Aspetti giuridici di natura costituzionale sull’applicazione della legge Severino e le pene accessorie nel nostro ordinamento: aspetti penalistici e di applicazione (G. PALMA -A. CONTINIELLO)

ASPETTI GIURIDICI DI NATURA COSTITUZIONALE SULL’APPLICAZIONE DELLA LEGGE SEVERINO E LE PENE ACCESSORIE NEL NOSTRO ORDINAMENTO: ASPETTI PENALISTICI E DI APPLICAZIONE.

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L’analisi si incentra sull’applicazione della legge Severino al caso specifico riguardante il senatore silvio berlusconi, a seguito di sentenza emessa in via definitiva dalla suprema corte di cassazione in data 01 agosto 2013.

 

Giuseppe PALMA -Alessandro CONTINIELLO

 

I^ parte dell’articolo a cura dell’Avv. Giuseppe Palma del Foro di Brindisi:

Si assiste in questi giorni, quasi quotidianamente, ad un acceso dibattito in merito alla decadenza dalla carica di senatore della repubblica del dott. Silvio Berlusconi in ordine all’applicazione della cosiddetta Legge Severino, vale a dire il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (in G.U. n. 3 del 4 gennaio 2013, in vigore dal 5 gennaio 2013 – Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190).

Ma cosa prevede, nel dettaglio, la Legge Severino? Approvata in un clima di pesante diffidenza da parte dei cittadini nei confronti della classe politica, macchiatasi in più occasioni di scandali corruttivi, la predetta legge prevede che non possano essere candidati a ricoprire le cariche di deputato e di senatore coloro che abbiano riportato condanne definitive (passate in giudicato) a pene superiori a due anni di reclusione (nello specifico vedasi art. 1 comma 1 lettere a), b) e c) del Decreto).

Ciò premesso, il problema – ad occhio nudo – si presenterebbe solo nell’ambito della mera presentazione delle candidature, vale a dire nel momento in cui i partiti o i movimenti politici depositano presso gli uffici competenti le liste dei propri candidati alle elezioni della Camera dei deputati o del Senato della repubblica. In quest’ottica è chiaro – leggendo l’art. 1 della legge – che i partiti o i movimenti politici che si presentano alle elezioni non possano presentare nelle proprie liste di candidati soggetti che abbiano riportato condanne passate in giudicato che prevedano una condanna superiore ai due anni. E fin qui nulla questio!

Ma, in realtà, la legge stabilisce qualcosa di più. L’art. 3 prevede infatti la fattispecie della “Incandidabilità sopravvenuta nel corso del mandato elettivo parlamentare”, tant’è che recita: “1. Qualora una causa di incandidabilità di cui all’articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione. A tal fine le sentenze definitive di condanna di cui all’articolo 1, emesse nei confronti di deputati o senatori in carica, sono immediatamente comunicate, a cura del pubblico ministero presso il giudice indicato nell’articolo 665 del codice di procedura penale, alla Camera di rispettiva appartenenza; 2. Se l’accertamento della causa di incandidabilità interviene nella fase di convalida degli eletti, la Camera interessata, anche nelle more della conclusione di tale fase, procede immediatamente alla deliberazione sulla mancata convalida”. Ed è proprio questa dell’art. 3 la norma della discordia! Secondo quanto previsto dalla predetta disposizione legislativa, anche coloro che sono stati candidati e che successivamente sono risultati eletti in un periodo in cui non sussisteva la situazione di incandidabilità, possono essere successivamente dichiarati “decaduti” dalla carica di parlamentare per cosiddetta “incandidabilità sopravvenuta”. Se da un lato l’art. 3 è molto chiaro e non lascia spazio ad interpretazione alcuna, dall’altro il giurista si trova nelle condizioni di verificare l’applicabilità di predetta disposizione a ciascun caso specifico, e per far ciò è indispensabile partire da un punto fermo, che è quello del principio generale del nostro ordinamento giuridico sull’irretroattività della legge, non solo penale, ma della legge in generale. A tal proposito fa d’uopo richiamare le disposizioni di cui all’art. 25 comma II della Costituzione, all’art. 11 comma I delle Disposizioni sulla legge in generale (le cosiddette Preleggi), all’art. 2 comma I del codice penale e all’ art. 7 comma I della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali – Art. 25 co. II Costituzione: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”; art. 11 comma I Disposizioni sulla legge in generale: “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”; art. 2 comma I codice penale: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”; art. 7 comma I Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali: “Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”.

