Diritto alla vita familiare dei componenti della coppia omosessuale Cassazione, sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184

 

DIRITTO ALLA VITA FAMILIARE DEI COMPONENTI DELLA COPPIA OMOSESSUALE

Cassazione, sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184

 

I componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, se – secondo la legislazione italiana – non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, tuttavia – a prescindere dall’intervento del legislatore in materia -, quali titolari del diritto alla “vita familiare” e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata e, in tale sede, eventualmente sollevare le conferenti eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni delle leggi vigenti, applicabili nelle singole fattispecie, in quanto ovvero nella parte in cui non assicurino detto trattamento, per assunta violazione delle pertinenti norme costituzionali e/o del principio di ragionevolezza.

Due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero, non sono titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano.

 

 

Cassazione, sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184

(Pres. Luccioli – Rel. Di Palma)

 

Svolgimento del processo

1. – In data 1 giugno 2002, A..G. e O.M. – entrambi cittadini italiani contrassero matrimonio a L’Aja (Regno dei Paesi Bassi).

Successivamente, in data 12 marzo 2004, gli stessi chiesero al Sindaco del Comune di Latina – ove avevano stabilito la loro residenza – la trascrizione dell’atto del predetto matrimonio. Il Sindaco, interpellato quale ufficiale del Governo e dello stato civile, con atto dell’11 agosto 2004, rifiutò la trascrizione richiesta, ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, essendo detto atto di matrimonio, formato all’estero, non suscettibile di trascrizione perché contrario all’ordine pubblico.

1.1. – Avverso il provvedimento di rifiuto della trascrizione il G. e l’O. proposero ricorso al Tribunale ordinario di Latina che – in contraddittorio con il Sindaco del Comune di Latina e con il Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale -, con decreto del 10 giugno 2005, respinse il ricorso.

1.2. – I medesimi odierni ricorrenti proposero reclamo avverso tale decreto dinanzi alla Corte d’Appello di Roma che – in contraddittorio con il Sindaco del Comune di Latina e con il Procuratore generale della Repubblica presso la stessa Corte, i quali chiesero entrambi la reiezione del reclamo e la conferma del decreto impugnato -, con decreto del 16 luglio 2006, rigettò il reclamo.

La Corte di Roma ha motivato tale decisione nei termini che seguono.

A) Quanto al motivo di reclamo – con il quale si sosteneva che la trascrizione dei matrimoni celebrati all’estero, avendo, ai sensi dell’art. 17 del citato d.P.R. n. 396 del 2000, natura meramente certificativa e dichiarativa, è atto dovuto ed “automatico”, ove sia data la prova della sua celebrazione secondo la lex loci – la Corte ha ritenuto che: Al) sulla base di quanto stabilito dall’art. 63, comma 2, lettera c), del d.P.R. n. 396 del 2000, sia l’ufficiale dello stato civile sia il giudice, adito ai sensi dell’art. 95 dello stesso d.P.R. n. 396 del 2000, debbono verificare che l’atto di cui si chiede la trascrizione, sia esso formato in Italia ovvero all’estero, abbia le “connotazioni proprie, nel nostro ordinamento, degli atti di matrimonio assoggettati a trascrizione negli archivi di cui all’art. 10” del medesimo d.P.R. n. 396 del 2000; A2) la trascrizione dell’atto di matrimonio formato all’estero – anche a voler condividere la tesi della sua natura meramente certificativa e dichiarativa e non costitutiva – non può tuttavia considerarsi “atto dovuto”, in quanto la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il principio “della ininfluenza della trascrizione ai fini della validità ed efficacia nel nostro ordinamento dell’atto di matrimonio celebrato all’estero tra cittadini italiani, validità ed efficacia per le quali si richiede, secondo le vigenti norme di diritto internazionale privato, la sussistenza dei requisiti di validità previsti dalla lex loci quanto alle forme di celebrazione e di quelli previsti dalla legge italiana quanto allo stato ed alla capacità delle persone”, ciò in forza del disposto di cui agli artt. 27 e 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218; A3) il carattere “automatico” della trascrizione non può desumersi neppure da quanto dispongono gli artt. 65 e 66 della stessa legge n. 218 del 1995 – circa l’efficacia immediata in Italia dei provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone e all’esistenza dei rapporti di famiglia ed ai provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione -, dal momento che l’atto di matrimonio celebrato all’estero, “sebbene soggetto a determinate forme solenni che prevedono la ricezione della volontà dei nubendi da soggetti investiti di un pubblico ufficio, non è certo assimilabile ad un provvedimento proveniente dall’autorità amministrativa o giurisdizionale, ma resta un atto negoziale e come tale deve essere considerato ai fini della individuazione delle norme che ne disciplinano gli effetti nell’ordinamento interno”.

