Sui limiti al potere rappresentativo dell’amministratore di condominio e sulla natura dei c.d diritti autodeterminati Cassazione, Sez. II, 08 gennaio 2015, n. 40

SUI LIMITI AL POTERE RAPPRESENTATIVO DELL’AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO E SULLA NATURA DEI C.D DIRITTI AUTODETERMINATI

Cassazione, Sez. II, 08 gennaio 2015, n. 40

di Giovanni Patti

Sommario: 1. Premessa. – 2. Una succinta disamina delle vicende processuali. – 3. Le questioni rilevanti emerse nel corso del giudizio innanzi alla Corte di Cassazione. – 3.1. I poteri rappresentativi dell’amministratore di condominio. – 3.2.  Diritti autodeterminati e richieste petitorie.

1. Premessa.

La questione proposta all’attenzione della Seconda Sezione della Corte di Cassazione origina dall’incorporazione, arbitraria ed illegittima, da parte di un condomino di un’area comune, sulla quale riteneva di vantare un diritto di uso esclusivo.

2. Una succinta disamina delle vicende processuali.

Il Condominio citava in giudizio la proprietaria della porzione del quinto piano (con annessa area di solaio adibita a mansarda), alla quale, in sede di acquisto, veniva riconosciuto anche il godimento esclusivo del terrazzo prospicente l’area mansardata, sulla quale, tuttavia, insisteva una servitù di accesso condominiale.

Innanzi al giudice di prime cure, la convenuta asseriva che avendo acquisito una porzione di piano cui era connesso un terrazzo prospicente ad un’area mansardata, avesse al contempo maturato un diritto di esclusività anche relativamente alla suddetta area, ritenendo preminente il suo diritto a godere pienamente del terrazzo panoramico rispetto all’utilità della servitù di accesso.

Nel merito, il Condominio poneva quali richieste a base del proprio atto la reductio in pristinum e la restituzione degli spazi indebitamente sottratti, oltre al risarcimento dei danni, per avere, la resistente, inopinatamente modificato e inglobato nella sua proprietà l’area mansardata. Il Tribunale, all’esito del suo giudizio, accordava le prime due richieste, rigettando quella risarcitoria.

Il giudice di primo grado riscontrava, dunque, un’appropriazione indebita di un’area comune del Condominio, idonea a pregiudicare in modo rilevante e apprezzabile l’utilizzo degli altri partecipanti, anche se la proprietaria aveva lasciato una piccola via di accesso alla mansarda mediante una scaletta “disagevole e pericolosa”.

Tali statuizioni venivano confermate in toto anche dalla Corte di Appello cui la convenuta in prima istanza ricorreva.

3. Le questioni rilevanti emerse nel giudizio innanzi alla Corte di Cassazione.

Chiara la questione nel merito, le doglianze esposte alla Suprema Corte dalla ricorrente, già soccombente nei due precedenti gradi di giudizio, involgono principalmente profili di legittimità.

Gli Ermellini si sono trovati a statuire, sostanzialmente, su due principali argomentazioni che hanno, tra l’altro, rappresentato un motivo di confronto in seno alla giurisprudenza più avvertita:

– i poteri rappresentativi e la legitimatio ad processum dell’amministratore di condominio;

– i c.d. diritti autodeterminati e il divieto di ius novorum in appello.

3.1. I poteri rappresentativi dell’amministratore di condominio.

Con riferimento alla prima tematica evocata, si deve premettere che è discussa la natura giuridica del rapporto intercorrente tra l’amministratore di condominio e i condomini.

Sono due gli orientamenti che si sono registrati in merito.

Secondo l’orientamento prevalente, l’amministrazione di condominio configura un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza, in quanto l’amministratore non rappresenta un ente distinto dai condomini ma i condomini stessi.

Un diverso orientamento, invece, sostiene che l’amministratore sia assimilabile ad una longa manus dei condomini e come tale vincolato nelle sue azioni al placet dell’assemblea condominiali.