Ciò premesso, applicando nello specifico le predette disposizioni (soprattutto quelle di cui all’art. 25 comma II della Costituzione e all’art. 11 comma I delle Disposizioni sulla legge in generale) alla vicenda relativa al senatore Berlusconi – condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione in data 01 agosto 2013 a quattro anni di reclusione  (in realtà la Suprema Corte confermava su tal punto la condanna emessa in sede di gravame dalla Corte d’Appello di Milano in data 08.05.2013) per fatti eventualmente commessi dallo stesso Berlusconi in un periodo antecedente  all’entrata in vigore della Legge Severino (D. Lgs. n. 235 del 31.12.2012 entrato in vigore il 05.01.2013) -, la norma dell’art. 3 non sarebbe astrattamente applicabile al senatore Silvio Berlusconi in ordine agli effetti prodotti dalla sentenza emessa in via definitiva dalla Suprema Corte il 01 agosto 2013, in quanto essa confermava la condanna del Berlusconi per fatti da questo eventualmente commessi in un periodo ben antecedente all’entrata in vigore della c.d. Legge Severino.

Ciononostante, la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato della repubblica – ignorando volutamente quanto sopra premesso – il 04 ottobre 2013 ha votato a maggioranza la decadenza del senatore Berlusconi (ai sensi dell’art. 66 della Costituzione) rifiutandosi finanche di trasmettere gli atti alla Corte Costituzionale per un chiarimento in ordine al principio di irretroattività sopra richiamato o di una eventuale conformità costituzionale del disposto di cui all’art. 3 del decreto n. 235/2012. E ciò ha creato – e potenzialmente potrebbe creare – un precedente molto critico sia per lo Stato di Diritto sia per le sacrosante guarentigie cui godono i rappresentanti del popolo nel loro libero esercizio della sovranità popolare.

Ora ad esprimersi sarà l’aula del Senato (Camera di appartenenza del Berlusconi), la quale dovrà – entro venti giorni dal pronunciamento della Giunta – decidere in merito alla decadenza dalla carica di parlamentare dell’ex Presidente del Consiglio dei Ministri. L’augurio del giurista è quello che i senatori non decidano di arroccarsi sulla base della propria appartenenza politica o collocazione ideologica, ma unicamente su criteri di diritto.

 E a nulla vale, a mio parere, neppure il richiamo strumentale dell’art. 66 della Costituzione: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”, in quanto predetta disposizione soggiace – come tutte le disposizioni costituzionali e non solo – ai principi generali del nostro ordinamento giuridico. A tal fine si richiama appunto il principio generale sull’irretroattività della legge in generale così come ut supra argomentato.

Se quindi da un lato al caso Berlusconi trova sicuramente applicazione il disposto di cui all’art. 68 comma II della Costituzione in ordine all’esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna  (cosa che peraltro il senatore Berlusconi non ha mai contestato),  dall’altro è del tutto inaccettabile da un punto di vista giuridico che il senatore Berlusconi debba essere dichiarato “decaduto” dalla propria carica di senatore in forza dell’art. 3 della Legge Severino in quanto, come ho già argomentato, la stessa non potrebbe in nessun caso trovare applicazione per fatti eventualmente commessi in un periodo antecedente all’entrata in vigore della stessa. Considerato che il Berlusconi è stato condannato per fatti risalenti a parecchi anni prima l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 235/2012, l’art. 3 del decreto medesimo sull’ “Incandidabilità sopravvenuta nel corso del mandato elettivo parlamentare” non può trovare – in questo caso specifico – applicazione alcuna!