B) Ciò premesso, la Corte ha individuato lo specifico thema decidendum della controversia nell’accertamento, secondo il disposto di cui all’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, “se sussistano o meno le condizioni per procedere alla trascrizione richiesta dalle parti” e, “a questo limitato fine”, ha ritenuto “non solo legittima, ma necessaria ed imprescindibile, la preliminare verifica se l’atto di cui si chiede la trascrizione possa o meno essere considerato atto di matrimonio, verifica che, proprio avuto riguardo alla funzione ed agli effetti di natura pubblicistica connessi alla trascrizione nei registri dello stato civile, non può che essere condotta con rigore alla stregua del diritto vigente e applicabile alla specie”.

C) La Corte, al fine di decidere tale specifica questione, ha proceduto secondo i seguenti passaggi argomentativi, concernenti il metodo ermeneutico seguito, il quadro normativo di riferimento e l’efficacia delle norme applicabili dal giudice italiano: C1) “[…] il fatto che il matrimonio, sebbene ricopra un ruolo centrale nel sistema normativo che disciplina i rapporti di famiglia, non sia “definito” nella Costituzione, né nel codice civile e neppure nelle leggi speciali che nel tempo hanno regolamentato l’istituto, deve indurre l’interprete chiamato ad individuarne il contenuto essenziale ad un’attenta considerazione della evoluzione che l’istituto possa avere avuto nel costume sociale oltre che nella sua disciplina positiva e a doverosamente utilizzare tutti i criteri di interpretazione di cui all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, fra i quali il criterio evolutivo”; C2) dal momento che lo Stato italiano fa parte “di una comunità internazionale che si è data regole e principi comuni, che ha proprie istituzioni e che con i suoi organi di giustizia si pone come autonomo referente per la tutela dei diritti dei singoli appartenenti alle varie comunità nazionali, deve essere considerato ai fini menzionati anche il contesto sovranazionale entro il quale l’ordinamento italiano si inserisce. L’ambito del sindacato richiesto è tuttavia pur sempre delimitato per l’interprete nella sede giurisdizionale dal rispetto degli ambiti di competenza di altri poteri dello Stato”; C3) a quest’ultimo riguardo, conseguentemente, “compete al legislatore dare attuazione, nelle forme che risulteranno conformi alla volontà parlamentare, quale espressione delle istanze provenienti dalla società, all’interno della quale è già da tempo presente il dibattito sull’argomento”, alle Risoluzioni del Parlamento Europeo dell’8 febbraio 1994, del 16 marzo 2000, del 14 luglio 2001 e del 4 settembre 2003, sul tema dei diritti degli omosessuali e delle unioni tra gli stessi, rivolte agli Stati membri dell’Unione Europea, “raccomandazioni a contenuto meramente programmatico alle quali non può essere riconosciuto alcun effetto vincolante per l’interprete chiamato ad applicare la normativa nazionale che si assume con esse configgente”; C4) “egualmente priva di obbligatorietà negli ordinamenti interni dei paesi UE” è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il cui art. 9 “garantisce […] il diritto a sposarsi e a costituire una famiglia, ma “secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”, relativamente al quale il testo delle spiegazioni che accompagna la Carta precisa che “L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso. Questo diritto è pertanto simile a quello previsto dalla CEDU [art. 12], ma la sua portata può essere più estesa qualora la legislazione nazionale lo preveda”; C5) è ben vero che numerosi Stati Europei hanno già introdotto nei rispettivi ordinamenti forme diverse, con effetti diversificati, di riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso – alcuni Stati sancendo un vero e proprio diritto al matrimonio -, ma “ciò è avvenuto all’esito di un lungo ed elaborato processo, nell’ambito del quale ogni comunità nazionale ha dovuto affrontare un’approfondita ricognizione delle libertà individuali meritevoli di tutela istituzionale in ambito familiare ed individuare i modelli normativi più rispondenti alla evoluzione delle realtà di questo tipo presenti nelle rispettive società”; processo che, invece, in Italia “è ancora in corso e presenta aspetti di tale delicatezza e complessità da non consentire alcuna anticipazione dell’interprete sulla base di una evoluzione della normativa esistente verso un nuovo assetto degli istituti interessati, evoluzione che non è allo stato rinvenibile nell’ordinamento nazionale, né perseguibile in via di interpretazione sistematica, analogica o estensiva delle norme di diritto interno, peraltro le uniche applicabili nella specie ai sensi dell’art. 27 della legge n. 218/95 e dell’art. 115 cod. civ., essendo i reclamanti entrambi cittadini italiani”; C6) “È dunque corretto ritenere […] che, mancando a livello Europeo ed extra Europeo una disciplina sostanziale comune e cogente delle unioni di tipo coniugale tra persone dello stesso sesso, non si possa prescindere dall’esaminare la corrispondenza dei modelli normativi liberamente scelti nei vari Stati agli istituti dell’ordinamento nazionale, non potendo attuarsi con lo strumento invocato dai reclamanti e attraverso la forzosa esportazione delle scelte operate da altre comunità nazionali il riconoscimento di nuove realtà di tipo familiare che deve trovare ingresso nella sede e nelle forme istituzionali proprie”.