Seguendo l’opzione ermeneutica maggioritaria, dunque, si pone il problema di individuare in quali ipotesi e sulla scorta di quali ragioni l’amministratore può esercitare la propria potestà rappresentativa in assenza di una preventiva delibera dell’assemblea condominiale e quando, viceversa, è legato alla necessaria autorizzazione del collegio condominiale.

Al riguardo, la disciplina del potere rappresentativo dell’amministratore trova il suo appiglio normativo nel combinato disposto degli artt. 1130 e 1131 c.c. .

La prima disposizione, al punto 4, obbliga l’amministratore a “compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio”. Nei limiti di questa attribuzione l’amministratore ha la rappresentanza dei condomini e può liberamente agire in giudizio sia contro i condomini stessi sia contro i terzi. In questo senso, per quanto attiene ai provvedimenti che possono essere adottati dall’amministratore, la giurisprudenza è concorde nell’affermare che “Il potere rappresentativo che compete all’amministratore del condominio ex artt. 1130 e 1131 c.c. e che, sul piano processuale, si riflette nella facoltà di agire in giudizio per la tutela dei diritti sulle parti comuni dell’edificio, comprende tutte le azioni volte a realizzare tale tutela, con esclusione soltanto di quelle azioni che incidono sulla condizione giuridica dei beni cui si riferiscono, esulando, pertanto, dall’ambito degli atti conservativi” (Corte di Cassazione, 22 marzo 2013, n. 7327).

Tale esegesi implica che l’amministratore può adottare i soli atti materiali e giudiziali, necessari per la salvaguardia dell’integrità dell’immobile, a contenuto meramente esecutivo, restandogli precluse azioni contro i singoli condomini o verso terzi che involgano una questione di titolarità dei diritti vantati su cose e parti dell’edificio.

L’esercizio della potestà rappresentativa in questi ultimi casi è, dunque, subordinata alla previa autorizzazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 1131, comma 1, c.c., adottata con la maggioranza qualificata, come previsto dall’art. 1136 c.c. (Corte di Cassazione, 3 aprile 2003, n. 5147; 6 febbraio 2009, n. 3044).

Nella cennata ottica, volgendo lo sguardo alla dinamica verificatasi nel caso concreto, l’esercizio dell’azione processuale da parte dell’amministratore del condominio avverso la convenuta è stata ritenuta dalla Suprema Corte del tutto idonea e legittima a tutelare gli interessi condominiali, in quanto supportata da una delibera ad hoc adottata dall’assemblea condominiale con le previste maggioranze.

3.2. Diritti autodeterminati e richieste petitorie.

La seconda, interessante, tematica emersa all’interno del giudizio di che trattasi, afferisce alla possibilità di chiedere, nel corso del giudizio di prime cure o in quello di appello, il riconoscimento di un diritto in assenza dell’allegazione del sottostante titolo al momento della definizione della causa petendi.

Premesso che la causa petendi rappresenta la ragione obiettiva sulla quale si fonda la domanda propedeutica all’instaurazione del giudizio, e si differenzia dal petitum che coincide, invece, con ciò che si chiede al giudicante, la richiesta esperita in un secondo momento comporterebbe, inevitabilmente, una mutatio libelli, sanzionata con il rigetto della stessa.

Tuttavia, l’assunto appena riferito, pur essendo pacificamente condiviso in dottrina e giurisprudenza, non riveste carattere assoluto, facendo eccezione i c.d. diritti autodeterminati, ossia quei diritti  “individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, rappresentato dal bene che ne costituisce l’oggetto, sicché nelle azioni ad essi relative, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, la causa petendi si identifica con i diritti stessi, mentre il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda” (Corte di Cassazione, 21 novembre 2012, n. 20558).

In questo senso, il criterio discretivo tra diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati risiede nella natura unica e irripetibile della situazione sostanziale dedotta, tant’è che mentre per i primi la loro individuazione prescinde dal titolo d’acquisto depositato, per i secondi la causa petendi si concretizza nel riferimento a quella specifica situazione identificata, necessariamente, con l’atto costitutivo.