Tutto ciò premesso e fermi restando i legittimi e non infondati dubbi di incostituzionalità dell’art. 3 del Decreto Legislativo 31 dicembre 2012 n. 235, lo scrivente ha voluto argomentare le proprie osservazioni giuridiche solo nell’ambito di mere – ma fondamentali – questioni di principio, tutt’altro che secondarie rispetto alla delicatezza del caso esaminato.

Si precisa, altresì, che la suddetta trattazione ha riguardato il caso in esame da una differente angolatura, ossia valutando se il concetto di “decadenza” del senatore Berlusconi – pur richiamando la Legge Severino la circostanza di un deputato o senatore a cui è stata irrogata una sentenza di condanna definitiva (superiore agli anni due) -, debba esser valutata (la “decandenza”) come un “effetto di natura penale” derivante, appunto, da una condanna – penale – irrogata (definitiva o non che sia).

In tal guisa, la censura di cui all’articolo 3 della Legge in esame riguarderebbe le sentenze definitive (nota: la condanna – definitiva – del senatore Berlusconi, com’è noto è del 01 agosto 2013) e non il tempus commissi delicti (ossia la commissione dei reati che sono antecedenti all’anno 2006), e sarebbe pertanto superata con il precipuo richiamo – da me compiuto – al combinato disposto degli articoli 2 comma I del codice penale, 11 comma I delle disposizioni sulla legge in generale e 25 comma II della Costituzione, secondo cui la legge (soprattutto penale) non può avere effetto retroattivo.

In definitiva, suffragato dal pensiero (seppur di minoranza) di autorevoli costituzionalisti – ed analizzando il “caso” sotto un profilo squisitamente tecnico – si ritiene che la annosa questione avrebbe necessitato di un ulteriore vaglio da parte della Corte Costituzionale al fine di dirimere la querelle giuridica.

Ancora un’ultima nota a corollario di quanto indicato.

La Legge Severino, come visto, sancisce agli artt. 1 e 3 sia i presupposti di incandidabilità sia la cosiddetta “incandidabilità sopravvenuta” (ossia non possono essere candidati a ricoprire le cariche di deputato e di senatore coloro che abbiano riportato condanne definitive passate in giudicato, e possono essere dichiarati incandidabili – e quindi decaduti – quei parlamentari già eletti per i quali il presupposto di incandidabilità è sopravvenuto in corso di mandato parlamentare), ma stabilisce altresì “nel caso di pene superiori ai due anni di reclusione”: orbene, essendo il tempus commissi delicti antecedente all’anno 2006 (fatto questo incontestabile dal momento in cui è stato applicato l’indulto a tre anni dei quattro totali di condanna), la pena – effettiva – e definitiva sarebbe di anni uno, ergo inferiore ai due anni previsti per l’applicazione della stessa.

Altro argomento, questo, che reputo avrebbe necessitato di ulteriori approfondimenti.

Sempre in merito al predetto caso riguardante il senatore Berlusconi, v’è tuttavia la questione relativa alla condanna dell’interdizione dai pubblici uffici a 5 anni così come stabilita inizialmente dalla Corte d’Appello di Milano, la quale dovrà in ogni caso ridurla circoscrivendola in un periodo che va da 1 a 3 anni su rinvio disposto dalla medesima Corte di Cassazione con la sentenza del 01 agosto 2013.

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II^ parte dell’articolo a cura dell’Avv. Alessandro Continiello del Foro di Milano:

Prima di affrontare, nello specifico, il caso giudiziario del Sen. Dott. Silvio Berlusconi – quanto al procedimento penale per il delitto di frode fiscale per i diritti Mediaset -, è opportuno un richiamo tout court alle pene accessorie ed alla loro applicazione.