D) Con specifico riferimento al caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’atto di matrimonio contratto dal G. e dall’O. non può essere trascritto nei registri dello stato civile, “perché non presenta uno dei requisiti essenziali per la sua configurabilità come matrimonio nell’ordinamento interno, la diversità di sesso tra i coniugi”. Al riguardo, la Corte ha sottolineato che: D1) dottrina e giurisprudenza – in forza del letterale disposto dell’art. 107 cod. civ., il quale prevede che l’ufficiale dello stato civile “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” – considerano la diversità di sesso dei nubendi, unitamente al consenso delle parti ed alla celebrazione, come requisiti per la stessa esistenza del matrimonio; D2) tale requisito della diversità di sesso dei nubendi è presupposta anche da altre disposizioni del codice civile (ad esempio, dagli artt. 108, 143, 143 bis, 143 ter, 156 bis) e dallo stesso art. 64, comma 1, lettera e), del d.P.R. n. 396 del 2000; D3) nessun argomento contrario può desumersi dall’art. 84 e seguenti cod. civ., i quali non menzionano la diversità di sesso dei nubendi tra le condizioni necessarie per contrarre matrimonio, dovendo accogliersi la distinzione tra requisiti di esistenza e requisiti di validità dell’atto, dei quali “i primi vengono ad essere presupposti dalle norme che disciplinano, con elencazione ritenuta tassativa, le cause di invalidità del matrimonio”; D4) a quest’ultimo riguardo, appare “decisivo il rilievo che per il legislatore del 1942, così come per il legislatore costituzionale, non sussisteva l’esigenza di alcuna specificazione in merito alla diversità di sesso dei coniugi, essendo questa insita nella comune accezione e nella tradizione sociale e giuridica dell’istituto matrimoniale e non essendosi all’epoca neppure profilata l’ipotesi di un’estensione dell’istituto all’unione affettiva tra persone dello stesso sesso”; D5) quanto alla “tutela costituzionale invocata dai reclamanti”, il riferimento dell’art. 29 Cost. alla famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” consente di affermare che “Il criterio di rapporto tra il legislatore e la realtà sociale indicato dalla Costituzione, […] mentre non costituisce di per sé ostacolo alla ricezione in ambito giuridico di nuove figure alle quali sia la società ad attribuire il senso ed il valore della esperienza famiglia, induce invece a ritenere illegittimo perseguire detto fine attraverso una forzatura in via interpretativa dell’istituto matrimoniale, essendo le connotazioni essenziali di questo saldamente ancorate al diritto positivo e alla concezione sociale di cui questo costituisce tuttora univoca espressione”.

2. – Avverso tale sentenza A..G. e O.M. hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura, illustrati con articolata memoria.

Resiste, con controricorso il Sindaco del Comune di Latina.

Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma, benché ritualmente intimato, non si è costituito né ha svolto attività difensiva.

