Omesso versamento. La notifica dell’accertamento della violazione non è condizione di procedibilità Cassazione, sez. Unite Penali, 18 gennaio 2012, n. 1855

OMESSO VERSAMENTO. LA NOTIFICA DELL’ACCERTAMENTO DELLA VIOLAZIONE NON È CONDIZIONE DI PROCEDIBILITÀ

Cassazione, sez. Unite Penali, 18 gennaio 2012, n. 1855

 

Al quesito posto alle Sezioni Unite, avente ad oggetto la possibile equivalenza del decreto di citazione a giudizio alla notifica dell’avviso di accertamento delle violazioni, pertanto, deve essere data risposta nel senso che “il decreto di citazione a giudizio è equivalente alla notifica dell’avviso di accertamento solo se, al pari di qualsiasi altro atto processuale indirizzato all’imputato, contiene gli elementi essenziali del predetto avviso”

 

 

Cassazione, sez. Unite Penali, 18 gennaio 2012, n. 1855

(Pres. Lupo – Rel. Lombardi)

 

 

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 3 novembre 2010 la Corte di appello di Cagliari, confermando la sentenza del Tribunale di Lanusei in data 29 aprile 2008, ha affermato la colpevolezza di S..S. in ordine al reato di cui agli artt. 81, comma secondo, cod. pen., e 2, comma I-bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, a lei ascritto per avere, quale responsabile della ditta “Sar Pont S.r.l.” omesso di versare all’INPS le ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti per il periodo dal maggio al novembre 2003.

La sentenza ha affermato che il termine di tre mesi concesso dall’art. 2, comma I-bis, ultimo periodo, legge n. 638 del 1983 al datore di lavoro per provvedere al versamento delle ritenute, con conseguente non punibilità del reato, decorreva – difettando la prova che l’imputata avesse ricevuto la notifica dell’accertamento della violazione – dalla data di notifica del decreto di citazione a giudizio.

La Corte territoriale ha, inoltre, ritenuto provato l’effettivo pagamento delle retribuzioni ai lavoratori dipendenti relativamente al periodo cui si riferiva la contestazione ed ha rigettato gli ulteriori motivi di gravame con i quali l’appellante lamentava l’eccessività della pena inflitta e chiedeva la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria corrispondente.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’imputata, deducendo: 1) inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale; 2) mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.

Afferma la ricorrente che “il decreto di citazione a giudizio, soprattutto se formulato in modo sintetico, non può integrare un atto sostitutivo rispetto a quello di cui all’art. 2 del d.l. n. 463/1983, non ponendo il datore di lavoro nelle condizioni di avere reale ed effettiva contezza del tenore dell’accertamento INPS, risultante omesso”.

Si afferma, inoltre, in punto di accertamento dell’effettivo pagamento delle retribuzioni ai lavoratori dipendenti, che i giudici di merito lo hanno fondato sulla verifica dell’esistenza dei modelli D.M. 10, attribuendo a detta documentazione una funzione probatoria che non le è propria.

Viene censurata, infine, la motivazione con la quale la sentenza ha negato all’imputata la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria.

3. La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, assegnatala del ricorso, con ordinanza del 7 giugno 2011, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 cod. proc. pen..

Nell’ordinanza si rileva l’esistenza di un contrasto, non composto, nella giurisprudenza di questa Corte in ordine alla conseguenze derivanti dalla omessa contestazione o notifica dell’avvenuto accertamento della violazione da parte dell’INPS ovvero dalla carenza di prove sul punto.

Alcune decisioni hanno affermato che in tale ipotesi il termine di tre mesi concesso al datore di lavoro per provvedere al versamento delle somme dovute decorre dalla notifica del decreto di citazione per il giudizio; qualora detto termine non sia decorso al momento della celebrazione del processo l’imputato può chiedere al giudice un rinvio al fine di provvedere all’adempimento (Sez. 3, n. 4723 del 12/12/2007, dep. 2008, Passante; Sez. 3, n. 38501 del 25/09/2007, Falzoni; Sez. 3, n. 41277 del 28/09/2004, De Berardis).