Pertanto, nelle azioni relative ai diritti autodeterminati, quali i diritti assoluti come la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, la causa petendi si identifica con i diritti stessi e con il bene che ne forma oggetto, essendo superflua la dimostrazione degli atti e dei fatti da cui dipende il diritto anelato. “Ne consegue che l’allegazione, nel corso del giudizio di rivendicazione, di un titolo diverso (nella specie, usucapione) rispetto a quello (nella specie, contratto), posto inizialmente a fondamento della domanda, costituisce solo un’integrazione delle difese sul piano probatorio e non determina, quindi, la novità della domanda né la rinuncia alla valutazione del diverso titolo dedotto in precedenza” (Corte di Cassazione, 21 novembre 2012, n. 20558).

A riprova della unitarietà di vedute all’interno della giurisprudenza sulla distinzione tra diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati militano, altresì, le argomentazioni addotte dai giudici della Corte nella recente sentenza del 17 novembre 2014, n. 24400, il cui principio di diritto testualmente recita “Nelle azioni relative a diritti autodeterminati, quali la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, la causa petendi della domanda si identifica con i diritti stessi e con il bene che ne forma l’oggetto. Pertanto, i fatti o gli atti da cui dipende l’acquisto del diritto vantato, essendo ininfluenti ai fini dell’individuazione della causa petendi, hanno natura processuale di fatti secondari e sono dedotti esclusivamente in funzione probatoria del diritto vantato in giudizio. Con l’ulteriore conseguenza che non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell’attore di un fatto o di un atto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda”.

Riportando le determinazioni testè enunciate nell’alveo del caso di specie, gli Ermellini hanno riconosciuto valide le richieste di accertamento di compiuta usucapione, esperite dalla ricorrente dapprima nella fase conclusiva del giudizio di primo grado ed, in seguito, nell’atto di appello.

Ciò, tuttavia, non ha mutato la sostanza della decisione, poiché, nel merito, la Corte di Cassazione ha richiamato le due precedenti decisioni nelle quali le motivazioni addotte a sostegno della domanda di usucapione non erano state ritenute sufficienti per un suo accoglimento.

Cassazione, Sez. II, 08 gennaio 2015, n. 40

In tema di condominio, le azioni reali da esperirsi contro i singoli condomini (o contro terzi) e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali dei condomini su cose o parti dell’edificio condominiale che esulino dal novero degli atti meramente conservativi (al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130 n. 4 cod. civ.) possono essere esperite dall’amministratore solo previa autorizzazione dell’assemblea, ex art. 1131, primo comma, cod. civ., adottata con la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 dello stesso codice.

Ritenuto in fatto

1. – Con atto di citazione notificato in data 18 marzo 2002, il Condominio di via (omissis) evocava in giudizio B.M. in D. esponendo che: con scrittura privata in data 30 novembre 1989, autenticata dal notaio Mentoli, la stessa convenuta aveva acquistato, nel fabbricato condominiale, una porzione del quinto piano oltre ad un’annessa area di solaio adibita a mansarda, sita al sesto e ultimo piano; in contratto le veniva riconosciuto l’uso e il godimento esclusivo del terrazzo prospiciente l’area di solaio adibita a mansarda, quest’ultima gravata da una servitù di accesso a favore del condominio per la manutenzione e gestione degli enti condominiali; prima dell’acquisto della B. , per l’esercizio in concreto delle attività di cui al diritto di servitù, esisteva un vano di proprietà condominiale, dotato di una scala in legno a pianta quadrangolare, che accedeva ad una porta d’ingresso al terrazzo in uso esclusivo alla predetta; dopo l’acquisto e durante i lavori di ristrutturazione, la B. mutava sensibilmente la situazione dei luoghi quale descritta, incorporando arbitrariamente alla sua unità abitativa una parte del volume scala, trasformando la comune porta di ingresso al terrazzo in porta finestra collegante direttamente il proprio appartamento con lo stesso, interrompendo e modificando l’originaria scala, sostituendone l’ultima rampa con una scaletta “alla marinara” (verticale infissa a muro), disagevole e pericolosa. Mediante tali interventi – assumeva il Condominio – la B. si appropriava illegittimamente di spazi condominiali, beni della proprietà comune, violando il regolamento e la normativa codicistica, nonostante le esplicite rimostranze significate in assemblea condominiale. Per tali motivi, il Condominio chiedeva al Tribunale di Milano la condanna della B. al ripristino a propria cura e spese dello stato dei luoghi quale esistente prima delle illegittime modifiche, e la restituzione al condominio degli spazi e cose indebitamente sottratti, oltre al risarcimento dei danni.

