La mancata applicazione del generale principio del favor rei in materia di terre e rocce da scavo alla luce delle recenti modifiche apportate al T.U.A. Cass., Sez. III, 28 febbraio 2013, n. 12295 (Petracca-‘Cardinale)

 

LA MANCATA APPLICAZIONE DEL GENERALE PRINCIPIO DEL FAVOR REI IN MATERIA DI TERRE E ROCCE DA SCAVO ALLA LUCE DELLE RECENTI MODIFICHE APPORTATE AL T.U.A.

Cassazione Penale, Sez. III, 28 febbraio 2013, n. 12295

 

Attività di gestione di rifiuti non autorizzata – Terre e rocce da scavo- Sottoprodotto- Successione di leggi penali nel tempo – Diritto transitorio.

 

Nella contemporanea vigenza della vecchia e della nuova normativa in tema di movimentazione delle terre e rocce da scavo, non può invocarsi il generale principio del favor rei (operatività della norma più favorevole nei confronti di colui che ha commesso il fatto), dovendosi necessariamente applicare la disciplina prevista dall’art. 186 D.lgs. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente o T.U.A.), la cui annunciata abrogazione, ad opera del D. lgs  205/2010, ne ha determinato lo status di norma temporanea durante il periodo di sua provvisoria vigenza.

 

 

Mauro Petracca ( Praticante Avvocato) –Ignazio Cardinale ( Praticante Avvocato)

 

1. Il caso. -2. Le affermazioni della Cassazione. -3. Rilievi critici. – 4. Conclusioni.

 

1. Il caso

Il caso esaminato dalla Suprema Corte concerne l’attività di cessione e raccolta, in assenza delle necessarie autorizzazioni, iscrizioni e comunicazioni di legge, di una quantità di circa due tonnellate e mezzo di terre e rocce da scavo.

Il Tribunale di primo grado condannava gli imputati B.V e S.G, ai sensi degli artt. 81 c.p. e 256, comma 1, lett a), T.U.A., al pagamento di un’ammenda di Euro 22.000,00 ciascuno, ritenendo applicabile nei loro confronti la disciplina sui rifiuti speciali non pericolosi, prevista dall’art. 186, T.U.A. e non già quella sui sottoprodotti di cui agli artt. 184-bis e 185, comma 4, così come risultanti dalle modifiche introdotte dal D.lgs. 205/2010[1].

Veniva, quindi, proposta impugnazione avverso la sentenza di condanna mediante ricorso in Cassazione, nel quale i ricorrenti, tra l’altro, insistevano nella ritenuta mancata applicazione in loro in favore della disciplina risultante dal combinato disposto degli artt. 184-bis e 185, comma 4, T.U.A.

 

2. Le affermazioni della Cassazione

Prima di addentrarci nelle motivazioni che hanno portato la Suprema Corte ad emettere una pronuncia del tenore di quella in commento, è opportuno accennare brevemente all’evoluzione della normativa in tema gestione di materiale da scavo.

Tale disciplina – contenuta interamente nel T.U.A. – ha subito diversi interventi normativi negli ultimi tre anni.

Nella versione originaria del suindicato decreto, essa era racchiusa nell’art. 186, la cui rubrica era intitolata appunto “Terre e rocce da scavo”.

Il suddetto articolo, nella parte che qui interessa, prevedeva che le terre e le rocce da scavo, a determinate condizioni indicate nel primo comma (es. garanzia di un elevato livello di tutela ambientale, preventiva individuazione delle opere nelle quali esse sarebbero state reimpiegate, non contaminazione dei siti dai quali le rocce o le terre provenivano), potevano essere utilizzate per diverse funzioni (reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati) ed essere escluse dall’assoggettamento alla disciplina sui rifiuti, contenuta nella parte quarta del Codice dell’Ambiente.

Tuttavia, in caso di progetti sottoposti a valutazione di impatto ambientale (VIA), autorizzazione ambientale integrata (AIA), denuncia di inizio attività (DIA) o permesso di costruire, la sussistenza dei requisiti suddetti doveva risultare da un apposito progetto approvato all’interno del relativo procedimento.

Nel caso in cui, invece, la produzione di terre e rocce da scavo fosse avvenuta nel corso di lavori  non soggetti ad alcuna delle precedenti autorizzazioni, l’esistenza dei requisiti di cui al comma primo doveva evincersi da idoneo allegato al progetto dell’opera, sottoscritto dal progettista.

Ciò detto, qualora queste condizioni non fossero state rispettate, si sarebbe dovuta applicare, anche al materiale scavato, la disciplina propria dei rifiuti.

Tale impianto normativo è stato poi modificato dal D. Lgs N. 205/2010, che ha introdotto tre importanti innovazioni all’interno del Codice dell’ambiente.