Altro orientamento giurisprudenziale ammette che l’avviso di accertamento delle violazioni possa essere surrogato dal decreto di citazione a condizione che lo stesso contenga la specifica indicazione delle somme corrispondenti alle contribuzioni omesse, con l’invito a pagarle, la messa in mora del datore di lavoro e l’avvertimento che il mancato pagamento comporta la punibilità del reato (Sez. 3, n. 6982 del 15/12/2005, dep. 2006, Ricciardi).

Tali soluzioni interpretative sono state ritenute, da altra sentenza (Sez. F, n. 44542 del 5/08/2008, Varesi), non basate su sicuri dati normativi, in contrasto con la ratio della disciplina e non conformi a principi costituzionali, con la conseguenza che il decreto di citazione non può essere equiparato all’avviso di accertamento della violazione. Secondo la citata pronuncia la notifica dell’avviso di accertamento della violazione ed il decorso del termine di tre mesi costituiscono una condizione di procedibilità dell’azione penale.

Un’altra sentenza, infine, ha ritenuto il termine di tre mesi solo il limite temporale ultimo per la trasmissione della notitia criminis da parte dell’ente previdenziale all’autorità giudiziaria (Sez. 3, n. 27258 del 16/05/ 2007, Venditti).

4. Il Primo Presidente, con decreto del 15 settembre 2011, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna pubblica udienza.

5. Con memoria depositata l’11 novembre 2011 la difesa della ricorrente ha riprodotto la motivazione della citata sentenza n. 44542 del 2008, Varesi, a sostegno della tesi secondo la quale la notifica del decreto di citazione a giudizio non costituisce atto equipollente alla notifica dell’avviso di accertamento della violazione da parte dell’ente previdenziale, aggiungendo che, nel caso in esame, la contestazione contenuta nel predetto decreto non riportava indicazioni idonee a consentire al datore di lavoro di versare le ritenute omesse.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato.

2. La questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite è la seguente: “Se, ed eventualmente a quali condizioni, la notifica del decreto di citazione a giudizio sia da ritenere equivalente, nei procedimenti per il reato di omesso versamento delle ritenute assistenziali e previdenziali all’I.N.P.S., alla notifica dell’accertamento della violazione, non effettuata, e ciò ai fini del decorso del termine di tre mesi per il pagamento di quanto dovuto, che rende non punibile il fatto”.

3. Il reato di omesso versamento delle ritenute assistenziali e previdenziali è previsto dall’art. 2 d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, come modificato dall’art. 1 d.lgs. 24 marzo 1994, n. 211, il quale, al comma I-bis, dopo avere comminato la sanzione della detenzione e della multa per detta violazione, nel secondo periodo dispone: “Il datore di lavoro non è punibile se provvede al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione”.

Stabilisce, poi, il comma I-ter del predetto art. 2; “La denuncia di reato è presentata o trasmessa senza ritardo dopo il versamento di cui al comma I-bis ovvero decorso inutilmente il termine ivi previsto. Alla denuncia è allegata l’attestazione delle somme eventualmente versate”.

Il comma 1-quater. “Durante il termine di cui al comma I-bis il corso della prescrizione rimane sospeso”.

Il citato decreto legislativo n. 211 del 1994 ha novellato nei termini di cui alle disposizioni riportate la precedente disciplina della materia, che prevedeva, quale causa di estinzione del reato, la facoltà per il datore di lavoro di effettuare il versamento delle ritenute entro sei mesi dalla scadenza del relativo termine ovvero non oltre le formalità di apertura del dibattimento penale, se fissato prima dello scadere del termine di sei mesi (art. 1, comma 3, d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, che aveva sostituito l’originario art. 2, comma 1, d.l. n. 463 del 1983 con i commi 1 e I-bis).