Si costituiva la B. , contestando il fondamento delle affermazioni del Condominio.

La convenuta deduceva che non avrebbe avuto alcun senso riconoscerle il godimento esclusivo di un terrazzo panoramico se per accedervi avesse dovuto inerpicarsi per la pericolante e scomoda originaria scala di legno, pensata al solo fine di permettere l’accesso occasionale alla terrazza a personale tecnico per la manutenzione di alcune parti comuni. L’accesso diretto costituiva non una modifica marginale e voluttuaria, ma era conditio sine qua non dell’uso in via esclusiva della predetta area. La modifica apportata risultava pertanto non solo legittima, ma necessaria all’esercizio del diritto acquistato e in ogni caso non pregiudizievole della destinazione dei beni comuni, poiché il vano scale era perfettamente agibile ed idoneo all’uso per cui è destinato, come pure la nuova scala metallica.

2. – Il Tribunale, con sentenza in data 4 marzo 2005, accertava l’avvenuta abusiva occupazione da parte della convenuta di spazi condominiali come meglio descritti nella esperita c.t.u., e pertanto condannava la B. alla restituzione degli spazi, volumi e cose sottratti, ed al ripristino entro 120 giorni dalla pubblicazione della sentenza, a propria cura e spese, della situazione dei luoghi quale esistente prima dei lavori di ristrutturazione, autorizzando il Condominio attore, in caso di mancato adempimento all’ordine giudiziale, ad eseguire tale ripristino con addebito del relativo costo alla convenuta. Il Tribunale respingeva la domanda del Condominio in ordine al risarcimento del danno e compensava tra le parti le spese del grado e i costi di c.t.u..

2.1. – A tale conclusione il Tribunale perveniva sul rilievo che la modifica apportata dalla B. al vano scala e agli ultimi tre gradini della originaria scala di legno che collegava, assieme al pianerottolo, il vano alla porta di ingresso al terrazzo condominiale, costituisce una “appropriazione indebita”, sebbene per soli mq. 2,62. La convenuta – precisava il primo giudice -, seppure non ha alterato la destinazione della scala comune (semmai sostituendola in parte con un’altra scala, che effettivamente consente l’accesso al terrazzo), ha tuttavia esteso il proprio diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, diminuendo il volume del vano scala, di cui ha sottratto al condominio una parte, pur esigua, inglobandola nel proprio appartamento.

3. – La Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 21 luglio 2008, ha respinto l’appello principale della B. e quello incidentale del Condominio.

