio decidendi, perchè, in contrario, essi difetterebbero di decisività (sulla indispensabilità della pertinenza del quesito, per tutte, v.: Cass. Sez. Un., 18 novembre 2008, n.27347; Cass., ord. 19 febbraio 2009, n.4044; Cass. 28 settembre 2011, n.19792; Cass. 21 dicembre 2011, n.27901);

3.2. invece, i momenti di sintesi o di riepilogo a corredo dei motivi di vizio motivazionale devono consistere in uno specifico e separato passaggio espositivo del ricorso, il quale indichi in modo sintetico, evidente ed autonomo rispetto al tenore testuale del motivo, chiaramente il fatto controverso in riferimento al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, come pure le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (Cass. 18 luglio 2007, ord. n. 16002; Cass. Sez. Un., 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass. 30 dicembre 2009, ord. n. 27680).

4. In applicazione di tali principi alla fattispecie, è inammissibile il primo motivo, perchè il quesito non contiene analitica indicazione dei requisiti sub a) e b) del punto 3.1 e, soprattutto, riguarda una tesi non pertinente alla ratio decidendi:

infatti, questa riposa, con tutta evidenza, sul rilievo della mancata contestazione, con l’atto di appello, di due distinte rationes decidendi della sentenza di primo grado (la prima era la mancanza di prova della riconciliazione; la seconda era l’inopponibilità della stessa al fallimento) e non nel difetto di specificità in senso stretto; ancora, la doglianza di vizio motivazionale, di cui al secondo motivo, non è corredata dal prescritto separato momento di sintesi o riepilogo coi rigorosi requisiti di cui al precedente punto 3.2 (ed a prescindere dalla manifesta infondatezza della tesi dell’integrabilità di un atto di appello privo dei requisiti essenziali a mezzo della comparsa conclusionale, integrabilità esclusa fin dalla remota Cass. 1 luglio 1967, n. 1618).

5. Il ricorso va dichiarato inammissibile; e l’inammissibilità per manifesta tardività del controricorso, sebbene seguita da ulteriore attività della controricorrente in occasione della pubblica udienza, costituisce giusto motivo di integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

6. Tuttavia, ritiene il Collegio che il ricorso stesso, benchè inammissibile, abbia comunque presupposto e quindi sollevato una questione di particolare importanza, che, in difetto di statuizioni esplicite da parte di questa Corte, ingenera attualmente sensibili differenze applicative ed incertezze interpretative: quand’anche l’odierna opponente avesse provato – cosa che comunque non ha fatto, per quanto detto ed ora definitivamente statuito – che il bene staggito fosse stato, validamente ed in modo opponibile a terzi, compreso nella comunione legale tra lei ed il suo coniuge, unico debitore originario esecutato, l’esecuzione sul bene per intero, senza specificazione di quote e senza il ricorso alle forme di cui all’art. 599 c.p.c. e segg., sarebbe stata l’unica pienamente legittima, in quanto corrispondente alle sole modalità consentite dalla natura della comunione legale quale comunione senza quote.

In applicazione di tale principio, che il Collegio stima necessario affermare quindi ai sensi dell’art. 363 cpc, commi 3 e 4, l’opposizione di terzo della coniuge non debitrice sarebbe stata comunque infondata, perchè tutte le allegazioni e gli accertamenti, espletati o richiesti e serventi alle prospettate pretese, non avrebbero mai potuto consentire l’accoglimento della sua domanda di sottrarre il bene all’espropriazione, come iniziata per l’intero, neppure in ordine alla sua metà.

6.1. L’ipotesi in esame riguarda il caso di un creditore del singolo coniuge, che voglia soddisfare un suo credito personale – cioè estraneo ai bisogni della famiglia – su beni appartenenti a quest’ultimo, ma ricadenti nella comunione legale con l’altro coniuge.