4. Come esposto nell’ordinanza di rimessione, il prevalente indirizzo interpretativo di questa Corte afferma che “nel caso non risulti certa la contestazione o la notifica dell’avvenuto accertamento delle violazioni, il termine di tre mesi concesso al datore di lavoro per provvedere al versamento dovuto – rendendo operante la causa di non punibilità prevista dall’art. 2, comma I-bis, legge n. 638 del 1983, come modificato dal d.lgs. n. 211 del 1994 – decorre dalla data di notifica del decreto di citazione per il giudizio, sicché qualora detto termine non sia decorso al momento della celebrazione del dibattimento, l’imputato può chiedere al giudice un differimento dello stesso al fine di provvedere all’adempimento” (Sez. 3, n. 41277 del 28/09/ 2004, De Berardis, Rv. 230316).

Comune al citato indirizzo interpretativo è l’affermazione che “il decorso del termine di tre mesi per provvedere alla regolarizzazione […] non rappresenta una condizione di procedibilità dell’azione penale”, ma indica solo il limite temporale per la trasmissione all’autorità giudiziaria della notitia criminis da parte dell’ente previdenziale e, pertanto, “non impone di attendere il termine indicato per l’esercizio dell’azione penale” (Sez. 3, n. 27258 del 16/05/2007, Venditti; Sez. 3, n. 38501 del 25/09/ 2007, Falzoni; Sez. 3, n. 4723 del 12/12/2007, dep. 2008, Passante; Sez. 3, n. 36331 del 07/07/2009, Santella; Sez. 3, n. 29616 del 14/06/2011, Vescovi).

5. Secondo l’opposto indirizzo interpretativo, “l’effettuazione di una valida contestazione o di una valida notifica dell’accertamento della violazione ed il successivo decorso del termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica senza il versamento delle somme dovute si configurano invece come una condizione di procedibilità dell’azione penale” (Sez. 3, n. 19212 del 04/04/2006, Bianchi). Ne deriva che “in mancanza della contestazione o della notifica dell’accertamento della violazione ed in mancanza del decorso del termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica, l’azione penale non può essere iniziata con la conseguenza che nemmeno può essere emesso un valido decreto di citazione a giudizio”. In tal caso il giudice ha l’obbligo di rilevare e dichiarare anche di ufficio in ogni stato e grado del giudizio l’improcedibilità dell’azione penale ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen..

Una successiva sentenza conforme al citato indirizzo interpretativo (Sez. F, n. 44542 del 05/08/2008, Varesi) ha osservato che l’opposta tesi dell’equipollenza della notifica del decreto di citazione a giudizio alla contestazione o notifica dell’accertamento delle violazioni da parte dell’ente previdenziale “non sembra avere un sicuro fondamento normativo”. Si osserva, in particolare, sul punto che l’affermazione, secondo la quale l’imputato può chiedere al giudice un termine per effettuare il pagamento, non spiega “su quale dato normativo si fondi questo ulteriore onere imposto all’imputato”; né “su quale norma si fondi un obbligo del giudice di rinviare il dibattimento”. La tesi dell’equipollenza, secondo la richiamata pronuncia, inoltre “potrebbe produrre l’effetto di porre nel nulla l’obbligo di notificazione legislativamente imposto all’ente accertatore, in tal modo ponendosi anche in contrasto con la ratio e le finalità della disciplina”. Ulteriori argomenti a sostegno della natura di condizione di procedibilità attribuita alla contestazione o notifica dell’accertamento da parte dell’ente previdenziale vengono ravvisati nella lettera della norma, che impone all’ente di trasmettere la notitia criminis all’autorità giudiziaria solo dopo l’esaurimento del tentativo di definizione del contesto in sede amministrativa e prevede la sospensione del decorso della prescrizione per la durata della fase di definizione amministrativa, diversamente da quanto previsto in altri casi, come, ad esempio, dalla normativa per la definizione delle violazione in materia di sicurezza del lavoro dal d.lgs. n. 758 del 1994; nella diversità di contenuto del decreto di citazione a giudizio rispetto all’avviso di accertamento delle violazioni, che contiene l’ingiunzione ad adempiere con l’indicazione delle somme dovute; nella disparità di trattamento tra il datore di lavoro, al quale sia stato regolarmente notificato l’avviso di accertamento, e il datore di lavoro che sia stato rinviato a giudizio senza avere ricevuto tale avviso.

