La diversa valutazione della prova in sede di giudizio d’appello: la riforma della sentenza di assoluzione (A.Continiello)

LA DIVERSA VALUTAZIONE DELLA PROVA IN SEDE DI GIUDIZIO D’APPELLO: LA RIFORMA DELLA SENTENZA DI ASSOLUZIONE

(ALLA LUCE DEGLI ULTIMI E NOTI CASI GIUDIZIARI).

 

Alessandro Continiello

 

È possibile che, in seno al giudizio di secondo grado, come previsto dal nostro codice di procedura penale, in seguito ad impugnazione (appello) da parte della Pubblica Accusa di una sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di prime cure, intervenga un c.d. ribaltamento della sentenza, con successiva irrogazione di una condanna. Analogamente può accadere che, una sentenza di condanna emessa in primo grado, venga riformata (assoluzione) in sede di giudizio di secondo grado.

Un’interessante dissertazione sul punto è stata redatta dal ricercatore universitario dott. Valerio Aiuti allorchè, partendo da una pronuncia della Suprema Corte (sez. III, ud. 27.09.2012, n. 42007: “E’ legittima la sentenza di appello che, in riforma della decisione di condanna intervenuta in primo grado, assolva l’imputato sulla base della valutazione del medesimo compendio probatorio, atteso che l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza” – in Cassazione Penale n.11/2013), ha trattato la riforma della condanna, in assoluzione (“the conviction’s overturning in second istance”).

 

In questo caso desidero analizzare la situazione inversa, ovvero “da assolto a condannato”, sulla falsariga di quanto accaduto in un recente caso giudiziario.

Per riformare in peius una sentenza assolutoria – soprattutto sulla base del medesimo compendio probatorio ed indipendentemente, in prima istanza, che si sia optato per il giudizio abbreviato o dibattimentale  –, non è assolutamente sufficiente una semplice e differente valutazione caratterizzata da pari o minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo Giudice, ma occorre che la sentenza d’appello abbia una forza persuasiva superiore tale, da far cadere ogni ragionevole dubbio.

 

Sul punto il Prof. Dominioni ha espresso il presente rilievo: “Al di là delle formule decisiorie concepite negli artt. 529 ss c.p.p., che denunciano una densa vischiosità legislativa nell’abbandonare la tipologia delle sentenze del codice del 1930, il tema di decisione, infatti, è se l’imputato sia colpevole, non se sia colpevole o innocente; la sua innocenza, presidiata da quella presunzione iuris tantum, non esige una pronuncia di accertamento, unicamente e altrettanto efficacemente palesandosi in via residuale, per così dire controluce, da una pronuncia negativa sulla colpevolezza: “not guilty”, nello schema di common law” (in “La prova penale scientifica” pag. 351).

In linea astratta risulta plausibile che sia intervenuta una condanna dell’imputato, poi riformata in melius, in seguito ad un “errore” di valutazione del materiale d’indagine da parte dei primi Giudici; ma è evidente che, un rapporto tra due decisioni che si concludono in maniera diametralmente opposta, desta serie perplessità soprattutto se, immutato il compendio probatorio, si passi da assoluzione a condanna.

Recita la Suprema Corte:“Nell’ipotesi, invece, di ribaltamento del giudizio di primo grado, incombe sul giudice di appello un obbligo rafforzato di motivazione, che si sostanzia nel compito di confutare specificamente le ragioni che avevano condotto il primo giudice ad una decisione assolutoria, tenendo altresì conto dei contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello e di ogni elemento di prova acquisito in primo grado addotto a sostegno della prospettazione difensiva, anche ove di tali elementi il primo giudice non abbia fornito specifica valutazione ritenendoli assorbiti da altri, più decisivi, considerati invece irrilevanti o non convincenti dal giudice del gravame.

In detta ipotesi il giudice d’appello ha, insomma, l’obbligo di dimostrare specificamente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti posti a base dell’assoluzione di primo grado, con analisi critica rigorosa e motivazione completa e convincente che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi rispetto a quelli posti a fondamento della prima decisione o della diversa valutazione degli stessi elementi.

