Rappresentanza apparente e ratifica del dominus putativo (S. Campidelli)

II.                  Il fondamento giuridico della rappresentanza apparente.

In generale, l’istituto dell’apparenza iuris sorge principalmente dalla necessità – peculiare del diritto commerciale, ma costituente, oramai, principio di ordine pubblico – di garantire la certezza dei traffici giuridici e di tutelare il legittimo affidamento del contraente in buona fede.

Procedendo nell’analisi delle singole fattispecie tipiche, invece, è doveroso chiarire come il fenomeno dell’apparenza si riconduca a specifiche prescrizioni normative che lo contemplano espressamente[8] oppure ad opzioni interpretative proposte dalla giurisprudenza allo scopo di reagire alle ingiustizie sostanziali determinate dalla formalistica applicazione delle norme di diritto positivo[9].

In materia di rappresentanza, però, appare arduo configurare l’apparenza come principio generale o, tanto più, quale diretta emanazione di una specifica prescrizione, se è vero che l’art. 1398 c.c., nel prevedere espressamente, quale unico strumento di tutela del deceptus in buona fede, il risarcimento del danno nei confronti del falsus procuratur, non concedendo, epperò, alcuna azione verso il dominus putativo, sembra attribuire rilievo preminente all’autonomia negoziale del falso rappresentato.

Sicché, risultando piuttosto difficile attribuire all’apparenza in sé considerata (cd. apparenza pura) un’autonoma rilevanza giuridica[10], la tutela del contraente in buona fede può essere accordata in presenza di ulteriori elementi fattuali, specialmente di natura soggettiva, tali da dimostrare l’iniquità sostanziale della situazione generata dalla scrupolosa osservanza delle norme sulla rappresentanza: iniquità che si tenta di sanzionare, appunto – non già direttamente in forza dell’art. 1388 c.c., bensì –, alla stregua di differenti previsioni normative.

In particolare, si è proposto di rinvenire il fondamento della responsabilità del falso rappresentato nell’art. 2043 c.c., identificando:

Ø  il danno ingiusto, nell’incolpevole affidamento del terzo contraente circa la validità del negozio, espressamente riconosciuto, quale situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela, dagli artt. 1338 e 1398 c.c.[11];

Ø  l’azione antigiuridica, nella agevolazione o, comunque, nella tolleranza del comportamento abusivo del falsus procurator da parte del dominus putativo, al quale può essere imputata anche una colpa, quantomeno di natura omissiva, consistente nell’astensione dal dovere di inibire al preteso procuratore la spendita del proprio nome[12]. In questo senso, sembra potersi affermare che il contegno dell’asserito rappresentato diviene contra ius nel momento in cui, dopo aver appreso dell’ingiustificata contemplatio domini, non si attivi per rimuoverne le conseguenze, anche solo potenzialmente, pregiudizievoli per i terzi.

È in questo contesto che è sorta, quantomeno agli albori della storia dell’istituto, l’esigenza di censire la correttezza e l’idoneità del contegno concretamente adottato dal dominus putativo e dal terzo contraente nel corso dell’intera dinamica negoziale, con riguardo – non soltanto al momento genetico, ma anche – alla fase esecutiva del rapporto, procedendo, successivamente, ad un giudizio di valore fra gli stati soggettivi di entrambi i contraenti.

Così, la giurisprudenza, confermando la tendenziale irrilevanza dell’apparenza pura, ha riscontrato la sussistenza della fattispecie colposa (suscettibile, dunque, di giustificare il ricorso ad un qualche sistema rimediale) in presenza di un duplice requisito, ossia, (i) per quanto riguarda il terzo contraente, la scusabilità dell’errore e, (ii) con riferimento al preteso dominus, la colpevole latitanza dal dovere di intervenire avverso l’abusiva spendita del nome a mani del falsus procurator.

La predetta ricostruzione dell’istituto in parola è suscettibile di essere integrata con due precisazioni, ossia:

·         da un lato, con la imputazione al rappresentato degli effetti giuridici derivanti dal contratto concluso dal suo presunto procuratore sulla base di un titolo in forma specifica ex art. 2058 c.c. del danno cagionato al terzo, secondo un ragionamento sostanzialmente coincidente a quello per cui l’annullamento del contratto per dolo determinante viene ricondotto all’egida dell’art. 2058 c.c.[13];

·         dall’altro, ove, in capo al falsus procurator, sia riscontrabile una culpa in contraendo e lo stesso sia  legato ad un rapporto di preposizione con il dominus putativo (e si tratta, nella pratica, del caso più frequente), nei confronti di quest’ultimo potrebbe essere direttamente invocata la responsabilità ex art. 2049 c.c., che, appunto, prescinde dall’accertamento del requisito soggettivo della colpa in capo al padrone e/o committente.