Il nostro diritto positivo, com’è noto, distingue le pene in “principali” ed “accessorie”. Trascurando le pene “principali”, l’art.20 del nostro codice penale, precisa che le pene principali sono inflitte dal giudice di cognizione con sentenza di condanna e quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa. Qualora la pena accessoria sia integralmente predeterminata dalla legge (nella specie, nella sua durata e nelle sue modalità), in mancanza di una statuizione espressa in sentenza di condanna, può essere applicata anche dal giudice della esecuzione ma su espressa richiesta del pubblico ministero (cfr. art.183 disp. att. c.p.p.).

Una prima pietra miliare è già stata, come visto, fissata dal nostro legislatore giacchè ha previsto che le pene accessorie si applicano ex officio o de plano,  per usare un altro termine di uso comune in gergo giudiziario, in quanto “conseguono” (art.20 cod.pen.) automaticamente in caso di condanna (alla pena “principale”) e si caratterizzano dalla circostanza di potersi applicare “solo in aggiunta ad una pena principale”: in altri termini, non possono che accedere ad una pena principale (vedasi “Manuale di diritto penale. Parte generale” Marinucci/Dolcini).

Nel disegno originario del codice Rocco le “pene accessorie” sono state considerate sanzioni che “per il loro intrinseco carattere mancano di un’efficienza tale, per cui possano riuscire, per sé medesime, sufficienti a realizzare gli scopi intimidativi ed afflittivi della repressione”. Di qui la evidente necessità di comminarle od irrogarle sempre congiuntamente ad altre pene, rispetto alle quali esse risultano, appunto, complementari ed accessorie (vedasi “Diritto penale. Parte generale”, Fiandaca/Musco).

Le pene accessorie sono previste dall’art.19 cod. pen. distintamente sia per i delitti che per le contravvenzioni, ma nella trattazione ci concentreremo unicamente su quelle previste per i delitti e, nello specifico, su una in particolare (nota: anticipando che non possono considerarsi un “numerus clausus” – vedasi “Diritto penale” cit.).

Le pene accessorie per i delitti sono: l’interdizione dai pubblici uffici; l’interdizione da una professione o da un’arte; l’interdizione legale; l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche; l’incapacità di contrattare con la p.a.; la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale (nota: una pena accessoria “comune” sia ai delitti che alle contravvenzioni è la “pubblicazione della sentenza penale di condanna”).

Si ritiene, come anticipato, che la caratteristica peculiare delle pene accessorie sia l’automaticità di applicazione, nel senso che le stesse si applicano di diritto e conseguentemente alla irrogazione di una sentenza (principale) di condanna: ma, la suddetta affermazione risulta imprecisa giacchè vi sono dei casi in cui la loro applicazione è rimessa alla discrezionalità del giudice della cognizione (vedasi, ad esempio, l’art.32 co.III cod. pen. ed alla “clausola di salvaguardia” introdotta, ossia “salvo che il giudice disponga altrimenti”).

Le pene accessorie possono essere “perpetue” o “temporanee” e la loro ratio applicativa consisterebbe nella prevenzione generale o nella cosiddetta “difesa sociale”.

Per garantire effettività agli obblighi che caratterizzano le singole pene accessorie, il nostro legislatore ha creato un’autonoma figura delittuosa, quanto alla “inosservanza di pene accessorie” (cfr. art.389 cod.pen.).

Interessante, seppur non oggetto specifico di tale disquisizione, risulta un quesito assai dibattuto, in dottrina ed in giurisprudenza, circa l’applicabilità delle pene accessorie – quando siano previste con riferimento ad un determinato titolo di reato – anche in caso di condanna per il delitto tentato.

Dopo tale premessa, ci si concentri sulle singole pene accessorie (previste per i delitti) e, nello specifico, sulla “interdizione dai pubblici uffici”.

Si tratta della più importante e più ampia sanzione interdittiva del nostro sistema penale, contenuta negli articoli 28 e 29 del codice penale.