La prima di esse è rappresentata dall’introduzione dell’art. 184 bis, che fissa le condizioni da soddisfare affinché “una sostanza o un oggetto” possano essere considerati come sottoprodotto e non come rifiuto (art. 12, D. Lgs N. 205/2010).

La seconda è data dalla modifica dell’art 185, comma 4, che, nel nuovo testo, prevede che il suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale, utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati scavati, devono essere valutati ai sensi degli artt.183, comma 1, lett. A), 184 bis e 184 ter, al fine di stabilire se essi debbano rimanere assoggettati alla disciplina in materia di rifiuti o, viceversa, essere sottoposti a quella propria dei sottoprodotti (art. 13, comma 4, D. Lgs N. 205/2010).

La terza, infine, prevista dallo stesso art. 184 bis, secondo comma, consistente nella programmata abrogazione dell’art.186, in seguito all’emanazione di un successivo Decreto Ministeriale di attuazione che individuasse i criteri qualitativi e quantitativi per il riconoscimento della qualifica di sottoprodotto (art. 39, comma 4, D. Lgs. N. 205/2010, così come modificato dall’art 49, comma 1-ter, L. 24 marzo 2012, N. 27).

Tale Decreto è stato emanato dal Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare il 10 agosto 2012, N. 161 ed è entrato in vigore il 06 ottobre 2012. Da ciò ne è derivato che, fino a tale ultima data, si è verificata una contemporanea vigenza di due discipline: quella antecedente al D.Lgs 205/2010, prevista dall’art. 186 e quella successiva alla sua emanazione ricavabile dal combinato disposto degli artt. 185, comma 4, e art. 184 bis.

Quanto fin qui premesso appare indispensabile ad assicurare una migliore comprensione del ragionamento svolto dalla Suprema Corte nel caso che ci occupa.

La Corte Cassazione ha condiviso la tesi accusatoria, accolta dal Giudice di prime cure, che ha portato alla condanna degli imputati per il reato di cui agli artt. 81 c.p. e 256, comma 1, lett. A), T.U.A., sul presupposto della sussistenza della responsabilità penale derivante dalla violazione delle prescrizioni contenute nell’art. 186 e considerando non adempiute le necessarie formalità (autorizzazioni e comunicazioni di legge) da esso richieste.

Sul punto, i Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che, nonostante vi fosse una contemporanea vigenza di due diverse normative e nonostante quella più recente (artt. 184 bis e 185, comma 4) fosse maggiormente favorevole per gli imputati rispetto a quella più risalente (art. 186), la disciplina da applicare doveva necessariamente essere la prima, sulla scorta delle motivazioni svolte[2].

Tali motivazioni evidenziano come il vecchio impianto normativo fosse venuto ad assumere, nel tempo di sua “provvisoria vigenza” (fino al D.M. 161/2012), la natura di norma temporanea e per tale motivo sottratta al regime di retroattività della norma più favorevole al reo prevista dall’art. 2, comma 4, c.p.

È stato rilevato, infatti, che lo stesso art. 2, comma 5, c.p. prevede la non applicabilità delle regole in materia di successioni delle leggi penali nel tempo in presenza di norme aventi natura eccezionale o temporanea.[3]

Da qui, dunque, l’applicabilità della disciplina previgente in materia di terre e rocce da scavo a fatti commessi in ogni caso durante la sua vigenza, a prescindere dalla intervenuta abrogazione della disciplina medesima.

 

3. Rilievi critici.

La sentenza in commento ha ribadito quanto precedentemente espresso dalla stessa Suprema Corte con la pronuncia N. 3357 del 04 luglio 2012, nella quale veniva sottolineato come l’art. 186, per effetto dell’art. 39 del D. lgs. 205/2010, ha assunto la natura di “norma temporanea” con la conseguente inapplicabilità della retroattività della norma penale più favorevole.

Orbene, diverse possono essere le osservazioni da muovere alla conclusione cui è giunto il Giudice di Legittimità.

a) In primo luogo, tale lettura non appare condivisibile in virtù della nozione giuridica di norma temporanea, largamente condivisa da dottrina e giurisprudenza, secondo cui è da considerarsi tale quella disposizione per la quale viene stabilito, sin dalla sua entrata in vigore, un termine di durata oltre il quale essa viene a perdere efficacia senza la necessaria promulgazione di una nuova disposizione con effetti abrogativi[4].

Viceversa, dalla motivazione della stessa Corte si può evincere chiaramente come l’art.186 è venuto ad assumere tale qualifica non già dalla sua nascita, ma solo a partire dall’emanazione del già citato D.lgs. 205/2010.

