Diagnosi differenziale tra delitto di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni alla luce di una recente (ed evolutiva) sentenza della suprema corte di cassazione (A.Continiello)

DIAGNOSI DIFFERENZIALE TRA DELITTO DI ESTORSIONE ED ESERCIZIO ARBITRARIO DELLE PROPRIE RAGIONI ALLA LUCE DI UNA RECENTE (ED EVOLUTIVA) SENTENZA DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

Alessandro Continiello

 

Ritengo sia necessario analizzare una attuale pronuncia (n. 51433, ud. 04/12/2013, dep. del 19.12.2013, sez. II penale, Pres. Petti, Rel. Rago) in quanto, la stessa, è  mera espressione della tipica funzione c.d. nomofilattica della Cassazione che si articola, com’è noto, da un lato nel garantire l’attuazione della legge nel caso concreto, realizzando il profilo giurisdizionale in senso stretto, dall’altro fornendo indirizzi interpretativi “uniformi” per mantenere, nei limiti del possibile, l’unità dell’ordinamento giuridico attraverso una sostanziale uniformità della giurisprudenza.

La pronuncia che si analizzerà nel prosieguo, richiamandone alcuni passaggi, mette in luce il discrimen tra le due fattispecie di reato, ponendo una pietra miliare (interpretativa).

È bene, però, dare uno sguardo prodromico alle due condotte contra legem in esame.

Il delitto di cui all’art. 629 cod. pen. (estorsione) punisce “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”.

Il soggetto attivo può essere, come visto, “chiunque”.

Essendo il reato plurioffensivo, se i due interessi lesi (quello patrimoniale e quello personale, ossia la libertà morale) fanno capo a soggetti diversi, potrà anche esserci una duplicazione di soggetti passivi.

L’oggetto della tutela giuridica è, quindi, costituito “dal duplice interesse pubblico della inviolabilità del patrimonio e della libertà personale: pertanto è del tutto irrilevante che il patrimonio della vittima sia composto anche da proventi di attività vietate” (cfr. Cass., sez. III, 12-07-2007, n. 27257).

Quanto alla condotta attiva, volta a coartare la vittima (con violenza o solo minaccia), la valutazione giudiziaria va effettuata con un giudizio ex ante, a nulla rilevando che, in concreto, il soggetto passivo non sia stato intimidito.

Per “violenza” è da intendere una energia fisica contro il soggetto passivo (o sulle cose, ex art. 392) per comprimere od annullare del tutto la libertà di autodeterminazione od azione di quest’ultimo.

Per “minaccia”, viceversa, trattasi di un qualsiasi mezzo o comportamento idoneo ad incutere timore, risultando indifferente la forma od il modo in cui essa viene estrinsecata (manifesta od implicita ; diretta od indiretta; per interposta persona) che “sia tale da far sorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio”.

Ovviamente non basta l’esercizio di una generica pressione alla persuasione o la formulazione di proposte esose od ingiustificate, “ma occorre che l’agente si avvalga di modalità coercitive tali, da forzare la controparte a scelte in qualche modo obbligate” (cfr. Cass., sez. II, 14-12-2000, n. 13043).

Il risultato della condotta è rappresentato da un atto di disposizione patrimoniale di qualsiasi tipo e relativo a qualunque bene o diritto (vedasi “Codice Penale operativo”).

L’ingiustizia del “profitto” s’individua in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico che l’autore intende conseguire e che non si collega ad un diritto; ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale, ma avente uno scopo tipico diverso (vedasi, sul punto, Cass., sez. II, 22-04-2008, n. 16658).

Si integra il requisito dell’ingiusto profitto, allorchè “sia fondato su una pretesa non tutelata dall’ordinamento giuridico né in via diretta – quando, cioè, si riconosce al suo titolare il potere di farla valere in giudizio – né in via indiretta – quando, pur negandosi il potere di agire, si accordi il diritto di ritenere quanto spontaneamente sia stato adempiuto, come nel caso delle obbligazioni naturali menzionate nell’art. 2034 cod. civ….” (cfr. Cass., sez. VI, 23-02-1991, n. 2460).

Quanto al concetto di danno, esso dev’essere inteso in senso strettamente patrimoniale, comprensivo però anche della rinuncia coartata ad un’azione giudiziaria (cfr. Cass., sez. II, 08-09-200,8 n. 34900).

Il dolo, nel delitto in esame, è considerato generico (vedasi Antolisei) checchè, secondo altri Autori, sarebbe specifico.

Il tentativo è configurabile.

Il reato, ex art. 393 cod. pen. (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone) punisce “chiunque (al fine di esercitare un preteso diritto, ex art. 392 c.p.) e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sè medesimo, usando violenza o minaccia alle persone..” (o ”sulle cose” – art. 392 c.p.).

La norma in questione è rivolta a tutelare l’interesse dello Stato ed impedire che la privata violenza, sulle persone o sulle cose, si sostituisca all’esercizio della funzione giurisdizionale, in occasione dell’insorgere di una controversia tra privati.