3.1. – Per quanto qui ancora rileva, e con riguardo alla censura con cui l’appellante principale si doleva dell’omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado sul presunto decorso temporale utile all’acquisto della proprietà sull’area oggetto di causa per usucapione, la Corte d’appello, dopo avere rilevato che l’usucapione può formare oggetto anche di semplice eccezione riconvenzionale e non solo di una specifica domanda, e che la B. , nelle conclusioni della sua comparsa di costituzione in primo grado, aveva effettivamente chiesto il riconoscimento del proprio diritto di proprietà sull’area contestata, ha sottolineato che il richiamo all’usucapione (in particolare al termine di usucapione breve previsto dall’art. 1159 cod. civ.) era contenuto soltanto nella comparsa conclusionale della B. nel giudizio di primo grado, richiamo costituente un’eccezione nuova dato il momento in cui l’eccezione era stata proposta. In ogni caso, la Corte d’appello ha ritenuto infondato il motivo anche nel merito, avendo il primo giudice motivato sulla stessa ipotesi dell’usucapione, rilevandone la mancanza dei presupposti di fatto, valutazione che la Corte d’appello ha affermato di condividere: sia perché la convenuta non ha fornito la prova che le opere di modifica del vano scala siano state realizzate prima dell’acquisto da parte sua dell’appartamento, sia perché “si ipotizza l’usucapione di uno spazio finalizzato a permettere l’accesso ad un’area, come quella del terrazzo, della quale si ammette pacificamente la proprietà condominiale, trattandosi di una struttura concessa in uso e godimento esclusivo, secondo la formulazione dell’atto Memoli del 19 gennaio 1989, e certamente quindi insuscettibile di possesso ai fini di usucapione”.

Quanto al secondo motivo di appello principale, con cui la B. si doleva che il Tribunale avesse riconosciuto l’avvenuto inglobamento nella proprietà della convenuta dell’intera area rivendicata che dovrebbe invece limitarsi ad un solo gradino di scala, con esclusione totale del pianerottolo di accesso al terrazzo, la Corte di Milano, nel rigettare la censura, ha rilevato che, secondo quanto accertato dal c.t.u., tale inglobamento è avvenuto attraverso la creazione di un vero e proprio vano-porta di accesso al terrazzo in uso alla convenuta, circostanza che esclude di per sé la possibilità che tale spazio fosse originariamente compreso nell’appartamento.

4. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello B.M. in D. ha proposto ricorso, con atto notificato il 30 aprile 2009, sulla base di sette motivi.

L’intimato Condominio ha resistito con controricorso.

Considerato in diritto

1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia la nullità del procedimento e della sentenza per difetto di legittimazione del Condominio attore in relazione all’azione tesa a rivendicare la proprietà comune di una porzione dell’immobile, essendo questa stata proposta dall’amministratore in mancanza di un apposito mandato conferito da ciascuno dei condomini (con esclusione della ricorrente). E poiché l’azione di revindica non rientra tra quelle ex art. 1131 cod. civ. per le quali l’amministratore ha uno specifico autonomo potere, ne conseguirebbe la nullità della procura alle liti rilasciata dall’amministratore del condominio.

1.1. – Il motivo – ancorché scrutinabile nel merito, posto che le questioni relativo al potere rappresentativo in capo all’amministratore in relazione all’azione, esercitata sono deducibili per la prima volta in sede di legittimità – è, tuttavia, infondato.

Va premesso che risulta dalla sentenza impugnata che già il Tribunale – senza che sul punto sia stata sollevata censura in sede di appello – ha qualificato come di natura reale l’azione intentata dal Condominio. Il Condominio – osservava il Tribunale – “ha agito esclusivamente in rivendica, ex art. 948 cod. civ., di uno spazio di proprietà comune, illegittimamente acquisito e inglobato dalla convenuta al proprio appartamento”.

Ora, in tema di condominio, le azioni reali da esperirsi contro i singoli condomini (o contro terzi) e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali dei condomini su cose o parti dell’edificio condominiale che esulino dal novero degli atti meramente conservativi (al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130 n. 4 cod. civ.) possono essere esperite dall’amministratore solo previa autorizzazione dell’assemblea, ex art. 1131, primo comma, cod. civ., adottata con la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 dello stesso codice (Cass., Sez. II, 3 aprile 2003, n. 5147; Cass., Sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3044).

Dall’applicazione di tale principio risulta la ritualità dell’azione intentata dal Condominio, giacché l’iniziativa giudiziaria è stata deliberata dall’assemblea condominiale alla unanimità dei presenti, con 658 millesimi nell’assemblea del 29 novembre 1995 e con 815 millesimi nell’assemblea del 2 luglio 1999: detta delibera è pertanto idonea ad attribuire all’amministratore condominiale il potere rappresentativo e la legittimazione processuale.