Ciò appare chiaramente in contrasto con i principi generali del nostro ordinamento giuridico, secondo i quali non sono ammesse ipotesi di temporaneità successiva, ossia non indicata “ab origine”.

b) Un’ulteriore motivazione, per cui non sembrano condivisibili le conclusioni cui è giunto il Supremo Consesso, può rintracciarsi nel fatto che il più volte citato art.186 non può assumere la qualifica di norma temporanea o eccezionale, ma al contrario deve considerarsi  norma ordinaria. 

E ciò poiché la sua abrogazione differita era stata dettata dalla sola esigenza di evitare la creazione di un vuoto normativo, dovuto alla mancata indicazione dei criteri quantitativi e qualitativi da soddisfare per l’individuazione della categoria del c.d sottoprodotto, scongiurando, così, eventuali “riflessi negativi nel settore edilizio e dei lavori pubblici”. Criteri questi che, come già anticipato, sono stati poi specificati con l’entrata in vigore del D.M. 161/2012.

c) Un terzo rilievo alla presunta valenza temporanea dell’art 186 cit. può essere mosso  analizzando quanto statuito dall’art 15 del D.M. 161/2012.

Tale articolo, rubricato “Disposizioni finali e transitorie”, statuisce che“… entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente regolamento, i progetti per i quali e’ in corso una procedura ai sensi e per gli effetti dell’articolo 186, del decreto legislativo n. 152 del 2006, possono essere assoggettati alla disciplina prevista dal presente regolamento con la presentazione di un Piano di Utilizzo ai sensi e per gli effetti dell’articolo 5. Decorso il predetto termine senza che sia stato presentato un Piano di Utilizzo ai sensi dell’articolo 5, i progetti sono portati a termine secondo la procedura prevista dall’articolo 186 del decreto legislativo n. 152 del 2006 …”. 

Da ciò si evince che la volontà del Legislatore non era quella incidere sul disvalore penale di taluni comportamenti posti in essere durante la contemporanea vigenza delle due normative, bensì quello di evitare quel vuoto normativo sopra accennato, che avrebbe influito negativamente sulla certezza del diritto. 

A conferma di ciò può ben utilizzarsi l’argomentazione logico-giuridica fondata sul dato letterale della norma sopra richiamata che, nel prevedere la possibilità di far scegliere ai soggetti interessati la disciplina da osservare in caso di progetti già in corso, testimonia l’intenzione del Legislatore di non volere influire in maniera sostanziale sulla disciplina specifica per i fatti commessi durante l’intervallo di tempo fissato dall’art. 39 D. lgs 205/2010.[5]

d) Infine, una quarta critica all’autorevole giurisprudenza in commento può essere mossa alla luce delle disposizioni in tema di successione di norme penali nel tempo.

Ebbene, il D.M. cit. – fonte normativa extra-penale integratrice delle fattispecie incriminatrici contemplate dal T.U.A in materia di rifiuti – ha rivisitato l’intera disciplina in materia di terre e rocce da scavo, riducendo la ampiezza del novero di ipotesi rientranti nella categoria “terre – rifiuto” e contestualmente ampliando quella di “terre- sottoprodotto”, rendendo in sostanza più favorevole la disciplina per tutti coloro che avessero posto in essere condotte afferenti tale materia, successivamente al 06 ottobre 2012.

Pertanto, avendo siffatto intervento inciso sulle norme sostanziali in tema di gestione di materiale da scavo, fissando i criteri qualitativi da soddisfare affinché gli stessi rientrassero nel novero dei sottoprodotti, si è verificata un’integrazione delle disposizioni incriminatrici in materia, che in tal modo ha dato luogo ad un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo[6].

A maggiore conferma di quanto appena detto, si riporta una consolidata giurisprudenza secondo la quale “una nuova legge extrapenale può avere di regola un effetto retroattivo solo se integra la fattispecie penale, venendo a partecipare della sua natura e sostituendo la parte della disposizione penale che la richiama, come nel caso delle norme definitorie” (Cass. Sez II, N. 4296/ 2003)[7].

In altri termini, poiché l’intervento programmato ad opera del D.M. cit. ha influenzato l’intera disciplina, introducendo norme più favorevoli al reo, potrà trovare applicazione il principio di retroattività della legge penale più favorevole, di cui al comma 4 dell’art 2 c.p.

 

4. Conclusioni

Alla luce di quanto premesso, è possibile concludere affermando che la Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha continuato ad assumere un atteggiamento fin troppo rigoroso nei confronti delle attività afferenti la gestione di materiali da scavo.