E’ doveroso sottolineare che non si intende affatto rimettere in discussione le conclusioni che questa Corte ha raggiunto da tempo in tema di natura della comunione legale, nonostante le critiche ad essa mosse in dottrina, ma che meriterebbero altri approfondimenti nelle sedi proprie. Anzi, da tali conclusioni intende il Collegio qui limitarsi a dedurre le necessarie conseguenze in tema di esecuzione su beni che in quella comunione sono compresi: non vi è, infatti, disciplina specifica sull’espropriazione dei beni caduti in regime di comunione legale tra i coniugi.

La comunione legale tra i coniugi costituisce, nella interpretazione giurisprudenziale assolutamente prevalente (fin da Corte cost. 10 marzo 1988, n. 311) e nonostante dissensi in parte della dottrina, una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei (tra le ultime: Cass. 24 luglio 2012, n. 12923; Cass., ord. 25 ottobre 2011, n. 22082; Cass. 7 marzo 2006, n. 4890), trattandosi di comunione finalizzata, a differenza della comunione ordinaria, non già alla tutela della proprietà individuale, ma piuttosto a quella della famiglia (tra le altre: Cass. 9 ottobre 2007, n. 21098; Cass. 12 gennaio 2011, n. 517); essa può sciogliersi nei soli casi previsti dalla legge ed è indisponibile da parte dei singoli coniugi, i quali, tra l’altro, non possono scegliere quali beni farvi rientrare e quali no, ma solo mutare integralmente il regime patrimoniale, con atti dalla forma solenne opponibili ai terzi soltanto con l’annotazione formale a margine dell’atto di matrimonio;

la quota non è quindi un elemento strutturale della proprietà: e, nei rapporti coi terzi, ciascuno dei coniugi, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune.

6.2. Tale impostazione impedisce, in primo luogo, la ricostruzione della comunione legale come una universalità; in secondo luogo, preclude l’applicabilità sìa della disciplina dell’espropriazione di quote (di cui all’art. 599 c.p.c. e ss.), sia di quella contro il terzo non debitore: dell’una, perchè il bene appartiene ad altro soggetto solidalmente per l’intero, che non potrebbe comunque agire separatamente per lo scioglimento della comunione limitatamente a quel cespite; dell’altra, perchè è eccezionale e quindi insuscettibile di applicazione analogica l’assoggettamento a procedura esecutiva di un individuo che debitore non è.

L’unica opzione ricostruttiva che soddisferebbe le sole esigenze della comunione legale sarebbe l’esclusione della pignorabilità stessa dei beni che ne fanno parte per crediti diversi da quelli familiari: ma è opzione ricostruttiva che vanifica senza ragione le ragioni dei creditori dei singoli coniugi per crediti non familiari, i quali ultimi, invece, benchè coniugati, non cessano di rispondere dei propri debiti con tutti i beni appartenenti al loro patrimonio, di cui all’art.2740 cc; inoltre, la destinazione dei beni in comunione legale alle esigenze della famiglia non ne determina in assoluto l’impossibilità di soddisfare i crediti dei singoli coniugi, solo prevedendosi un regime di sussidiarietà (art.189 cc; regime che, poi, si intende correttamente non comportare anche l’onere, per il creditore procedente, di esperire preventivamente e con esito negativo l’azione esecutiva sui beni personali del coniuge obbligato, come pure di compiere indagini sull’esistenza di essi:

parendo invece preferibile rimettere a ciascuno dei coniugi – e quindi anche a quello non debitore – un vero e proprio onere di opporre od eccepire l’esistenza di beni personali del coniuge debitore, da aggredire preventivamente); infine, la sottrazione dei beni in comunione legale all’espropriabilità per crediti personali di uno di loro finisce col privare gli stessi singoli coniugi di ogni utile possibilità di accesso al credito e, paradossalmente, con il gravare negativamente sulla gestione del patrimonio familiare, per il soffocamento in radice della pienezza della partecipazione di ognuno dei singoli coniugi al traffico giuridico.