E tanto impone, a fronte dell’assoluzione di primo grado, proprio il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che altro non esprime se non la necessità di un giudizio di altamente probabile e verosimile colpevolezza, in ossequio, nel dubbio reso palese dalla possibilità di opposte valutazioni pressochè parimenti plausibili, alla regola del favor rei”. (sez. I, ud. 15 luglio 2009, dep. 09 settembre 2009, n. 10788, Pres. Fazoli, Rel. Di Tomassi, P.G. D’Angelo –non massimata-).

 

La sentenza richiamata traccia, ictu oculi, delle linee-guida che sono necessarie allorché ci si trovi, come visto, di fronte ad un “giudizio di ribaltamento” (rectius: riforma) da assoluzione a condanna. La Cassazione, infatti, ribadisce il concetto già espresso in precedenti occasioni per cui incombe sul Giudice di appello un “obbligo rafforzato” di motivazione, che si sostanzia nel compito di confutare specificamente le ragioni che avevano condotto il primo Giudice ad una decisione assolutoria. In detta ipotesi il Giudice del gravame ha, quindi, l’obbligo di dimostrare “specificamente” l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti posti a base dell’assoluzione di primo grado, con analisi critica rigorosa e motivazione completa e convincente.

Il viatico da seguire è quello secondo cui, la diversa spiegazione del fatto, non può basarsi, di conseguenza, sulla semplice “possibilità” della differente valutazione prescelta dal secondo Giudice, ma deve fondarsi su dati e considerazioni che, svelando l’erroneità o l’illogicità palese delle motivazioni, conducano univocamente al convincimento della colpevolezza dell’imputato (sul punto: Cass. sez.VI, 20 aprile 2005 Aglieri; Cass. sez.VI. 29 novembre 2004 Marchirello; nonché SS.UU. 24 novembre 2003, Andreotti).

Nell’indicare il percorso che l’organo giudicante deve seguire per motivare una sentenza (di riforma) da assoluzione a condanna, implicitamente si riproprone l’annosa questione in ordine alla possibilità, da parte della Pubblica Accusa, di poter impugnare una sentenza assolutoria, con eventuale giudizio di reformatio in peius (violando, in tal guisa, il brocardo latino “ab omni iudicio poenaque provocari licet)”.

 

È noto agli addetti ai lavori che la vexata questio era stata risolta attraverso la presentazione della c.d. Legge “Pecorella” nr. 46/2006, con la quale si prevedeva il divieto di appellabilità delle sentenze di assoluzione, modificando gli artt. 593, 594, 605, del codice di procedura penale.

Con quella nuova norma l’Accusa aveva comunque il potere di ricorrere dinanzi la Suprema Corte di Cassazione che, in tal modo, sarebbe divenuta quello che Giudo Calogero auspicava fosse, ossia un organo di controllo della logica del Giudice e del suo giudicare.

Legge questa che, peraltro, concretizzava ulteriormente il processo accusatorio, così come viene disciplinato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

L’aver tentato di sottrarre al Pubblico Ministero la possibilità di appellarsi, rispondeva ad un aspetto processualmente rilevante che è riassumibile nella seguente domanda: come fa un Pubblico Ministero a motivare un appello (rectius: motivi d’impugnazione) se non riesce a dimostrare al Giudice di prime cure, organo terzo ed imparziale, la fondatezza del suo impianto accusatorio? Ha senso, quindi, duplicare un giudizio?

Come è noto però, pochi mesi dopo l’entrata in vigore della discussa riforma, le Corti d’Appello di Roma e di Milano, con ordinanze del 16.03.2006, avevano occasione di sollevare di fronte alla Consulta, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale. I Giudici della Corte, riuniti i giudizi ed accolte le censure d’incompatibilità avanzate, avevano poi dichiarato l’illegittimità dell’articolo 1 comma secondo della legge nr. 46/2006, con sentenza nr. 26 del 24 gennaio-6 febbraio 2007 (Relatore Flick). Per il vero la Corte ha nuovamente affrontato la medesima questione anche con le sentenze nrr. 85 del 2008 e 121 del 2009.