3. – All’esito dell’odierna discussione, il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo (con cui deducono: “Sulla trascrivibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero e sulla presunta contrarietà all’ordine pubblico internazionale di tale negozio matrimoniale. Violazione degli artt. 2, 3, 10, 11 Cost.; artt. 9, 21 Carta di Nizza; art. 18 D.P.R. 396/2000”), i ricorrenti criticano il decreto impugnato, sostenendo che: a) l’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 – secondo il quale “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico” – deve essere interpretato nel senso che l'”ordine pubblico” ivi menzionato, “trattandosi di norma di relazione con ordinamenti estranei al nostro, deve intendersi come ordine pubblico internazionale e non interno”; b) ciò premesso, “occorre verificare: 1) se l’omosessualità sia un comportamento contrario all’ordine pubblico nel nostro Paese; 2) se sposarsi rientri tra i diritti fondamentali dell’individuo; 3) se dare pubblicità ad un atto negoziale come quello per cui è causa sia idoneo a stravolgere i valori fondamentali su cui si regge il nostro ordinamento”; c) quanto al primo quesito, si impone la risposta negativa sia perché altrimenti si determinerebbero effetti palesemente discriminatori in base all’orientamento sessuale, sia perché disposizioni comunitarie ed interne vietano esplicitamente discriminazioni fondate su tale orientamento; quanto al secondo quesito, si impone invece la risposta affermativa sia perché il diritto a contrarre matrimonio appartiene al novero dei diritti fondamentali, sia perché opinare diversamente comporterebbe negare il rispetto della dignità della persona e delle sue scelte di vita; quanto al terzo quesito, si impone nuovamente la risposta negativa sia in ragione del rilievo che “la clausola dell’ordine pubblico non ha uno scopo protezionistico, poiché al contrario consente di arricchire il nostro sistema con norme straniere, non confliggenti con i caratteri portanti dell’ordinamento del foro”, sia perché non esiste una espressa norma interna che vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso, sia infine perché esistono atti politici (Risoluzione del Parlamento Europeo dell’8 febbraio 1994, sulla parità dei diritti delle persone omosessuali; Risoluzione del Parlamento Europeo del 16 marzo 2000, sul rispetto dei diritti umani nell’Unione Europea) e norme dell’Unione Europea (Regolamento CE n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003, “relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento CE n. 1347/2000”, il cui art. 22, lettera a, introduce una nozione di ordine pubblico attenuato; art. 69-11 della Costituzione per l’Europa, che riproduce l’art. 9 della carta di Nizza, il quale riconosce il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia, senza fare alcun riferimento alla diversità di sesso tra i nubendi) che consentono, invece, di ritenere un matrimonio siffatto non collidente con l’ordine pubblico italiano e di evitare fenomeni di discriminazione; d) “Se il matrimonio omosessuale fosse contrario all’ordine pubblico, dovremmo revocare in dubbio la compatibilità del nostro ordinamento con quello comunitario, mentre giuridicamente si dovrebbe rendere ragione di come sia possibile al giorno d’oggi che il loro stare insieme sia ritenuto una minaccia per l’esistenza della società italiana”; e) il rifiuto di riconoscere la legittimità del matrimonio di persone dello stesso sesso collide con il principio di laicità dello Stato, che comporta il divieto di imporre regole tratte da una particolare morale di fonte religiosa.

Con il secondo motivo (con cui deducono: “Sulla nozione di matrimonio e sugli effetti giuridici nel nostro ordinamento di un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Violazione degli artt. 2, 3, 29 Cost.; art. 12 disp. prel.; 107, 108, 143, 143-bis, 143-ter, 156-bis cod. civ.; art. 28 L. n. 218/1995”), i ricorrenti criticano ancora il decreto impugnato – nella parte in cui afferma che è da considerare “inesistente” il matrimonio tra persone dello stesso sesso – sostenendo che: a) di fronte ad un fenomeno sociale del tutto nuovo, è errato fare riferimento alla tradizione interpretativa e al suo carattere vincolante, nonostante l’assenza di una norma espressa che vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso; b) “Non applicare le norme dell’istituto matrimoniale ad una coppia gay e lesbica lede il principio fondamentale del nostro sistema di diritto privato del rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali (tra cui rientra senz’altro il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia). In secondo luogo, contrasta con il principio di non discriminazione, ricavabile a livello sistematico a partire dall’art. 3, 2 co. Cost. Viola, infine, il principio di libertà e di autodeterminazione sancito dall’art. 13 Cost., in base al quale lo Stato non può interferire nelle scelte di vita dei cittadini”.