6.3. Si profilano pertanto almeno tre ipotesi ricostruttive alternative:

a) la necessità di aggredire il bene per l’intero (che poi la pratica si è fatta carico di complicare in sede di distribuzione, con l’ulteriore opzione tra la restituzione della metà del ricavato al coniuge non esecutato oppure alla comunione);

b) la facoltatività dell’aggressione per la sola metà;

c) l’indispensabilità dell’aggressione per una sola metà.

Va subito precisato che ciascuna di tali soluzioni presta il fianco ad inconvenienti ed intrinseche aporie, comunque non dando luogo a conclusioni assolutamente impeccabili dal punto di vista della coerenza sistematica: unico partito pare allora, ribadita l’intangibilità in questa sede del punto di partenza sulla definizione della comunione legale quale comunione senza quote, quello di individuare l’ipotesi ricostruttiva più coerente con le premesse e dalle conseguenze meno incongruenti, se non pure dalla minore negatività delle ricadute pratiche ed operative.

Orbene, ammettere un’espropriazione, in via obbligatoria od anche in via meramente facoltativa, per la sola quota della metà, a prescindere dall’astratta configurabilità di una quota nel perdurare della comunione, significherebbe applicare l’art.599 cpc e segg., e quindi, con un sostanziale stravolgimento dell’istituto della comunione legale, consentire, almeno in astratto (potendo in contrario notarsi che comunque oggi, dopo le riforme del 2005-06, esito normale di un’espropriazione di quote indivise è il giudizio di divisione, quella c.d. endoesecutiva, che a sua volta comporta la vendita del bene appunto per l’intero), l’assegnazione della “quota” del coniuge debitore in proprio anche ad estranei o, peggio ancora, la sua vendita giudiziaria, anche in tal caso con l’introduzione, all’interno di un bene che per definizione è restato all’interno della comunione legale, di un estraneo a quest’ultima.

D’altra parte, se un bene non è diviso in quote non può il creditore pignorarne una quota soltanto, perchè si attribuirebbe in tal modo al pignoramento una impossibile funzione di costituzione di diritti reali di contenuto o estensione prima insussistenti; e senza poi considerare che, quand’anche potesse ammettersi l’espropriazione della metà del bene in comunione legale, anche una cosiffatta quota della metà sarebbe, di per sè sola considerata, rientrante a sua volta nella comunione legale, tanto che i problemi si riproporrebbero anche per tale limitato oggetto dell’espropriazione.

Vanno quindi sicuramente escluse le ipotesi indicate sub b) e c).

6.4. Ritiene il Collegio che l’assenza di quote e soprattutto l’impossibilità che, quand’anche a seguito dell’espropriazione e limitatamente ad un bene, della comunione legale entri a far parte un estraneo (cioè colui che della “quota” eventualmente da sè sola staggita divenga aggiudicatario o assegnatario) impongano di qualificare come sola legittima l’opzione ricostruttiva della necessità di sottoporre, per il credito personale verso uno solo dei coniugi, il bene a pignoramento per l’intero, nei limiti dei diritti nascenti dalla comunione legale.

A tanto conseguono la messa in vendita o l’assegnazione del bene per intero e lo scioglimento – effettivamente, eccezionale e desumibile esclusivamente dal sistema legislativo – della comunione legale limitatamente a quel bene; a seguito del medesimo scioglimento, che si perfeziona al momento del trasferimento della proprietà del bene (e, quindi, per gli immobili, con la pronuncia del decreto di trasferimento, tanto in caso di vendita che di assegnazione), consegue il diritto del coniuge non debitore, in applicazione dei principi generali sulla ripartizione del ricavato della comunione al momento del suo scioglimento, al controvalore lordo del bene nel corso della stessa procedura esecutiva, neppure potendo a lui farsi carico delle spese di trasformazione in denaro del bene (cioè quelle della procedura medesima), rese necessarie per il solo fatto del coniuge debitore, che non ha adempiuto i suoi debiti personali.