La dottrina e la giurisprudenza sembrano ravvisare nella fattispecie in esame un implicito presupposto che restringerebbe la soggettività del reato: ossia l’esistenza di un “preteso diritto” la cui affermazione è possibile attraverso il “ricorso all’Autorità giudiziaria”. Di conseguenza, autore del reato sarebbe “solo colui che possa vantare tale situazione ovvero colui che si limiti ad esercitare un preteso diritto altrui, come il negotorium gestor” (cfr. Cass. sez. VI, 16-03-2001).

Il dolo è, secondo dottrina prevalente, specifico. Il convincimento di un preteso diritto, non va però confuso con la buona fede dell’agente che, lungi dall’essere inconciliabile con il dolo, costituisce un presupposto necessario (cfr. Cass., sez. VI, 23-11-2010, n. 41368).

Come palesemente rilevabile, le due condotte in esame sono molto simili seppur, sotto un profilo penale e processuale, com’è noto, il reato di estorsione è assai più grave, non solo quanto alla pena edittale astrattamente irrogabile, ma anche rispetto ai risvolti processuali ante giudizio (misure cautelari) e nella fase esecutiva (art. 629: procedibilità d’ufficio; arresto obbligatorio e fermo consentito; vs art. 393: procedibile a querela; arresto non consentito e citazione diretta a giudizio).

La sentenza che si andrà ora ad analizzare, ha affermato che i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identica, ma per l’elemento intenzionale che, qualunque sia stato il livello di intensità o gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto quando abbia di mira l’attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all’Autorità giudiziaria.

Ebbene il suindicato “dispositivo” tende a specificare che – stante la legittima pretesa tutelabile davanti alla A.G. – per valutare il discrimen tra i due reati non ci si debba soffermare sull’intensità o gravità della minaccia (quantomeno non solo).

Il caso sottoposto alla S.C., ex art. 311 c.p.p., riguardava un soggetto indagato del reato di estorsione a cui era stata applicata dal G.I.P. – su richiesta del P.M. – la misura della custodia cautelare in carcere perché “…con violenza e minaccia, consistite nel cospargere di benzina un’autovettura di proprietà di…e nel fargli trovare vicino una bottiglia contenente liquido infiammabile,costringeva quest’ultimo a pargargli delle spettanze lavorative arretrate ed a sottoscrivere un verbale con i sindacati per la concessione della cassa integrazione…”.

Elemento prodromico di valutazione, così come compiuto dal Tribunale del Riesame, consisteva nell’accertamento che la pretesa dell’indagato fosse legittima (tant’è che, effettivamente, dopo l’atto intimidatorio, l’agente fu rassicurato dalla p.o.“circa la spettanza del credito e la concreta prospettiva di recuperarlo”).

Contestualmente all’accoglimento, quanto alla richiesta subordinata in ordine alla sostituzione della misura intramuraria con quella meno afflittiva degli arresti domiciliari, il Tribunale ha però ritenuto fondata l’originaria ipotesi accusatoria (di estorsione e non esercizio arbitrario, come richiesto dalla difesa) probabilmente sulla base di quella radicata giurisprudenza secondo cui: “Integra il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario, la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell’altrui volontà assume, ex se, i caratteri dell’ingiustizia trasformandosi in condotta estorsiva (Cass. 6556/2012)”.

In base a tale interpretazione, risulterebbe, in un certo senso irrilevante, l’accertamento e la dimostrazione di un preteso e legittimo diritto, stante la presenza di una condotta posta in essere dall’agente così intimidatoria (rectius: intensità della violenza e minaccia) da trascendere comunque nella forma più grave del delitto di estorsione.

Scrivono, in sentenza, i Giudici di Cassazione: “La questione che, quindi, pone il presente procedimento, può essere enunciata nei seguenti termini: “Se e in che limiti la gravità della minaccia o della violenza, posta in essere da chi faccia valere una legittima pretesa deducibile davanti al giudice, costituisca elemento del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni…”, iniziando, il loro percorso logico, attraverso un interessante excursus storico della fattispecie di cui all’art. 393 cod. pen. (vedasi art.146 Cod. Toscano; art. 116 Reg. Stato Pontificio; art. 168 Cod. delle Due Sicilie, sino a giungere al Codice penale del 1930).

E così proseguendo: “Gli elementi che caratterizzano il suddetto reato (art. 393) sono i seguenti: a) la pretesa giuridica di far valere un diritto soggettivo; b) l’opposizione del terzo che, a torto o a ragione, contesti la suddetta pretesa; c) la possibilità di ricorrere al giudice; d) il ricorso arbitrario alla forza – nella forma della violenza o minaccia – diretta ad ottenere dal terzo quanto da questi pretesamente dovuto; e) il dolo, ossia la volontà diretta ad esercitare la pretesa;

… Quello che è controverso – e che ha dato luogo al presente procedimento – è l’elemento sub d), ossia la forma della violenza o minaccia posta in essere dal ricorrente nel confronti del proprio debitore”.