Ciò emerge dalla scelta di non permettere agli imputati di usufruire della nuova normativa, ad essi più favorevole, individuata dal combinato disposto degli artt. 184 bis e 185, comma 4, T.U.A, adducendo, come motivazione, la presunta e non dimostrata “natura temporanea” dell’art.186, così sottraendo quest’ultima disposizione alle regole generali in materia di retroattività della norma più favorevole al reo (art.2, comma, 5 c.p.).

Sebbene tale scelta possa sembrare giustificata prima facie dalla necessità, sempre più avvertita, di garantire la massima tutela nei confronti delle tematiche ambientali, sotto un diverso profilo può, tuttavia, rilevarsi come la Corte di Cassazione abbia inopinatamente derogato, con tale intervento, ad un principio generale quale quello del favor rei.

Peraltro, la contemporanea vigenza delle due normative già ampiamente illustrate, avrebbe dato la possibilità alla Suprema Corte di invertire le decisioni del Giudice di prime cure, mostrando così un atteggiamento più mite e rispettoso del principio generale posto a tutela del diritto di difesa degli imputati, ex art. 27 Cost.

 

 

 

 

 

 


[1] Sulla distinzione tra rifiuto e sottoprodotto v. G. GIAMPIETRO, La nuova gestione dei rifiuti, Cap. II, pag.19 e ss. ove viene rassegnata analiticamente l’evoluzione della giurisprudenza comunitaria sulla nozione di “rifiuto e non rifiuto” e sulla categoria espansiva di “sottoprodotto”, pag. 21 e ss.

[2] Sulla natura più favorevole della nuova disciplina per le terre e rocce, la dottrina è unanime (v. tra gli altri, P. FIMIANI, L. BUTTI; L. RAMACCI, F. PERES, P. GIAMPIETRO) In argomento, v. anche C. PARODI, Rifiuti e sottoprodotti: un chiarimento definitivo? in Ambiente e sicurezza, n. 10/2011, pag. 92.

[3] Si riporta il contenuto dell’art 2, commi, 4 e 5, c.p. :

– Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

[4] Cfr. sul punto G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto Penale, Bologna, 2010, p.85; nello stesso senso G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Manuale di Diritto Penale, 2012, p.117; S. VINCIGUERRA, Diritto Penale,1999, p. 352;

[5] P. GIAMPIETRO, Il nuovo statuto delle terre e rocce da scavo, par. 5.5, Il regime transitorio dell’art. 15 del Regolamento, pubblicato in www.altalex.it, rivista giuridica online, http://www.altalex.com/index.php?idnot=60337

[6] In tema di successione di norme extra-penali v. G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, Bologna, 2007, p.97 e ss; L. GATTA, Abolitio criminis e successione di norme integratrici, Milano, 2008 p.10 e ss.; D. MICHELETTI, Legge penale e successione di norme integratrici, Torino, 2006, p.17 e ss. e p. 368 e ss.; G. FIANDACA, in G. FIANDACA-G. DI CHIARA, una introduzione al sistema penale, p. 98.

[7] Sul punto vedasi la pronuncia della Corte Cass., Sez. II, n. 4296/2003 che affronta il tema della successione di norme extra-penali richiamate espressamente ad integrazione della fattispecie incriminatrice: “.. Sennonché, l’individuazione della disciplina applicabile nei casi di successione di norme siffatte, così dette integratrici della legge penale, ha dato luogo a contrasti ed è in particolare controverso se e quando sia applicabile in tali ipotesi il principio della retroattività della legge più favorevole all’imputato, non ponendo alcun dubbio che l’introduzione di una norma “integratrice” di qualsivoglia tipo non possa retroattivamente rendere penalmente rilevante un fatto altrimenti irrilevante oppure modificarne la disciplina in senso sfavorevole al reo. (…) La disciplina prevista dall’art. 2, commi 2 e 3 c.p. de[ve] trovare applicazione in alcuni sia pure limitati casi in cui venga modificata non la disposizione della legge penale, ma quella così detta integratrice; ciò però a condizione che la modifica della legge richiamata incida sulla struttura della norma incriminatrice ossia sul giudizio di disvalore in essa espresso. Così, in adesione a tale tesi, si verifica successione di leggi penali ai sensi dell’art. 2 c.p. in occasione della modifica o della abrogazione della norma richiamata da una così detta norma penale in bianco, che rinvia ad altra norma per l’individuazione in tutto o in parte del precetto; ovvero nell’ipotesi che venga modificata una norma così detta definitoria, cioè una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo ad individuare il contenuto del precetto penale; e si ha pure un fenomeno di integrazione della norma penale – rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 2 c.p. – allorquando una disposizione legislativa commini una sanzione penale per la violazione di un precetto contenuto in un’altra disposizione legislativa, che venga in tutto o in parte abrogata.”

 

 

 

 

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