6. Secondo un’isolata sentenza (Sez. 3, n. 10469 del 01/02/2005, Petrone, Rv, 230980), infine, il reato in questione è omissivo istantaneo che “si consuma alla scadenza di tre mesi dalla contestazione entro i quali si può provvedere al pagamento del debito contributivo e non al momento dell’accertamento della violazione”.

7. Deve essere preliminarmente sgombrato il campo da tale ultima enunciazione in ordine alla struttura del reato, che sembrerebbe dirimente rispetto alle opposte tesi sulla natura della notifica dell’avviso di accertamento delle violazioni e del decorso del termine previsto per l’adempimento.

È evidente che l’attribuzione della natura di elemento costitutivo del reato alla notifica dell’avviso di accertamento ed al decorso del termine per adempiere contrasta con la stessa lettera della legge, che prevede la sospensione del decorso della prescrizione durante il termine di tre mesi concesso al datore di lavoro per adempiere (art. 2, comma 1-quater, legge n. 638 del 1983); previsione assolutamente inconciliabile con la affermata insussistenza del reato prima che il medesimo termine sia decorso.

Va ricordato sul punto che secondo il consolidato indirizzo interpretativo l’omesso versamento all’INPS delle ritenute previdenziali ed assistenziali “è reato omissivo istantaneo che si consuma nel momento in cui scade il termine utile per il versamento da parte del datore di lavoro e nel luogo in cui il versamento stesso si sarebbe dovuto effettuare e non fu, invece, effettuato nel termine utile, a nulla rilevando il momento in cui il reato è stato accertato” (Sez. 1, n. 2136 del 14/07/1989, Rosciano, Rv. 182055; Sez. 3, n. 5315 del 07/12/1990, dep. 1991, Fagioli; Sez. 3, n. 2697 del 18/02/1992, Graziano; Sez. 3, n. 8327 del 30/06/1994, Scardaccione; Sez. 3, n. 29275 del 25/06/2003, Braiuca; Sez. 3, n. 20251 del 16/04/2009, Casciaro; Sez. 3, n. 615 del 14/12/2010, dep. 2011, Ciampi).

Detto termine, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), n. 1), d.lgs. n. 422 del 18 novembre 1998, scade il giorno sedici del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi.

8. La questione giuridica fondamentale, e pregiudiziale rispetto al quesito posto alle Sezioni Unite, che divide le opposte tesi, delle quali si sono esposte le argomentazioni principali, è costituita dalla natura della contestazione o della notifica dell’avviso di accertamento delle violazioni da parte dell’ente previdenziale e del successivo decorso del termine per adempiere, ai quali la seconda tesi attribuisce natura di condizione di procedibilità dell’azione penale, mentre la prima esclude tale natura. Questione che non esaurisce i dubbi interpretativi posti dalla norma per i termini in cui è formulata e che si prospettano soprattutto se si aderisce all’indirizzo interpretativo prevalente.

Per risolvere la questione occorre partire dall’esame della natura e funzioni delle condizioni di procedibilità, così come regolate dal codice di procedura penale, anche se è incontroverso che le stesse possano essere previste anche da leggi speciali, e dei rapporti delle medesime con l’ordinamento costituzionale.

Orbene, è indubbio che le condizioni di procedibilità costituiscono un limite all’obbligo imposto dall’art. 112 della Costituzione al pubblico ministero di esercitare l’azione penale, ovviamente in presenza di una notizia di reato.