Con il terzo motivo (con cui deducono: “Sul contrasto con la Costituzione e con i principi fondamentali dell’ordinamento comunitario di un’interpretazione delle norme italiane che escluda la possibilità per le persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. Violazione degli artt. 9 Carta di Nizza; artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo; artt. 2, 3, 10, 2 co., Cost.; 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ.”), i ricorrenti criticano infine il decreto impugnato, sostenendo che un’interpretazione della vigente disciplina che escluda le coppie omosessuali dal matrimonio collide con la Costituzione e con il diritto comunitario. In particolare – dopo aver premesso che l’impossibilità di procreazione non è causa di nullità del vincolo matrimoniale, bensì, soltanto in certi casi {impotentia coeundi), di annullabilità per errore essenziale – essi sottolineano che: a) “La scelta della Corte d’Appello di Roma di non interpretare evolutivamente le norme in materia di matrimonio crea […] – a fronte di una situazione sul piano oggettivo (vita in comune) e soggettivo (reciproco affetto e scelta di condividere le proprie esistenze) assolutamente identica sia che si tratti di una coppia eterosessuale sia che si tratti di una coppia omosessuale una disparità di trattamento assolutamente irragionevole e ingiustificata alla luce dell’art. 3 Cost. Anzi, in spregio a questa norma, l’orientamento sessuale, condizione personale su cui non si può fondare alcun trattamento deteriore, è assunto dalla Corte territoriale a presupposto per un’evidente discriminazione”; b) una interpretazione dell’art. 29 Cost. – asistematica, restrittiva e storicamente cristallizzata -, sulla quale si fondasse la legittimità costituzionale del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, si porrebbe in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui riconoscono e garantiscono ad ogni essere umano il diritto di costituire una famiglia, fondandola sul matrimonio, e il diritto di autodeterminazione del singolo; c) contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici a quibus, l’art. 9 della Carta di Nizza ha una vera e propria efficacia precettiva, a séguito del suo inserimento nel trattato costituzionale per l’Europa.

2. – Il ricorso – i cui tre motivi illustrati con memoria possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione – non merita accoglimento, anche se la motivazione in diritto del decreto impugnato deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384, quarto comma, cod. proc. civ..

2.1. – La fattispecie in esame è la seguente: in data 1 giugno 2002, A..G. e M..O. , cittadini italiani, hanno contratto matrimonio a L’Aja (Regno dei Paesi Bassi) e, in quanto residenti in Latina, hanno chiesto la trascrizione del relativo atto, formato all’estero, al locale ufficiale dello stato civile, ai sensi del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. A séguito del rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di trascrivere detto atto di matrimonio in forza di precise istruzioni impartite dal Ministero dell’interno (cfr., in particolare, le circolari nn. 2 del 26 marzo 2001 e 55 del 18 ottobre 2007} – ostandovi l’art. 18 dello stesso d.P.R. n. 396 del 2000 (secondo il quale “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”), per l’identità di sesso dei contraenti il matrimonio -, gli odierni ricorrenti hanno adito con esito negativo, ai sensi degli artt. 95 e 96 del medesimo d.P.R. n. 396 del 2000, prima il Tribunale ordinario di Latina e poi, in sede di reclamo, la Corte d’Appello di Roma, perché fosse accertata l’illegittimità del rifiuto di trascrizione opposto dall’ufficiale dello stato civile del Comune di Latina e, conseguentemente, ordinata la trascrizione del predetto atto di matrimonio.

Pertanto, la specifica questione che – per la prima volta – è posta all’esame di questa Corte, consiste nello stabilire se due cittadini italiani dello Vi stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero – nella specie, nel Regno dei Paesi Bassi che, con la legge 21 dicembre 2000, n. 9, sull’apertura delle posizioni matrimoniali, ha tra l’altro sostituito l’art. 30, comma 1, del codice civile, il quale dispone che “Un matrimonio può essere celebrato tra due persone di sesso diverso o dello stesso sesso” -, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano.

È di tutta evidenza che la risposta a tale specifico quesito dipende dalla soluzione della più generale questione – anch’essa nuova per questa Corte -se la Repubblica italiana riconosca e garantisca a persone dello stesso sesso, al pari di quelle di sesso diverso, il “diritto fondamentale di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (Corte costituzionale, sentenza n. 245 del 2011, che richiama la sentenza n. 445 del 2002).

Infatti, ove la risposta a questo più generale quesito fosse affermativa, ne conseguirebbe che il matrimonio celebrato all’estero tra cittadini italiani dello stesso sesso, quale atto d’esercizio di tale fondamentale diritto, avrebbe immediata validità ed efficacia nel nostro ordinamento, alle condizioni che esso risultasse celebrato secondo le forme previste dalla legge straniera e, quindi, spiegasse effetti civili nell’ordinamento dello Stato della celebrazione, e che sussistessero gli altri requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana; con l’ulteriore conseguenza che la trascrizione dell’atto di matrimonio nel corrispondente registro dello stato civile italiano, non avendo natura costitutiva ma meramente certificativa e di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio locus regit actum, formerebbe oggetto di un vero e proprio diritto di ciascuno dei coniugi e costituirebbe, perciò, attività “dovuta” dell’ufficiale dello stato civile richiesto.