2. – Con il secondo mezzo (omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio) ci si duole che la Corte d’appello abbia omesso l’esame dell’atto di acquisto della B. , a rogito del notaio Memoli, del 20 novembre 1989, trascritto il 12 dicembre 1989, e dell’atto di provenienza a rogito dello stesso notaio del 19 gennaio 1989. Secondo la ricorrente, il tenore letterale con cui si identifica l’immobile compravenduto, unitamente alla descrizione dei relativi confini, proverebbe in modo incontrovertibile che la B. ha acquistato, oltre all’appartamento del quinto piano, anche la annessa area di solaio occupante l’intero sesto ed ultimo piano, non risultando che la proprietà posta al sesto piano confini con enti di proprietà condominiale. La proprietà della ricorrente si estenderebbe sino al terrazzo, e pertanto comprenderebbe anche il vano scala, parte del quale è oggetto del presente giudizio.

2.1. – Il motivo è privo di fondamento.

Dal testo della sentenza impugnata risulta che la sentenza del Tribunale è stata fatta oggetto, da parte dell’appellante principale B.M. in D. , di due motivi di censura. Con il primo di essi la B. si è doluta del fatto che il primo giudice abbia omesso di pronunciarsi circa l’intervenuta usucapione della proprietà della porzione immobiliare in questione, laddove esistevano i presupposti, a giudizio dell’appellante, per ritenere maturato tale acquisto, sia in riferimento all’usucapione ordinaria sia in riferimento a quella abbreviata. Con il secondo motivo l’appellante ha contestato l’erroneo riconoscimento dell’avvenuto inglobamento nella proprietà della convenuta dell’intera area rivendicata, che doveva invece limitarsi, anche nella contestata ipotesi di accoglimento, ad un solo gradino di scala, con esclusione totale del pianerottolo di accesso al terrazzo.

Nel respingere questa seconda censura, la Corte d’appello ha fatto leva, con logica e congrua motivazione, sugli esiti della consulenza tecnica d’ufficio, dalla quale risulta che vi è stato il denunciato inglobamento, da parte della B. , di una porzione di bene di proprietà comune.

La ricorrente si duole di questo esito, sostenendo che l’atto di acquisto e l’atto di provenienza – ossia degli atti qui invocati – dimostrerebbero la proprietà dell’area in contestazione a titolo derivativo in capo alla B. .

Ma in tal modo la deducente – oltre a non spiegare come sia avvenuta, in appello, la deduzione della rilevanza dell’atto di acquisito e dell’atto di provenienza (ossia degli atti qui invocati) ai fini della dimostrazione dell’acquisto a titolo derivativo, in proprio favore, dell’area in contestazione – finisce con il sollecitare questa Corte ad effettuare, attraverso il diretto esame degli atti di derivazione, una nuova valutazione di risultanze di fatto si come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, cosi mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza processuale, quanto ancora le opinioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fun-gibilità nella ricostruzione dei fatti di causa potessero ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità.

3. – Il terzo motivo lamenta falsa applicazione dell’art. 948 cod. civ. La Corte d’appello avrebbe rinvenuto la prova della proprietà dell’area rivendicata in capo al condominio sulla base di una circostanza di mero fatto, laddove l’azione di rivendica necessita della prova positiva del diritto di proprietà di chi agisce in rivendica.

Con il quarto mezzo la ricorrente, in relazione al fatto controverso e decisivo del giudizio di individuare e identificare esattamente anche nella sua effettiva consistenza in relazione ai confini descritti nel rogito del 12 dicembre 1989 la porzione immobiliare acquisita dalla B. , censura l’insufficiente motivazione da parte della Corte d’appello in relazione all’art. 2697, primo comma, cod. civ., che – si assume – ha ritenuto fondata l’azione di rivendica formulata dal Condominio sulla base di una mera circostanza di fatto, l’inglobamento della porzione rivendicata, in assenza di una prova positiva rigorosa del diritto rivendicato. Il Condominio – osserva conclusivamente la ricorrente – non ha fornito la prova positiva e rigorosa del proprio titolo di proprietà, riferito alla specifica area in contestazione.