Obbligo di esercitare l’azione penale che non si configura, pertanto, come normativamente inderogabile, ma la cui limitazione, che rientra nella discrezionalità del legislatore statale e costituisce eccezione alla opposta e generale regola della azione penale incondizionata (Corte cost., ord. n. 33 del 2003), deve trovare la sua giustificazione nella tutela di prevalenti interessi pubblici, come nelle ipotesi in cui la procedibilità è subordinata alla autorizzazione a procedere (art. 343 cod. proc. pen.), in relazione ai reati richiamati nell’art. 313 cod. pen., che offendono la personalità internazionale o interna dello Stato, ovvero subordinata alla istanza o richiesta di procedimento (artt. 341 e 342 cod. proc. pen.), nelle ipotesi di particolare estensione della giurisdizione penale e di altre eccezionali o, infine, nella necessità di evitare alla persona offesa ulteriori danni (artt. 336 e ss. cod. proc. pen., 120 cod. pen.), che potrebbero derivarle dal procedimento penale, come nell’ipotesi della querela, in relazione a determinate tipologie di reato (violenza sessuale, nei limiti in cui è prevista la perseguibilità a querela, ed altri minori), che coinvolgono esclusivamente la vittima dell’illecito penale, e nei quali la condizione di procedibilità è espressione della esigenza di tutelare i diritti della persona, anche essi di rilevanza costituzionale.

Deve ritenersi, pertanto, costituzionalmente illegittima una deroga legislativa all’immediato esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, nell’ipotesi in cui il reato si sia già perfezionato in tutti i suoi elementi costitutivi, se non giustificata da prevalenti interessi pubblici rispetto a quello dello Stato alla punizione dell’autore dell’illecito (cfr. per un’applicazione di tale principio in materia di reati tributari Corte cost., sent. n. 89 del 1982).

Peraltro, le norme che introducono condizioni di procedibilità dell’azione penale hanno indubbia natura speciale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria, sicché non ne è consentita l’interpretazione analogica e devono essere espressamente ed esplicitamente dichiarate tali dal legislatore.

Orbene, va in primo luogo rilevato che l’art. 2, comma I-ter, d.l. n. 463 del 1983 non subordina affatto l’esercizio dell’azione penale alla contestazione della violazione ovvero alla notifica del relativo accertamento da parte dell’ente previdenziale ed al decorso del termine di tre mesi concesso al datore di lavoro per adempiere.

Al contrario, l’art. 2, comma I-bis, prevede esclusivamente la non punibilità del reato, pertanto già perfezionatosi, per effetto di una condotta successiva in certa misura ripristinatoria del danno subito dall’ente pubblico, che la norma intende favorire, e, quindi, prevede una tipica causa di non punibilità, non dissimile da altre frequentemente previste dal codice penale, destinate ad operare solo sul piano sostanziale (a titolo di esempio: artt. 308; 387, comma secondo; 463 cod. pen.).

Sicché la qualificazione dei citati elementi come condizione di procedibilità dell’azione penale è frutto esclusivo di un’elaborazione interpretativa che trova solo un vago aggancio nel dato normativo (obbligo per l’ente previdenziale di trasmettere senza ritardo la notitia criminis una volta avvenuto il pagamento o decorsi i tre mesi per adempiervi), ma non trova riscontro nella lettera della norma, né giustificazione nella individuazione di un interesse pubblico prevalente rispetto a quello della punizione del colpevole di un reato, che possa giustificare la deroga al principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale stabilito dall’art. 112 della Costituzione.

L’interesse pubblico prevalente sull’esigenza di punire il colpevole del reato non può essere certamente ravvisato in quello economico dell’ente previdenziale ad una definizione amministrativa del contesto o in quello più generale ad una deflazione del contenzioso penale.

Deve essere, pertanto, escluso che la notifica dell’accertamento della violazione ed il decorso del termine di tre mesi costituiscano una condizione di procedibilità del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, ponendosi una tale configurazione in contrasto con la chiara lettera della norma e dovendosi configurare rilevanti dubbi di costituzionalità della norma medesima nella interpretazione che attribuisce ad essi tale natura.