Sostanzialmente la premessa di base seguita dai Giudici della Consulta, nel valutare la compatibilità delle disposizioni, è stata quella, in primo luogo di collocare la disciplina delle impugnazioni entro l’ambito applicativo del principio di “parità delle armi”, ex art. 111 Cost., sebbene necessariamente interpretato alla luce delle differenze strutturali tra le due parti processuali, accusa e difesa, giungendo così ad una decisione di incostituzionalità della norma.

 

Come si può notare la questione è sempre attuale e di difficile interpretazione.

 

Anche la CEDU ha avuto modo di pronunciarsi, con un consolidato orientamento ermeneutico volto a sancire l’iniquità del processo che, in secondo grado, conduce ad una condanna dell’imputato attraverso la rivalutazione su base esclusivamente “cartolare” della prova  (vedasi sentenza Dan. C. Repubblica Moldava, emessa dalla CEDU, sez. III, 14.06.2011; nello stesso senso: sent. Manolachi c. Romania, 05.03.2013).

Sulla falsariga della suindicata sentenza, così ha statuito la nostra Corte di Cassazione: “Il giudice di appello, per riformare in “peius” una sentenza assolutoria, è obbligato –in base all’art. 6 CEDU-, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia – alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile” (cfr. Cass., sez. VI, 26.02.2013, n. 16566, CED Cass. Pen. 2013).

Ma, per entrare ancora più nello specifico quanto al thema in esame, si riporta un altro passaggio della sentenza suindicata: “L’attuale assetto intepretativo, comunque, in assenza di una regola di scissione tra fase rescindente e rescissoria del giudizio di appello, prevede una specifica modalità di motivazione (corrispondente ad una più seria prova di responsabilità) della sentenza di appello che, laddove ribalti la decisione assolutoria di primo grado, non deve soltanto effettuare una logica ricostruzione dei fatti e darne adeguatamente conto della motivazione, ma deve necessariamente confrontarsi in modo quanto mai esplicito con la decisione di primo grado e rilevare se la diversa decisione sia conseguenza di una valutazione alternativa del medesimo materiale probatorio o, invece, di specifici errori, logici o fattuali.

Nel primo caso, difatti, pur se la decisione in sede di appello dovesse apparire convincente, laddove non si possa affermare che la prima sentenza assolutoria non sia di per sé illogica ma soltanto “alternativa”,  non potrà che ritenersi che vi sia un “ragionevole dubbio” che non può che risolversi in favore dell’imputato (la sua responsabilità non sarebbe dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio).

Nel secondo caso, invece, dovranno essere individuati i punti che rendono insostenibile la decisione di primo grado, per errore di valutazione della prova o per snodi illogici del ragionamento, per omissione di valutazione di elementi fondamentali, quali prove non considerate od erroneamente ritenute inutilizzabili..

In questo caso, difatti, la lettura proprosta della sentenza di condanna a seguito di appello dovrà essere l’unica decisione possibile alle date condizioni..”.

 

Dalla lettura della sentenza richiamata, si evidenzia un altro dibattuto concetto, ossia il “ragionevole dubbio”.

Nella tradizione di civil law l’espressione di tale regola (il superamento dell’oltre il ragionevole dubbio per giungere ad una condanna) si traduce nel brocardo  “in dubio pro reo”, traslato poi, con la formula di common law, nell’ “oltre ragionevole dubbio” che, in re ipsa, calibra uno standard probatorio per la decisione di condanna marcatamente più elevato (anche alla luce dell’art. 27 cpv. Cost.).

Ma come si concretizza, da parte dell’organo giudicante, il “ragionevole dubbio”?

Certamente, come cita il Prof. Dominioni nel suo testo, non cercando di individuarlo in termini quantitativi e neppure con definizioni qualitative imperniate su connotazioni del tipo “reale”, “tangibile”, “sostanziale”, “serio”, “ben fondato”.