Di certo, all’atto della distribuzione il ricavato del bene non potrà essere attribuito per metà alla procedura esecutiva intentata contro il coniuge debitore (e quindi, figurativamente, a quest’ultimo, ai fini di soddisfacimento dei suoi creditori personali) e per l’altra metà “restituito” alla comunione: in primo luogo, perchè quel bene, con la vendita od assegnazione per intero, è uscito dalla comunione e, per l’esigenza di assicurare l’operatività della responsabilità patrimoniale del coniuge debitore in proprio, il suo ricavato va ripartito tra i due coniugi, allo stesso modo in cui allo scioglimento della comunione nel suo complesso ognuno di loro avrebbe diritto al controvalore della metà dei beni della comunione (salve le regole di attribuzione di cui all’art. 195 cc e ss.); in secondo luogo, perchè ritenere che la metà del controvalore spettante al coniuge non debitore competesse alla comunione significherebbe poi consentire all’infinito altre esecuzioni individuali sul controvalore così solo formalmente restituito alla comunione, ma di fatto asservito esclusivamente, in virtù di successive espropriazioni delle residue metà (e matematicamente definibili come infinite, potendo procedersi appunto senza limite all’isolamento di una metà di ogni successivo residuo), al soddisfacimento del credito del creditore particolare di uno dei coniugi.

6.5. D’altra parte, della contitolarità solidale derivante dal regime di comunione legale può darsi adeguato conto nell’apposita sezione – a contenuto libero – della nota di trascrizione di un pignoramento che va operato nei riguardi del bene per intero, o, comunque, nelle stesse forme in cui può essere comunque opponibile l’appartenenza alla comunione legale anche dei beni per i quali la nota di trascrizione non fa menzione espressa.

La soggezione ad espropriazione di un bene sul quale ha eguale contitolarità il coniuge non debitore lo configura come soggetto passivo dell’espropriazione in concreto operata, con diritti e doveri identici a quelli del coniuge debitore esecutato: tale sua condizione imporrà la notificazione anche al coniuge non debitore del pignoramento, come pure l’applicazione al medesimo dell’art.498, e dell’art.567 cpc, vale a dire la necessità dell’avviso ai suoi creditori iscritti personali e della documentazione c.d. ipotecaria almeno ventennale a lui relativa, al fine di non pregiudicare i diritti di terzi validamente costituiti anche da lui sul medesimo bene.

Il coniuge non debitore, che la precedente giurisprudenza di questa Corte di legittimità, senza affrontare però ex professo il problema, abilitava a proporre le opposizioni agli atti esecutivi o perfino di terzo, potrà certo esperirle: ma, quanto all’opposizione di terzo, non potrà con essa pretendere di escludere dall’espropriazione una quota del bene in natura, che non gli spetta e di cui – fino allo scioglimento della comunione, anche solo limitatamente a quel bene – non è titolare, ma, ad esempio, fare valere la proprietà esclusiva del bene staggito, per sua estraneità alla comunione; oppure, con opposizione ad esecuzione, far valere la non sussidiarietà del bene in comunione, per la presenza di beni personali del coniuge debitore utilmente aggredibili per il soddisfacimento del credito personale verso quest’ultimo; oppure ancora, con opposizione agli atti esecutivi, fare valere le nullità di quelli, fra questi, che comportino la violazione o la limitazione del suo diritto alla metà del controvalore del bene, come pure quelli che incidano sulla pienezza di quest’ultimo, se relativi alle operazioni di vendita o assegnazione.

6.6. Deve pertanto concludersi affermando il seguente principio di diritto, ai sensi dell’art.363 cpc, comma 3, (alla cui stregua la ricorrente avrebbe dovuto fin dall’inizio vedersi rigettata la sua opposizione), con l’ovvia specificazione che per vendita od assegnazione si intende il momento in cui a seguito di esse si ha, a seconda delle peculiarità delle singole espropriazioni, il trasferimento concreto della proprietà del bene staggito: la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l’espropriazione, per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione, abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all’atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione.

 

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità; ai sensi dell’art.363 cpc, enuncia il seguente principio di diritto: la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l’espropriazione, per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione, abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all’atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione.

 

 

 

 

 

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