9. Conclusivamente si deve affermare sul punto che l’art. 2, comma I-bis, secondo periodo, legge n. 638 del 1983, introdotto dall’art. 1 d.lgs. n. 211 del 1994, ha modificato i termini e le modalità di operatività della causa di non punibilità già prevista dalla normativa previgente, introducendo, prima dell’invio della notitia criminis, un meccanismo, costituito dalla contestazione o notifica dell’accertamento della violazione, finalizzato ad agevolare la definizione del contenzioso in sede amministrativa, nel termine all’uopo concesso al datore di lavoro, senza introdurre una condizione di procedibilità del reato.

A ben vedere il comma I-ter del citato art. 2, secondo il quale “la denuncia di reato è presentata o trasmessa senza ritardo dopo il versamento di cui al comma I-bis ovvero decorso inutilmente il termine ivi previsto” costituisce solo una deroga all’obbligo di riferire, “senza ritardo” – peraltro il termine è ripetuto nello stesso comma I-ter – la notizia di reato al pubblico ministero, imposto alla polizia giudiziaria dall’art. 347 cod. proc. pen. e, in generale, al pubblico ufficiale dall’art. 331, comma 2, cod. proc. pen., posponendone l’adempimento.

Sicché non vi è ragione di dubitare che il pubblico ministero eserciti ritualmente l’azione penale per il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali anche se non si sia perfezionato il procedimento per la definizione del contesto in sede amministrativa, così come esercita l’azione penale per i fatti costituenti reato di cui sia venuto a conoscenza aliunde rispetto ai meccanismi di informazione previsti dai citati art. 347 e 331 cod. proc. pen..

10. Sgomberato il campo dall’esaminato profilo della questione di diritto, che si prospettava pregiudiziale, resta intatta la problematica posta dal sistema normativo, per come formulato, in relazione a disfunzioni patologiche del procedimento per la definizione del contenzioso in sede amministrativa, peraltro particolarmente frequenti.

Sul punto occorre rilevare che, secondo l’indirizzo interpretativo di questa Corte, non contrastato da pronunce di segno opposto, la notifica dell’accertamento della violazione non è soggetta a particolari formalità, non applicandosi a detta notifica il regime delle notificazioni previsto per i soli illeciti di natura amministrativa dalla legge n. 689 del 24 novembre 1981, né quello delle notificazioni previsto dal codice di procedura penale, e può essere, pertanto, anche effettuata a mezzo del servizio postale mediante raccomandata inviata sia presso il domicilio del datore di lavoro che presso la sede dell’azienda (Sez. 3, n. 9518 del 22/02/2005, Jochner; Sez. 3, n. 20753 del 13/01/2006, Agostani; Sez. 3, n. 26054 del 14/02/2007, Vincis).

Deriva da tale sistema di notificazione che le contestazioni più frequenti, aventi ad oggetto la omessa notifica dell’accertamento della violazione, riguardano proprio la regolarità della notificazione stessa e la conseguente mancata ricezione dell’avviso di accertamento da parte del destinatario.

Si verificano, pertanto, con una certa frequenza, anomalie nel rapporto tra instaurazione del procedimento penale e tentativo di definizione amministrativa del contenzioso tra il datore di lavoro e l’ente previdenziale rispetto allo schema normativo, nel senso che l’azione penale viene esercitata, benché l’imputato non sia stato messo in condizione di usufruire della causa di non punibilità prevista dalla legge.

In altre materie, in cui è previsto un procedimento amministrativo finalizzato a consentire la regolarizzazione della violazione in quella sede con effetto estintivo del reato, è espressamente stabilita la sospensione del procedimento penale (art. 23, comma 1, d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758) fino alla verifica dell’adempimento o inadempimento in sede amministrativa (art. 21, commi 2 e 3, dello stesso decreto legislativo).

In altre ancora, in cui è pure prevista la possibilità di definizione del contesto in sede amministrativa con effetto estintivo del reato, la necessità di sospendere il procedimento penale (Sez. 3, n. 5254 del 05/03/1979, Zadro; Sez. 3, n. 12823 del 20/10/1980, Garetti; Sez. 3, n. 3853 del 18/01/1980, De Luca; Sez. 3, n. 2281 del 19/12/1981, dep. 1982, Mastrogiacomo) è stata desunta dall’obbligo imposto all’autorità giudiziaria di inviare alla competente intendenza di finanza gli atti per l’eventuale conciliazione amministrativa (art. 11, terzo comma, legge 3 gennaio 1951, n. 27, contenente modificazioni alla legge 17 luglio 1942, n. 907 sul monopolio dei Sali e dei Tabacchi).