Rappresenta, infatti, la pena interdittiva per eccellenza o per antonomasia, in quanto opera sulla capacità dell’individuo (condannato ad una pena principale) di rivestire incarichi ed assumere “uffici” che hanno una sua natura, in senso ampio, pubblicistica.

Inerisce, ope legis, a tutti i reati commessi in violazione dei doveri concernenti una pubblica funzione (cfr. Cass.Pen., sez.II, 19-04-1989).

L’interdizione dai p.u. ( “salvo che dalla legge sia altrimenti disposto”, art.28 co.I) priva il condannato: del diritto di elettorato o di eleggibilità (“in qualsiasi comizio elettorale”) attivo e passivo e di ogni altro diritto politico; di ogni pubblico ufficio e di ogni incarico, non obbligatorio, di pubblico servizio; di gradi e dignità accademiche, titoli, decorazioni ed, in genere, di diritti onorifici (et c. per quanto di nostro interesse specifico).

L’interdizione dai p.u. “perpetua” consegue motu proprio alla condanna all’ergastolo od alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni; l’interdizione “temporanea” ha la durata non inferiore ad un anno né superiore a cinque anni.

L’interdizione per la durata ad anni cinque consegue alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni (cfr. art.29 cod.pen.; nota: in assenza di una previsione esplicita, è pari a quella della pena principale inflitta, secondo il c.d. principio di equivalenza –art.37 c.p.-).

Orbene, per la “quantificazione” della pena accessoria in esame, si deve partire da un primo presupposto: verificare qual è (nota: nel senso di quantum) la pena (principale) irrogata.

Come indicato in un passaggio della presente trattazione, il catalogo delle pene accessorie, previsto dall’art.19, non può considerarsi come un numerus clausus in quanto vi sono ulteriori ipotesi previste in altri settori del nostro ordinamento, ovvero stesse ipotesi già codificate nella loro specie, ex art.19 c.p., ma da applicarsi in seguito a condotte contra legem perpetrate e contemplate come reati da decreti leggi/legislativi.

È questo il caso che ci riguarda, ossia il reato di frode fiscale (previsto dal d.lgs. n4.74/2000 “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”).

Nell’ambito procedimento penale sui “diritti Mediaset” il Sen. Silvio Berlusconi era imputato del suddetto reato, in concorso, unitamente ad altre persone.

Nei due gradi di giudizio è stato condannato (nota: c.d. “doppia conforme” giacchè in sede di giudizio di appello è stata confermata la condanna emessa dal giudice/Tribunale in composizione collegiale di primo grado) alla pena (principale) di anni quattro di reclusione (nota: tre “coperti” dall’indulto, ex L. nr.241/2006, ed il rimanente da “espiare” con misura alternativa al carcere quale l’affidamento ai servizi sociali e/o la detenzione domiciliare) e, conseguentemente, alla pena (accessoria) della interdizione dai pubblici uffici per anni cinque.

Veniva proprosto dai difensori ricorso in Cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano così pronunciandosi, in data primo agosto, la Suprema Corte, in composizione feriale: “Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Berlusconi Silvio limitatamente alla statuizione relativa alla condanna alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per anni cinque, per violazione dell’art.12 co.2 del d.lgs. nr.74/2000 e dispone la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano perché ridetermini la pena accessoria nei limiti temporali fissati dal citato articolo 12…Conferma nel resto”.

Perché la Suprema Corte si è pronunciata in tal modo (nota: peraltro su richiesta esplicita anche del Procuratore Generale che aveva richiesto l’annullamento della sentenza limitatamente alla entità della pena accessoria) ed ha rinviato la sentenza alla Corte d’Appello di Milano?

La risposta risulta questa: per un motivo meramente o meglio, squisitamente, tecnico.