2.2. – Tanto premesso, è opportuno muovere proprio dalla questione specifica dianzi enunciata (cfr., supra, n. 2.1.), relativamente alla quale le norme, di rango primario o sub-primario, rilevanti – ancorché in prima approssimazione, come si vedrà – sono:

A) L’art. 115, cod. civ., secondo il quale “Il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione prima di questo capo, anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite”: è soggetto, cioè, alle disposizioni di cui ai precedenti articoli da 84 a 88, che disciplinano le “condizioni necessarie per contrarre matrimonio”, come recita la rubrica di detta sezione. Disposizioni queste che, stabilendo gli impedimenti al matrimonio cosiddetti “dirimenti”, pongono certamente, di regola, norme di “ordine pubblico”.

B) L’art. 27, primo periodo, della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), il quale dispone che “La capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio”; il successivo art. 28 della stessa legge n. 218 del 1995, secondo cui “Il matrimonio è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento”; l’art. 65 della medesima legge n. 218 del 1995, laddove, nel disciplinare l’efficacia di provvedimenti e di atti stranieri, dispone che “Hanno effetto in Italia i provvedimenti stranieri relativi […] all’esistenza di rapporti di famiglia […] quando essi sono stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della presente legge o producono effetti nell’ordinamento di quello Stato […], purché non siano contrari all’ordine pubblico […]”.

C) Alcune disposizioni del più volte menzionato d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), che è certamente qualificabile, sul piano delle fonti, come regolamento cosiddetto di “delegificazione”.

Al riguardo, è opportuno sottolineare immediatamente che le relative disposizioni hanno, appunto, natura e valore regolamentare, sicché l’eventuale sindacato della loro legittimità può svolgersi secondo i principi più volte enunciati dalla Corte costituzionale.

“Il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema delle fonti, in particolare con riferimento a quelle di valore regolamentare adottate in sede di “delegificazione”, non è comunque pregiudicato dall’anzidetta limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale. La garanzia è normalmente da ricercare, volta a volta, a seconda dei casi, o nella questione di costituzionalità sulla legge abilitante il Governo all’adozione del regolamento [nella specie, sull’art. 2, comma 12, della citata legge n. 127 del 1997], ove il vizio sia a essa riconducibile (per avere, in ipotesi, posto principi incostituzionali o per aver omesso di porre principi in materie che costituzionalmente li richiedono); o nel controllo di legittimità sul regolamento, nell’ambito dei poteri spettanti ai giudici ordinari o amministrativi, ove il vizio sia proprio ed esclusivo del regolamento stesso” (cfr. la sentenza n. 427 del 2000, n. 4. del Considerato in diritto; cfr. anche, per un’applicazione di tali principi, la sentenza n. 251 del 2001, n. 3. del Considerato in diritto].

Di dette disposizioni rilevano, in particolare: 1) l’art. 9 (che reca la rubrica: “Indirizzo e vigilanza”), comma 1, secondo cui “l’ufficiale dello stato civile è tenuto ad uniformarsi alle istruzioni che vengono impartite dal Ministero dell’interno” (nella specie, l’ufficiale dello stato civile, nel rifiutare la trascrizione per contrarietà dell’atto di matrimonio celebrato all’estero all’ordine pubblico ai sensi dell’art. 18 dello stesso decreto, si è appunto uniformato alle istruzioni generali previamente impartite dal Ministero dell’interno, dianzi citate); 2) l’art. 16, sul matrimonio celebrato all’estero, il quale stabilisce che “Il matrimonio all’estero, quando gli sposi sono entrambi cittadini italiani o uno di essi è cittadino italiano e l’altro è cittadino straniero, può essere celebrato innanzi all’autorità diplomatica o consolare competente, oppure innanzi all’autorità locale secondo le leggi del luogo. In quest’ultimo caso una copia dell’atto è rimessa a cura degli interessati all’autorità diplomatica o consolare”; 3) l’ora menzionato art. 18, sui casi di intrascrivibilità, il quale statuisce che “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”; 4) l’art. 63, comma 2, lettera c), per il quale “Nei medesimi archivi [di cui all’art. 10] l’ufficiale dello stato civile trascrive: […] c) gli atti dei matrimoni celebrati all’estero”; 5) l’art. 64 (che reca la rubrica: “Contenuto dell’atto di matrimonio”), comma 1, lettere a), b), c) ed e), secondo cui “L’atto di matrimonio deve specificamente indicare: a) il nome e il cognome, il luogo e la data di nascita, la cittadinanza e la residenza degli sposi […]; b) la data di eseguita pubblicazione […]; c) il decreto di autorizzazione quando ricorra alcuno degli impedimenti di legge […]; e) la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie”.