L’art. 2, comma I-ter, d.l. n. 463 del 1983, nel regolare i rapporti tra l’esercizio della facoltà, attribuita al datore di lavoro, di fruire della causa di non punibilità prevista dal comma I-bis, ultima parte, ed il procedimento penale, ovvero al fine di impedire l’esercizio dell’azione penale in presenza di una causa di non punibilità, ha esclusivamente previsto, autorizzandola, la posticipazione dell’invio della denuncia di reato al pubblico ministero al versamento delle ritenute non corrisposte da parte del datore di lavoro o alla scadenza del termine per provvedervi.

Nulla è, invece, previsto dalla norma con riferimento all’ipotesi in cui l’esercizio dell’azione penale sia avvenuto prima che l’imputato sia stato messo in condizioni di fruire della causa di non punibilità o per l’omessa contestazione e notificazione dell’accertamento delle violazioni o per irregolarità della notificazione dell’accertamento.

Questa carenza del quadro normativo nell’ipotesi di patologie nel funzionamento del sistema previsto dalla legge riguardo al rapporto tra il possibile verificarsi della causa di non punibilità e la trasmissione della notizia di reato è all’origine del contrasto interpretativo rilevato tra le varie pronunce di questa Corte che può essere risolto solo mediante l’applicazione di principi di carattere generale.

Deve essere, quindi, affermato che la possibilità concessa al datore di lavoro di evitare l’applicazione della sanzione penale mediante il versamento delle ritenute entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’accertamento delle violazioni è connessa all’adempimento dell’obbligo, secondo la formulazione dell’art. 2, comma I-bis, da parte dell’ente previdenziale di rendere noto, nelle forme previste dalla norma, al datore di lavoro l’accertamento delle violazioni, nonché le modalità e termini per eliminare il contenzioso in sede penale, a differenza di quanto previsto dal quadro normativo previgente alla riforma di cui al d.lgs. 24 marzo 1994, n. 211, che attribuiva al datore di lavoro la mera facoltà di provvedere a detto versamento entro sei mesi dalla scadenza del termine per l’adempimento senza collegarlo ad un obbligo di contestazione o comunicazione da parte dell’ente previdenziale.

L’esercizio della facoltà di fruire della causa di non punibilità, pertanto, può essere precluso solo dalla scadenza del termine di tre mesi previsto dall’art. 2, comma I-bis, ultimo periodo, a decorrere dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento delle violazioni ovvero da un atto ad esso equipollente che ne contenga tutte le informazioni sì che l’accesso alla causa di non punibilità risulti concretamente assicurato.

Incombe, perciò, in primo luogo sull’ente previdenziale l’obbligo di assicurare la regolarità della contestazione o della notifica dell’accertamento delle violazioni e attendere il decorso del termine di tre mesi, in caso di inadempimento, prima di trasmettere la notizia di reato al pubblico ministero.

Sarà, poi, compito dello stesso pubblico ministero verificare che l’indagato sia stato posto concretamente in condizione di esercitare la facoltà di fruire della causa di non punibilità, notiziando, nel caso di esito negativo di detta verifica, l’ente previdenziale perché adempia all’obbligo di contestazione o di notifica dell’accertamento delle violazioni imposto dall’art. 2, comma I-bis, d.l. n. 463 del 1983.

Analogamente, il giudice di entrambi i gradi di merito dovrà provvedere alla verifica che l’imputato sia stato posto in condizione di fruire della causa di non punibilità, accogliendo, in caso di esito negativo, l’eventuale richiesta di rinvio formulata dall’imputato, finalizzata a consentigli di provvedere al versamento delle ritenute, tenuto conto che la legge già prevede la sospensione del decorso della prescrizione per il periodo di tre mesi concesso al datore di lavoro per il versamento, sicché tale sospensione giustifica il rinvio del dibattimento anche in assenza di una espressa previsione normativa.