Si potrebbe allora dire che, “perché sia legittimata una decisione di colpevolezza, i giudizi coniugati dalla valutazione probatoria, debbono essere esenti da un qualsiasi dubbio che infirmi la ragionevole certezza pratica di esistenza del fatto: il Giudice deve cioè disporre di un “vero” che significa “talmente probabile che il possibile dubbio residuo possa essere ragionevolmente rimosso; cioè a dire, i criteri del giudizio razionale debbono portare ad escludere il dubbio che dunque non sussiste perché solo apparente”.

Qualunque, seppur minimo dubbio, anche estremo, non ragionevolmente superabile sulla fondatezza dell’impianto accusatorio, non riesce a superare la presunzione d’innocenza che deve rimanere una pietra miliare nel nostro processo, per acclarare la responsabilità penale di un indagato/imputato in sede processuale.

Con questo si devono, a mio avviso, superare quei concetti logici che si traducono in formule (errate) di pensiero, quali  “non poteva che essere lui/lei” ovvero “chi altro se non lui/lei”, soprattutto quando è stata pronunciata, in primo grado – e quindi passata al vaglio tecnico di un organo giudicante, quale il Tribunale o la Corte d’Assise – una sentenza di proscioglimento (è bene ricordare che, nelle aule di giustizia, si ricerca la c.d. “verità processuale” che, non sempre, è simmetrica alla “verità dei fatti”).

 

Per volgere alla conclusione della presente dissertazione, desidero affrontare brevemente un altro punto dolente, quanto alla (dimostrazione della) responsabilità penale: la “valutazione della prova scientifica”, sempre sotto l’egida “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”.

Un giudizio esente da dubbi sulla idoneità probatoria dello strumento tecnico-scientifico determina, se positivo, una decisione di condanna quando si tratti di prova a carico e di assoluzione, quando prova a discarico; se negativo su una prova a carico, concorre a configurare, quando il restante materiale probatorio sia del medesimo segno, una situazione di “mancanza” di prova, ai sensi dell’art. 530 co. II c.p.p., determinando una decisione di assoluzione. Un giudizio inficiato dal dubbio sui medesimi temi, salvo che vi sia altro materiale probatorio di diverso segno, determina una decisione di assoluzione, si tratti di prova a carico o a discarico. Questi sono i giusti rilevi del Prof. Dominioni che richiamano i dettami del Prof. Stella.

Quanto alla prova scientifica, stante appunto la regola “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”, la pronuncia di condanna necessita che sull’idoneità probatoria di una prova a carico sia formulato un giudizio positivo esente da dubbi, mentre per la pronuncia di assoluzione basta che su tale requisito della prova a discarico sia formulato un giudizio di dubbio.

Ed ecco allora che ritorna la circostanza per cui, in presenza di una prova scientifica ed al libero convincimento del Giudice (alla stregua del concetto di peritus peritorum), se non viene superata, anche con tale mezzo, la soglia della (quasi) certezza in ordine alla responsabilità, la pronuncia non potrebbe che essere assolutoria, alla luce del I o II comma dell’art. 530 cod. proc. pen. (così riallacciandosi al caso iniziale del “ribaltamento” della sentenza di assoluzione senza l’intervento di nuove prove scientifiche, ma sulla base del medesimo compendio probatorio, soprattutto se il procedimento si era celebrato con rito abbreviato).

 

I latini dicevano: “Latius est impunitum relinqui facinus nocentis quam innocentem damnari” (trad.: Meglio lasciare impunito un colpevole – aggiungo presunto – che condannare un innocente).

La cronaca giudiziaria insegna come questo fondamentale principio sia stato, in qualche occasione, disatteso.

Osservava lo scrittore Francois de La Rochefoucauld in un suo celebre aforisma: “Nella maggior parte degli uomini, l’amore della giustizia non è altro che timore di patire l’ingiustizia” a cui rispondeva, astrattamente, Piero Calmandrei: “Per trovare la giustizia bisogna esser fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede”.

 

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