I giudici della Suprema Corte, con le loro oltre duecento pagine (208) di motivazioni hanno rigettato le (legittime) doglianze avanzate dalla difesa sentenziando diversamente, a pagina duecentotre, che “risulta fondato il motivo numero 46 del ricorso di Berlusconi, con riferimento alla pena accessoria della interdizione di pubblici uffici”.

Il pensiero dei giudici supremi, sulla falsariga del rilievo degli avvocati del Senatore, è stato quello di aver rilevato una differente valutazione giuridica dai giudici di merito nella qualificazione/quantificazione della pena accessoria.

Hanno, quindi, richiamato una prima (e precedente) pronuncia (vedasi sentenza Azzani, Cass., sez.3, nr.41874/2008) secondo cui “nel caso di pena accessoria, non espressamente determinata dalla legge, quanto alla durata della stessa, tale statuizione, più che rimessa ad una valutazione discrezionale…”va parametrata dal giudice a quella della pena principale”, proseguendo nelle loro riflessioni in tal modo: “Nella sentenza Azzani, come pure nella sentenza Ramunno (nota: nr.29780/2010) il principio di operatività dell’articolo 37 codice penale, per la determinazione delle pene accessorie concernenti i reati tributari, è stato affermato in relazione ad una pena determinata per tali illeciti in misura certamente inferiore ai tre anni.

L’articolo 12 co.2 del d.lgs. nr.74/2000, dispone che la condanna per taluno dei delitti previsti dagli articoli 2, 3 e 8 importa altresì l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni, salvo che ricorrano le circostanze previste dagli articoli 2…

L’articolo 29 codice penale, al comma I, prevede invece che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore agli anni tre, importa l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni.

In realtà l’art.12 d.lgs nr.74/2000 appare frutto di un organico disegno del legislatore delegato, inteso a rimodulare in modo autonomo, secondo una disciplina speciale, la regolamentazione delle pene accessorie conseguenti alla condanna per i reati tributari”.

Secondo la Suprema Corte, tale prodromico concetto è altresì avallato dalla stessa giurisprudenza – e decisioni precedenti – della Cassazione (vedasi Cass., SS.UU. nr.1235/2011 Giordano).

“Ritiene questa Corte, per quanto si accennava in principio, che la tesi maggiormente persuasiva sia quella secondo la quale l’articolo 37, nell’indicare come pressuposto della sua operatività, la mancata espressa determinazione della durata della pena accessoria, non si riferisca nel caso in cui il legislatore abbia specificato una durata minima ed una durata massima  (cfr. pag.208 sent. Cass., sez. fer., 01.08.2013).

Per questi motivi annulla la sentenza impugnata nei confronti di B.S. limitatamente alla statuizione relativa alla condanna alla pena accessoria…”.

Orbene, per concludere nella presente trattazione, l’annullamento della sentenza quanto alla quantificazione della (specifica) pena accessoria (della interdizione dai pubblici uffici) è intervenuto, giacchè la sua statuizione deve avvenire con espresso  riferimento al secondo comma dell’art.12 del d.lgs nr.74/2000 – che prevede espressamente, “in caso di “condanna per taluno dei delitti previsti dagli articoli 2, 3 e 8“ l’applicazione della suindicata pena accessoria “per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni” e non, come conseguenza giuridica, già prevista – e come evidenziato – dal combinato disposto degli articoli 19, 28, 29, 32 e 37 del codice penale (secondo cui “la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni importa l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque”), in quanto l’art.12 d.lgs nr.74/2000 appare, come sancito dalla Suprema Corte, “frutto di un organico disegno del legislatore delegato, inteso a rimodulare in modo autonomo, secondo una disciplina speciale, la regolamentazione delle pene accessorie conseguenti alla condanna per i reati tributari”.

In tal guisa, nella prossima udienza già calendarizzata dalla Corte d’Appello di Milano (ma altra sezione) la pena accessoria della interdizione dai p.u. oscillerà, nella sua nuova quantificazione, tra anni uno ed anni tre.

 

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