Per dare concretezza ed effettività all’esercizio della facoltà da parte dell’imputato di effettuare il versamento delle ritenute all’ente previdenziale si deve rilevare che l’avviso dell’accertamento inviato dall’ente al datore di lavoro contiene l’indicazione del periodo cui si riferisce l’omesso versamento delle ritenute ed il relativo importo, la indicazione della sede dell’ente presso il quale deve essere effettuato il versamento entro il termine di tre mesi all’uopo concesso dalla legge e l’avviso che il pagamento consente di fruire della causa di non punibilità.

Per avere la certezza, quindi, che l’imputato sia stato posto in grado di fruire della causa di non punibilità il giudice di merito, così come prima di lui il pubblico ministero, dovranno verificare, nel caso di omessa notifica dell’accertamento, se l’imputato sia stato raggiunto in sede giudiziaria da un atto di contenuto equipollente all’avviso dell’ente previdenziale che gli abbia consentito, sul piano sostanziale, di esercitare la facoltà concessagli dalla legge.

11. Al quesito posto alle Sezioni Unite, avente ad oggetto la possibile equivalenza del decreto di citazione a giudizio alla notifica dell’avviso di accertamento delle violazioni, pertanto, deve essere data risposta nel senso che “il decreto di citazione a giudizio è equivalente alla notifica dell’avviso di accertamento solo se, al pari di qualsiasi altro atto processuale indirizzato all’imputato, contiene gli elementi essenziali del predetto avviso”.

Consegue da quanto rilevato che deve essere ritenuto tempestivo, ai fini del verificarsi della causa di non punibilità, il versamento delle ritenute previdenziali effettuato dall’imputato nel corso del giudizio, allorché risulti che lo stesso non ha ricevuto dall’ente previdenziale la contestazione o la notifica dell’accertamento delle violazioni o non sia stato raggiunto nel corso del procedimento penale da un atto che contenga gli elementi essenziali dell’avviso di accertamento, come precisati.

Se, poi, il procedimento sia pervenuto in sede di legittimità, senza che l’imputato sia stato posto in grado di fruire della causa di non punibilità, deve essere disposto l’annullamento con rinvio della sentenza per consentirgli di fruire della facoltà concessa dalla legge.

12. Nel caso in esame è stato accertato dai giudici di merito che non vi è stata la contestazione delle violazioni da parte dell’INPS per irritualità della notifica dell’avviso di accertamento.

Il decreto di citazione a giudizio emesso nei confronti di S.S. inoltre contiene la indicazione solo parziale degli elementi propri dell’avviso di accertamento e, cioè, quelli riferentisi al periodo di omesso versamento delle somme trattenute sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti, che, però, non risultano quantificate, mentre non era stato dato avviso all’imputata della possibilità di fruire della causa di non punibilità prevista dalla legge.

Consegue da quanto rilevato che nei confronti dell’imputata non è mai decorso il termine di decadenza previsto dall’art. 2, comma I-bis, d.l. n. 463 del 1983 e, pertanto, il versamento delle ritenute effettuato dalla S. in data 24 settembre 2008, di cui era stata prodotta prova all’udienza del 3 novembre 2010 dinanzi alla Corte territoriale, doveva essere ritenuto tempestivo dai giudici di merito, che avrebbero dovuto rilevare e dichiarare l’esistenza della causa di non punibilità alla data del versamento, che ha preceduto l’intervento di qualsiasi successiva causa di non punibilità.

La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata senza rinvio per essere l’imputata non punibile ai sensi dell’art. 2, comma I-bis, d.l. n. 463 del 1983.

L’accoglimento del primo motivo di ricorso rende superfluo l’esame degli ulteriori motivi.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata essendo l’imputata non punibile ai sensi dell’art. 2, comma I-bis, del d.l. n. 463 del 1983

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