Va comunque evidenziato come la riconduzione della rappresentanza apparente al paradigma della responsabilità aquiliana comporti l’assoggettamento dei diritti rivendicati dal terzo al regime della prescrizione quinquennale e, in ogni caso, non elimini il rischio che il dominus possa esonerarsi dall’imputazione, a sé medesimo, degli effetti del contratto controverso, eccependo, ai sensi dell’art. 2058 c.c., che la reintegrazione in forma specifica sia eccessivamente onerosa per il debitore[14]: circostanza, questa, di agevole e frequente verificazione, specialmente in materia immobiliare, atteso che, sotto il profilo economico, il rifiuto del deditore di adempiere la prestazione che il procuratore fittizio ha promesso è determinata, sovente, dal sensibile aumento del costo dei fattori della produzione o dal sopravvenuto stato di decozione dell’impresa.

Al fine di superare tali inconvenienti, si è prospettata l’applicazione, in via analogica ex art. 12 delle preleggi, dell’art. 1396 c.c., il quale, nel sancire l’inopponibilità ai terzi delle modificazioni e della revoca della procura, non pubblicizzate con mezzi idonei, né conosciute dai terzi al momento del perfezionamento nel negozio, potrebbe estendersi, mutatis mutandis, al caso del dominus fittizio che, una volta appreso dell’illegittima spendita del nome da parte di un proprio sedicente procuratore, non si sia prontamente attivato per comunicare ai potenziali contraenti la circostanza in questione.

Naturalmente, l’accoglimento di questa proposta ermeneutica presuppone che all’art. 1396 c.c. non sia attribuita portata eccezionale; a tal riguardo, sia consentito sottolineare che sussistono riferimenti normativi che giustificano l’idea secondo cui la norma in argomento, benché speciale, non debba essere necessariamente relegata al rango di eccezione, se sol si consideri che:

·         il principio della relatività degli effetti negoziali – cui si correla l’inopponibilità a terzi delle vicende modificative ed estintive della procura – è espressamente codificato dall’art. 1372 c.c.;

·         l’introduzione, ad opera del D.Lgs. 17.01.2003, n. 5, dell’art. 2384, comma II, c.c., secondo cui le limitazioni al potere degli amministratori di una società per azioni, anche se pubblicate, non producono effetti nei confronti dei terzi, ferma restando l’esperibilità dell’exceptio doli, testimonia, da un lato, la propensione del diritto vivente a favorire la certezza dei traffici anche al costo di indebolire l’autonomia negoziale e, dall’altro, la prevalenza del principio della dichiarazione sulla signoria della volontà.

Le predette considerazioni offrono, altresì, uno spunto per risolvere la vexata quaestio relativa all’incompatibilità della rappresentanza apparente con i contratti per i quali è prevista la forma scritta ab substantiam, in relazione alla quale la dottrina si è domandata se l’art. 1393 c.c., attribuendo al terzo contraente la possibilità di esigere dal procuratore la giustificazione dei propri poteri rappresentativi, renda, ex se, inescusabile il comportamento del terzo che abbia confidato nella validità della transazione, senza avvalersi della predetta facoltà[15].

Nell’esprimersi in senso contrario a tale prospettiva, l’insegnamento tradizionale evidenzia che, sotto il profilo della ratio legis, l’art. 1393 c.c. intenderebbe favorire il terzo contraente – cui viene assegnata una mera facoltà e non certo un onere – e, conseguentemente, contrasterebbe con lo spirito di tale previsione normativa la pretesa di desumere dalla stessa dei doveri a carico della parte che, al contrario, la legge intende agevolare[16].

Ma, in realtà, se, come sembra, le circostanze dalle quali si può diagnosticare la negligenza del terzo sono tipiche – riconducendosi alla mancata consultazione del registro delle imprese ed all’indifferenza rispetto ai mezzi attraverso i quali il rappresentato ha pubblicizzato la sussistenza e l’ampiezza della procura –, allora, non è possibile rimproverare il terzo contraente per l’inadempimento ad incombenti diversi da quelli espressamente contemplati dall’ordinamento.