Dal complesso di tali disposizioni regolamentari emerge chiaramente che all’ufficiale dello stato civile competente – tenuto ad uniformarsi, si ribadisce, alle istruzioni impartite dal Ministero dell’interno in materia (art. 9, comma 1, cit.) – sono attribuiti penetranti poteri di controllo (anche) sulla trascrivibilità degli atti di matrimonio celebrati all’estero, come risulta inequivocabilmente, in particolare, dalle citate lettere del comma 1 dell’art. 64 che, imponendo precisi contenuti dell’atto di matrimonio trascrivibile, attestano l’esistenza di tali poteri e la astratta legittimità del loro esercizio: è fatto salvo infatti, conformemente ai su richiamati principi affermati dalla Corte costituzionale, il sindacato di costituzionalità sull’art. 2, comma 12, della menzionata legge n. 127 del 1997, abilitante il Governo all’adozione del regolamento, nonché il sindacato giurisdizionale di legittimità sia della norma regolamentare attributiva del potere (che può essere “disapplicata”, ove ne sussistano i presupposti, ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E), sia del concreto atto di esercizio di tale potere (nella specie, rifiuto di eseguire la trascrizione richiesta), ai sensi dell’art. 95, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 396 del 2000.

2.2.1. – Questo essendo il quadro normativo di riferimento rilevante, sia pure in prima approssimazione, per la soluzione della questione specifica in esame, deve essere subito rammentato che la giurisprudenza di questa Corte in materia di matrimoni civili dei cittadini italiani celebrati all’estero è ferma nell’enunciare il già menzionati principio, secondo cui, in base alle norme del codice civile e del diritto internazionale privato, tali matrimoni hanno immediata validità e rilevanza nel nostro ordinamento, sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera (e, quindi, spieghino effetti civili nell’ordinamento dello Stato straniero di celebrazione) e sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana, e secondo cui tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla pubblicazione, perché la loro violazione può dar luogo soltanto ad irregolarità suscettibili di essere sanzionate amministrativamente, ovvero alla trascrizione, perché questa ha natura non costitutiva ma meramente certificativa e funzione di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio locus regit actum (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 10351 del 1998, 9578 del 1993, 3599 e 1304 del 1990).

Nella specie pertanto, sulla base di tali principi, il matrimonio – ove fosse stato contratto da persone di sesso diverso – sarebbe, in assenza di (altri) impedimenti “dirimenti”, valido ed efficace nell’ordinamento italiano e comporterebbe il dovere dell’ufficiale dello stato civile richiesto di trascrivere nel corrispondente registro il relativo atto formato all’estero.

2.2.2. – Ma la diversità di sesso dei nubendi è – unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell’ufficiale dello stato civile celebrante -, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, requisito minimo indispensabile per la stessa “esistenza” del matrimonio civile come atto giuridicamente rilevante (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 1808 del 1976, 1304 del 1990 cit., 1739 del 1999, 7877 del 2000).

Questo requisito – pur non previsto in modo espresso né dalla Costituzione, né dal codice civile vigente {a differenza di quello previgente del 1865 che, nell’art. 55 ad esempio, stabiliva, quanto al requisito dell’età: “Non possono contrarre matrimonio l’uomo prima che abbia compiuto gli anni diciotto, la donna prima che abbia compiuto gli anni quindici”), né dalle numerose leggi che, direttamente o indirettamente, si riferiscono all’istituto matrimoniale – sta tuttavia, quale “postulato” implicito, a fondamento di tale istituto, come emerge inequivocabilmente da molteplici disposizioni di tali fonti e, in primo luogo, dall’art. 107, primo comma, cod. civ. che, nel disciplinare la forma della celebrazione del matrimonio, prevede tra l’altro che l’ufficiale dello stato civile celebrante “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” (si veda anche l’art. 108, primo comma).

