Aspi e Licenziamento disciplinare (M. Matteucci)

ASPI E LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

Massimiliano Matteucci

 

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è intervenuto,  in materia di Aspi e licenziamento disciplinare per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, a seguito della richiesta avanzata dal Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro, tramite l’Interpello numero 29/13 del 23 ottobre 2013.

Nello specifico, la domanda, efficace e puntuale, del CNO dei Consulenti era se tale forma di licenziamento (conseguente ad una condotta non corretta, sotto i più diversi profili)  potesse essere considerata un’ipotesi di disoccupazione “involontaria” essendo invece stata causata da un preciso comportamento del lavoratore e quindi per “colpa” del lavoratore.

Il licenziamento disciplinare individuale  si distingue nelle due fattispecie di licenziamento per giusta causa  (art. 2119 del c.c.) e per giustificato motivo soggettivo (art. 3 L.604/66), dove la differenza sostanziale sta nella intensità della violazione commessa e negli effetti che ne conseguono.

Nella giusta causa, la violazione (che può riguardare anche elementi extracontrattuali) è estremamente intensa ed è tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro nemmeno in via provvisoria, determinando pertanto il recesso immediato; nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo, invece, pur in presenza di un inadempimento notevole degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, non vi è la necessità di interrompere immediatamente il rapporto, che così può proseguire dopo l’irrogazione del licenziamento per il periodo di preavviso contrattualmente stabilito oppure al pagamento della relativa indennità sostitutiva di preavviso.

Per quanto riguarda il contributo per l’interruzione dei rapporti a tempo indeterminato, esso è dovuto dai datori di lavoro per ogni cessazione del rapporto avvenuta dal 1° gennaio 2013 con una causale che, indipendentemente, dal requisito contributivo maturato dal lavoratore, darebbe diritto alla percezione del l’Aspi.

Il Ministero, correttamente, ritiene di dover prendere in esame in via principale il testo di legge, ed esattamente il contenuto dell’articolo 2 della legge 92/2012 che ha introdotto l’Aspi, in sostituzione del precedente sistema di  ammortizzatori sociali in caso di perdita del posto di lavoro.

Per il finanziamento dell’indennità in questione è stato previsto, oltre al contributo ordinario versato dalle aziende, un contributo straordinario, sempre a carico del datore di lavoro, per i casi di interruzione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato dovuto “nelle stesse ipotesi che darebbero diritto all’Aspi”.

In pratica, tale contributo serve per finanziare le nuove indennità di disoccupazione (Aspi e mini Aspi), attraverso:

•              Contribuzione specifica a carico delle imprese pari all’ 1,31%

•              Contribuzione aggiuntiva sui rapporti a termine pari all’ 1,40%

•              Contribuzione sui licenziamenti (ticket) pari al 41% del massimale mensile Aspi, che ammonta a 1180,00 euro per il 2013 (annualmente rivalutato sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai ed impiegati).

A tal proposito dobbiamo approfondire ed esaminare congiuntamente il comma 4 ed il comma 5 del predetto articolo 2.

Infatti, il comma 4 prevede che l’indennità in argomento sia “riconosciuta ai lavoratori che abbiamo perduto involontariamente la propria occupazione”, il comma 5 prevede che sono esclusi dalla fruizione dell’Apsi  “i lavoratori che siano cessati dal rapporto di lavoro per dimissioni o per risoluzione consensuale del rapporto, fatti salvi i casi in cui quest’ultima sia intervenuta nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15/7/66 n. 604.

Secondo il Ministero, nell’interpello in argomento, le cause di esclusione dell’Aspi sono “tassative” , pertanto poiché le ipotesi di esclusione dell’Aspi sono quelle individuate nel comma 5 predetto, solamente queste potranno essere validamente considerate ai fini dell’esonero del versamento del ticket di licenziamento.

Non essendo prevista alcuna esclusione per i casi di licenziamento disciplinare il diritto del lavoratore all’Aspi permane.

Osserviamo subito che, secondo il Ministero è condivisibile che, anche le dimissioni per “giusta causa” o quelle per “causa maternità” danno diritto all’Aspi soprattutto in forza della sentenza della Corte Costituzionale n. 269/02 e dell’art. 55 del D.lgs 151/2001, rappresentando una sorta di deroga, per quanto assistita da norme di pari grado, alla pretesa tassatività della legge in argomento.

Se tuttavia, fino a questo punto il Ministero resta su una linea interpretativa calibrata, da lì in poi l’interpello in argomento si lancia su ulteriori riflessioni.

Infatti, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale il Ministero rileva un parallelismo fra il ragionamento dei giudici delle leggi ed il caso in argomento, assimilando due  contesti diversi, infatti si va ad analizzare  lo stato di disoccupazione con la tutela della Maternità.

Il Ministero osserva che, essendo il licenziamento impugnabile,  il giudice ordinario potrebbe “ritenere” illegittimo il licenziamento e pertanto potrebbe risultare iniquo negare la protezione assicurativa dell’Aspi.

A parte la contraddizione di questo ragionamento con le proprie considerazioni precedenti ( se la negazione dell’Aspi appare iniqua in caso di licenziamento illegittimo, vuol dire che qualora il licenziamento sia legittimo essa apparirebbe, in fondo in fondo equa, creando una argomentazione almeno poco fondata.

Infine, il Ministero sostiene che il licenziamento disciplinare non può essere qualificato come disoccupazione volontaria, in quanto in tale licenziamento non sarebbe una conseguenza automatica del lavoratore dal momento che il licenziamento costituisce una “discrezionalità “ del datore di lavoro, in altre parole, la decisione del licenziamento darebbe una libera scelta del datore di lavoro, che avrebbe potuto anche scegliere di tenere in forza il lavoratore inadempiente o scorretto.

Al di là della discutibilità pratica di tale questione, da un punto di vista strettamente letterale ciò non è sostenibile almeno per quanto riguarda il licenziamento per giusta causa dove è previsto il pagamento dell’indennità di preavviso in capo al lavoratore , quindi se si riconosce che il lavoratore recedente per  giusta causa appare in qualche modo “obbligato” a compiere  tale scelta perché non viene garantita la stessa modalità al datore di lavoro.

E’ evidente, in conclusione, che buona parte delle argomentazioni contenute nell’Interpello portino nel senso opposto alle conclusioni del Ministero, il quale ancora una volta si è trovato nello scomodo e difficile ruolo di sostenere tesi insostenibili, ma con il pregio di far emergere e portare alla luce le molte contraddizioni della norma in questione.

Non resta che la speranza di una contro riforma che aggiusti il tiro prima che le sentenze creino ancora più disorientamento negli operatori del settore.

 

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