Dal punto di vista strettamente psicologico, peraltro, anche a voler intendere l’art. 1393 c.c. come norma istitutiva di un dovere, dalla violazione della stessa non potrebbe automaticamente dedursi una responsabilità colposa, per la quale si richiede, oltre alla oggettiva violazione di una norma precauzionale, la concreta evitabilità e prevedibilità dell’evento lesivo (sub specie, l’errore sulla sussistenza della rappresentanza), la quale ben può escludersi ove le rassicurazioni fornite dal falsus procurator appaiano insospettabili agli occhi di una persona di media diligenza[17].

Il descritto percorso interpretativo è applicabile, viepiù, in materia d’impresa, ove, a mente dell’art. 2207, comma II, c.c., non soltanto la modificazione e la revoca, ma anche la mera limitazione, dei poteri rappresentativi, non può essere opposta aliunde, se non pubblicata nel registro delle imprese ed ignota a terzi.

In quest’ambito, peraltro, come confermato da un obiter dicta contenuto nel lodo in commento, sembra rivitalizzarsi la cd. rappresentanza pura, trovando la deroga al principio della colpa la propria giustificazione razionale e giuridica nel rischio cui l’impresa si espone nella gestione dei traffici commerciali; con la precisazione, però, che tale eccezione va circoscritta al caso in cui, a prescindere dal valido conferimento di poteri rappresentativi, il falsus procurator non sia un soggetto totalmente estraneo alla compagine aziendale, ma rappresenti, comunque e quantomeno, un preposto dell’imprenditore[18].

Alla luce delle predette osservazioni, appare non condivisibile la dissenting opinion espressa nel lodo in oggetto, secondo cui la situazione apparente, per poter comportare il trasferimento, in capo al rappresentato fittizio, degli effetti giuridici discendenti dal contratto, dovrebbe sussistere al momento della conclusione dell’accordo, non potendo, di converso, formarsi in epoca successiva[19].

Infatti, la costruzione giurisprudenziale della rappresentanza apparente non è orientata unicamente a salvaguardare lo stato di soggettiva incolpevolezza del contraente al momento del perfezionamento dell’affare, ma si propone di sanzionare, anche mediante il ristoro in forma specifica, i danni che il rappresentato, nell’assecondare o nell’astenersi dal disconoscere prontamente l’operato del sedicente procuratore, ha cagionato al terzo contraente, attraverso un contegno di mala fede; mala fede che, in quanto tale, può nascere, per ovvie ragioni, anche successivamente alla stipulazione dell’accordo.

Con riferimento al caso di specie, ad esempio, il comportamento adottato dalla società E. apparirebbe censurabile – e, per l’effetto, suscettibile di giustificare l’assoggettamento della stessa al compromesso di vendita – anche allorché K.F., al momento della stipulazione dell’accordo, avesse dubitato della sussistenza della procura, ma, a causa del successivo comportamento della controparte, avesse confidato nella validità dell’affare.

A questo punto, appare legittimo domandarsi se il fenomeno in questione possa essere ricondotto, piuttosto che alla categoria dell’apparenza iuris, a quella – altrettanto consolidata – dell’abuso del diritto.

A tal riguardo, sia consentito rilevare come numerosi indici sintomatici, sia legislativi[20], che di applicazione giurisprudenziale[21], evidenzino la tendenza del nostro ordinamento, specialmente con riguardo al diritto dell’impresa, a sanzionare, anche con il rimedio della nullità, i comportamenti negoziali che, pur muovendosi sul piano formale dell’esercizio di un diritto, si traducano in un abuso del potere contrattuale ai danni del controparte (specie se in posizione di debolezza), o, addirittura, in episodi di emulazione.

Emblematica, a questo proposito, risulta il celeberrimo arresto del Supremo Collegio che ha affermato la sindacabilità, sotto il profilo della correttezza e della buona fede ex artt. 1175-1375 c.c., del recesso ad nutum esercitato alla stregua di una specifica previsione contrattuale che lo consenta, ravvisando nello stesso un inadempimento negoziale allorché presenti i profili tipici degli atti emulativi (riconducibili al cd. animus nocendi) ovvero, nel caso di accertata disparità di forze, la disaffezione per i legittimi interessi della controparte[22].

Orbene, sembra ragionevole predicare che la sottoposizione del dominus putativo all’operato negoziale del falsus procurator possa avvenire – non soltanto ricostruendo, in capo allo stesso, anomali profili di responsabilità, quanto – attraverso la declaratoria di inammissibilità,  perché contraria a buona fede, oltre che al divieto di venire contra factum proprium, dell’eccezione sollevata dal rappresentato, in sede processuale o arbitrale, allo scopo di privare d’efficacia il contratto azionato dal terzo contraente; eccezione, la cui natura, nel proseguo, si tenterà di approfondire ulteriormente.

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