L’inequivocabile corrispondenza di tali parole “marito” e “moglie” – utilizzate dal legislatore in modo assolutamente prevalente rispetto ad altre espressioni di analogo significato -, rispettivamente, con la parte maschile e con la parte femminile dell’atto (e del rapporto} matrimoniale è attestato anche da numerose disposizioni del diritto vigente. In particolare ed a mero titolo esemplificativo, detta corrispondenza è del tutto evidente nel secondo e nel terzo comma dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall’art. 9 della legge 6 marzo 1987, n. 74, i quali, in chiarissimo riferimento all’art. 143-jbis cod. civ. secondo cui “La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito […]” -, dispongono che, quando il tribunale pronuncia sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, “La donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a séguito del matrimonio [secondo comma]”, e che lo stesso tribunale “può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela [terzo comma]”.

Il diritto positivo vigente e la giurisprudenza che su di esso si è formata, del resto, non fanno che riflettere anche “una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio”, come sottolinea la Corte costituzionale che, nel richiamare tale icastica espressione del Tribunale di Venezia nell’ordinanza di rimessione, conclude sul punto: “In sostanza l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi [corsivo aggiunto]” (cfr. la sentenza n. 138 del 2010, n. 6 del Considerato in diritto).

Postulato non arbitrario, ma fondato su antichissime e condivise tradizioni – culturali (l'”ordine naturale” esige la diversità di sesso dei nubendi), prima ancora che giuridiche – che il diritto, come in altri innumerevoli casi, nel rispecchiare, ordina.

Al riguardo, tra i molti esempi possibili, può menzionarsi la definizione del matrimonio data dai giuristi romani classici (che designavano l’istituto con i termini di “iustae o legitimae nuptiae” o di “iustum o legitimum matrimonium”): “Iustum matrimonium est, si inter eos qui nuptias contrahunt conubium sit, et tam masculus pubes quam femina potens sit, et utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in potestate sunt” (rituli ex corpore Ulpiani, 5, 2).

Inoltre, non è senza significato che, a distanza di quasi due millenni, la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, preveda che “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione” (art. 16, paragrafo 1); analoga previsione è contenuta nell’art. 23, paragrafo 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato e aperto alla firma a New York il 19 dicembre 1966 e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, secondo cui “Il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia è riconosciuto agli uomini e alle donne che abbiano l’età per contrarre matrimonio”). Tutto ciò, “benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta”, come nota la Corte costituzionale nella già menzionata sentenza n. 138 del 2010, a proposito del dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente sul futuro art. 29 della Costituzione, concludendo sul punto che tale norma costituzionale “non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto [corsivo aggiunto]” (Considerato in diritto, n. 9). Ed il richiamo a tale “tradizione” è significativamente contenuto più volte anche nella sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, di poco successiva a quella della Corte costituzionale (sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria) e profondamente innovativa in materia, che verrà analizzata più oltre (cfr., infra, n. 3.3.3.)

L’ordinamento giuridico italiano, perciò, ha conosciuto finora, e conosce attualmente – salvo quanto si dirà più oltre (cfr., infra, nn. 3 e 4) -, un’unica fattispecie integrante il matrimonio come atto: il consenso che, nelle forme stabilite per la celebrazione del matrimonio, due persone di sesso diverso si scambiano, dichiarando che “si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” (art. 107, primo comma, cod. civ., cit.). La diversità di sesso dei nubendi è, dunque, richiesta dalla legge per la stessa identificabilità giuridica dell’atto di matrimonio. Proprio di qui la conseguenza, condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte e dalla prevalente dottrina, che l’atto mancante di questo requisito comporta la qualificazione di tale atto secondo la categoria non della sua validità, ma della sua stessa esistenza. Categoria, questa dell’inesistenza (la cui prima elaborazione risale ai canonisti medioevali, i quali consideravano appunto inesistente il matrimonio contratto da persone dello stesso sesso, perché, pur in assenza di una norma positiva, contrario al concetto “naturale” del matrimonio), che consente, sul piano pratico, di impedire il dispiegamento di qualsiasi effetto giuridico dell’atto di matrimonio, sia pure meramente interinale, a differenza dell’atto di matrimonio nullo che, invece, tali effetti può, quantomeno interinalmente, produrre (cfr. artt. da 117 a 129 cod. civ.). Categorizzazione, inoltre, del tutto coerente con la premessa che l’atto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, mancando di un requisito indispensabile per la sua stessa identificabilità come tale secondo la fattispecie astratta normativamente prefigurata, non è previsto dall’ordinamento e quindi, in questo senso, “non esiste”.

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