Il caso in esame pone seri problemi interpretativi giacchè il suddetto requisito è comune alle due fattispecie, ponendosi, in tal guisa, il problema di identificare e tracciare una linea di demarcazione fra i due reati (cfr. “…il caso in esame rappresenta un esempio di scuola in cui, da una parte, non è in discussione il buon diritto del ricorrente ad ottenere il dovuto dal proprio debitore e dall’altra che, per raggiungere il suo scopo, è ricorso a mezzi che, secondo la giurisprudenza in esame, possono essere considerati sproporzionati rispetto al fine”).

Così la Suprema Corte ha analizzato e risolto la quaestio (anche giuridica): Alla stregua…si può affermare che, in realtà, è stato lo stesso legislatore che si è posto il problema dell’intensità della violenza o minaccia ed ha, insindacabilmente, stabilito ove la violenza (o la minaccia) trasmodino da una semplice percossa, l’agente è penalmente perseguibile per il reato di esercizio arbitrario e, in concorso con gli altri reati che abbia commesso (lesioni, omicidio, sequestro…).

…Ciò che, infatti, il legislatore ha inteso sanzionare è il farsi giustizia da sé, con violenza o minaccia, senza ricorrere all’Autorità giudiziaria, e non tanto la modalità con la quale l’agente persegue il suo scopo…

…Per il legislatore, invero, ciò che rileva è il diverso disvalore che sta alla base del comportamento (rectius: intenzione) dell’agente, perché una cosa è che la violenza o minaccia – qualunque sia la forma e la intensità – venga esercitata per un preteso diritto, altra e ben diversa cosa è che quella stessa violenza o minaccia sia eserciata per procurarsi un ingiusto profitto.

Un riscontro testuale a quanto appena detto, lo si rinviene nell’art.393 comma 3…

…Si rende evidente – anche a livello di interpretazione sistematica – che, poiché negli artt.392-393 cod. pen. i sostantivi “violenza e minaccia” sono adoperati (così come nell’art. 629 cod. pen.) sic et simpliciter senza alcuna altra aggettivazione, non è consentito all’interprete, in ossequio al principio cardine di legalità, procedere ad un’interpretazione in malam partem della suddetta normativa e cioè ritenere che ogniqualvolta l’agente abbia posto in essere minacce e violenze particolarmente gravi, il suddetto comportamento trasmodi nel reato di estorsione.

Spetta, pertanto, al giudice di merito, nell’ambito della usuale dialettica processuale, accertare quale sia stata la finalità perseguita dall’agente, fermo restando che il dato oggettivo e materiale dal quale non può prescindersi e dal quale occorre partire prima di ogni altra indagine sull’elemento psicologico consiste nell’accertare: a) se l’agente vanti un preteso diritto; b) se il suddetto diritto sia tutelabile davanti all’autorità giudiziale. È ovvio, infatti, che se si accerta l’insussistenza di uno di questi due elementi, ogni ulteriore indagine sull’elemento psicologico diventa del tutto ultroneo…”

Alla luce delle attente e puntuali osservazioni, così i Giudici di Cassazione vanno a concludere:

“…. a) L’esercizio arbitario e l’estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identico, ma per l’elemento intenzionale: nell’estorsione l’agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto; nell’esercizio arbitrario, invece, l’agente è animato dal fine di esercitare un suo preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata (nota: putativa), della sua sussistenza, pur se contestata o contestabile;

 b) Di conseguenza, deve affermarsi che l’intensità e/o la gravità della violenza o della minaccia non è un elemento del fatto idoneo ad influire sulla qualificazione giuridica del reato (esercizio arbitrario – estorsione) atteso che, ove la minaccia o la violenza siano commesse con le armi, il reato diventa aggravato ex artt.393/3 o 629-628/3 n.1 cod. pen. e, se la violenza o la minaccia ledano altri beni giuridici, fanno scattare a carico dell’agente ulteriori reati in concorso (lesioni, omicidio, sequestro..);

c) Tuttavia, ove la violenza e/o minaccia, indipendentemente dalla intensità con la quale siano adoperate dall’agente, siano esercitate al fine di far valere un preteso diritto per il quale, però, non si può ricorrere al giudice, il suddetto comportamento va qualificato come estorsione ma non perché l’agente eserciti una violenza o minaccia particolarmente grave, ma perché il suo preteso diritto non è tutelabile davanti all’autorità giudiziaria, sicchè, venendo a mancare uno dei requisiti materiali del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il fatto diventa qualificabile come estorsione”.

Per concludere la presente disquisizione (che, per la cronaca, ha portato la Suprema Corte adita, in qualità di giudice in materia de libertate,qualificato il fatto ai sensi dell’art. 393 cod. pen.” ad un “annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata, nonché dell’ordinanza di custodia cautelare disposta dal g.i.p…ordinando l’immediata scarcerazione..”) si è affrontato, pur brevemente, un argomento assai dibattuto sia nelle aule giudiziarie che in dottrina.

 

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