3.1. – I motivi – da esaminare congiuntamente, stante la loro connessione – sono infondati.

Poiché nella specie l’area in contestazione riguarda parte del vano scale e gli ultimi tre gradini della originaria scala in legno che collegava, assieme al pianerottolo, il vano alla porta di accesso al terrazzo condominiale, vale, ai fini della prova della proprietà comune in campo ai condomini, la norma dell’art. 1117 cod. civ., relativa alle parti dell’edificio che, in difetto di prova contraria (da fornirsi ad opera del condomino), debbono presumersi comuni.

Questa norma costituisce la base giuridica della sentenza impugnata in punto di riconoscimento della proprietà condominiale in capo al Condominio attore.

La Corte d’appello, del resto, non si è limitata a dare rilievo al dato di fatto dell’inglobamento realizzato ad opera della convenuta attraverso la creazione di un vero e proprio vano-porta di accesso al terrazzo, “circostanza che esclude di per sé la possibilità che tale spazio fosse originariamente compreso nell’appartamento e ne rende oggettivamente delimitabile l’estensione”; ma ha dato rilievo anche alle allegazioni difensive della medesima B. significative di una ammissione della originaria condominialità, come si desume dalla circostanza (valorizzata a pag. 10 della sentenza, e tratta dalle pagg. 9, 13 e 14 della comparsa di costituzione) che, a sostegno della piena regolarità della scala metallica e della botola di accesso al terrazzo, la convenuta, pur concludendo per il riconoscimento in capo ad essa del diritto di proprietà sull’area menzionata, aveva rilevato che “il condominio era sempre stato a conoscenza della situazione oggetto di causa, autorizzandola fin dall’inizio attraverso l’amministratore” e che, comunque, la modifica apportata era perfettamente legittima “in quanto necessaria all’esercizio del diritto da lei acquistato ed in ogni caso non pregiudizievole della destinazione dei beni comuni”.

4. – Il quinto motivo censura nullità della sentenza per omessa pronuncia, lamentando che la Corte d’appello abbia erroneamente omesso di pronunciarsi sulla dedotta intervenuta usucapione breve o ordinaria in favore della B. della porzione immobiliare oggetto di revindica da parte del Condominio, ritenendola eccezione formulata tardivamente. Secondo la ricorrente, l’allegazione, nel corso del giudizio, dell’intervenuta usucapione breve o ordinaria in capo alla B. della porzione immobiliare di cui la stessa richiede e-spressamente accertarsi la relativa proprietà, non è un’eccezione tardivamente formulata, atteso che la proprietà appartiene alla categoria dei diritti autodeterminati, individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, rappresentato dal bene che ne costituisce l’oggetto e la dedotta usucapione costituisce soltanto una integrazione delle difese, non configurabile come eccezione nuova.

4.1. – La censura non coglie la ratio decldendi.

4.1.1. – È esatto che sin dal primo grado la B. ha chiesto, onde pervenire al rigetto della domanda, il riconoscimento del proprio diritto di proprietà sull’area contestata.

Con la comparsa conclusionale in primo grado e poi con la memoria di replica la convenuta ha specificato il titolo (usucapione) della propria eccezione; ed in appello (con il primo motivo) ha chiesto al giudice il rigetto della domanda in forza dell’intervenuta usucapione, in proprio favore, della proprietà della porzione immobiliare in questione, con riferimento sia all’usucapione ordinaria sia a quella abbreviata.

Ora, poiché la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei c.d. diritti autodeterminati, individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, nelle relative azioni la causa petendi si identifica con il diritto e non con il titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda o dell’eccezione, essendo, viceversa, necessaria ai soli fini della prova. Non viola il divieto di ius novorum in appello, pertanto, la deduzione – da parte del convenuto che già in primo grado aveva eccepito l’esistenza in proprio favore della proprietà dell’area rivendicata da controparte – che l’acquisto da parte sua della proprietà era avvenuto per usucapione, ordinaria o abbreviata (Cass., Sez. II, 13 ottobre 1999, n. 11521; Cass., Sez. II, 4 marzo 2003, n. 3192; Cass., Sez. II, 24 maggio 2010, n. 12607; Cass., Sez. II, 24 novembre 2010, n. 23851; Cass., Sez. II, 23 dicembre 2010, n. 26009).

4.1.2. – Sennonché, la Corte d’appello non si è limitata a ritenere – erroneamente — tardiva l’eccezione proposta, ma poi l’ha esaminata, funditus, nel merito, rilevando la mancanza del presupposto di fatto oggettivo dell’usucapione, per non avere in particolare la convenuta fornito la prova che le opere di modifica del vano scala siano state realizzate prima dell’acquisto da parte sua dell’appartamento nel novembre 1989.

La censura di omessa pronuncia, articolata con il quinto mezzo, non coglie questa ratio decidendi, da sé idonea a sostenere, nel merito, la decisione impugnata.

5. – Con il settimo motivo (contraddittorietà della motivazione circa il fatto decisivo dell’intervenuta usucapione del bene rivendicato) si lamenta che la Corte avrebbe ritenuto contemporaneamente sia di non pronunciarsi nel merito dell’usucapione in quanto eccezione tardiva che di pronunciarsi nel merito rigettando l’eccezione come infondata, sostenendosi che il corretto percorso logico era la sola pronuncia in ordine alla tardività dell’eccezione di usucapione breve o ordinaria oppure la sola pronuncia nel merito della dedotta usucapione breve o ordinaria.

5.1. – Il motivo è infondato.

Non sussiste la lamentata contraddittorietà della sentenza, essendosi di fronte a separate ragioni del decidere con riferimento alla eccezione di usucapione, una volta affrontata sotto il profilo processuale, altra sotto quello del merito sostanziale.

6. – Con il sesto motivo si lamenta nullità della sentenza per ultrapetizione.

Secondo la ricorrente, “la Corte d’appello di Milano, disattendendo l’art. 112 cod. proc. civ., si è pronunciata oltre la domanda, dichiarando la proprietà del bene in capo al Condominio di via (omissis) che la rivendica, sulla base dell’assunto di diritto per cui detta porzione sarebbe destinata al servizio di altro bene sempre di proprietà condominiale, assunto in relazione al quale nessuna della parti ha mai chiesto, neppure implicitamente, alla Corte d’appello di pronunciarsi”. Pertanto, “non essendo stata richiesta in giudizio dal Condominio di via (omissis) e neppure dalla signora B.D. , neppure implicitamente, una pronuncia sulla pertinenzialità della porzione immobiliare in contestazione, configura una pronunzia oltre la domanda l’accertamento della Corte d’appello sul punto”.

6.1. – Il motivo è infondato.

Non sussiste il lamentato vizio di extrapetizione, ovvero del principio della necessaria corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, perché da una parte il Condominio ha agito in revindica di uno spazio di proprietà comune, deducendo che esso era stato illegittimamente acquisito ed inglobato dalla convenuta al proprio appartamento, e la Corte d’appello ha confermato l’accoglimento di questa domanda già pronunciato dal Tribunale, essendo detti spazi comuni in quanto parte del vano scala e finalizzati a permettere l’accesso alla pacifica proprietà condominiale del terrazzo. Sotto questo profilo, la censura di extrapetizione avrebbe dovuto già essere proposta avverso la sentenza di primo grado.

7. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dal Condominio controricorrente, che liquida, in complessivi Euro 3.200, di cui Euro 3.000 per compensi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

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