Danno da fumo attivo e pubblicità ingannevole (A.Guida)

DANNO DA FUMO ATTIVO E PUBBLICITÀ INGANNEVOLE

Alessandra Guida

 

I nodi problematici derivanti dal danno da fumo attivo, da anni ormai al vaglio della giurisprudenza, derivano senz’altro dalla crescente diffusione del fenomeno del tabagismo, a cui conseguono i potenziali e ben divulgati danni ad esso connessi. L’analisi circa la natura dei danni provocati dal fumo attivo dovrà necessariamente tener conto della libera autodeterminazione dell’individua che, infatti, liberamente decide di fare uso di sigarette.

Dinanzi a notevoli problematiche poste da tale fenomeno a livello giuridico, sono emersi due orientamenti contrapposti, in cui, ad ogni modo, prevale comunque l’esenzione da responsabilità del produttore di sigarette.

Secondo un primo orientamento, l’attività del tabagismo potrebbe essere ricondotta nel novero delle attività pericolose di cui all’art. 2050 c.c.; valutazione quest’ultima contrastata dalla pronuncia del Tribunale di Roma dell’aprile del 2005, la quale ha negato la riconduzione di tale attività al novero di cui all’art. 2050 c.c. presupponendo che tale norma qualifica come pericolosa l’attività tale per sua stessa natura o per la natura dei mezzi adoperati, da cui possa derivare una rilevante potenzialità offensiva. Ai fini risarcitori è stata, inoltre, negata anche la possibilità di invocare l’art. 2043 c.c., sia perchè l’attività di produzione e vendita delle sigarette è autorizzata dallo Stato, sia perchè non poteva essere affermata, prima della legge n. 428/1990, alcuna violazione da parte del produttore degli obblighi informativi circa la nocività delle sigarette.

L’interruzione del decorso causale tra l’attività del produttore di sigarette e la patologia occorsa alla vittima, conseguente alla eventuale determinazione di un giudizio di colpa, dipende in modo determinante dal comportamento del fumatore.

Il noto caso Stalteri rappresenta, invece, l’unico esempio di qualificazione dell’attività di produzione e vendita di tabacco alla stregua di attività pericolosa, su cui si base il secondo orientamento. Sul caso Stalteri si è pronunciata la Corte d’Appello romana la quale ha sancito, sovvertendo la pronuncia di primo grado, la responsabilità del produttore, affermando in primis la sussistenza del nesso causale, anche alla luce dei principi espressi dalla sentenza Franzese in sede penale, il cui elemento centrale riguarda la definizione dell’attività di produzione di tabacchi come pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c. Il tabacco, trattandosi di un prodotto che, per la sua composizione bio-chimica ha una alta carica di nocività, l’attività del produttore di tabacco rientra tra quelle previste dall’art. 2050 c.c.

Per essere esonerato dalla responsabilità, l’esercente attività pericolosa avrebbe dovuto dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, tra cui rientrerebbe certamente l’informazione a favore del consumatore circa la nocività del prodotto.

La Cassazione nulla ha detto, rispetto alle doglianze dei ricorrenti, circa la problematica del fumo attivo e la relazione tra produttore di tabacchi e consumatore, limitandosi a statuire sul solo profilo del danno un rilevante strumento di tutela dei soggetti danneggiati dal consumo di sigarette, rinvenibile nell’introduzione, con la legge finanziaria del 2008, dello strumento della class action.

Un caso emblematico annesso alle problematiche derivanti dal fumo attivo, è rappresentato dale sigarette “light”. Tale fattispecie è stata posta, in particolare, all’attenzione della giurisprudenza italiana con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 794/2009).

Ed invero, già nell’anno 2003 è stata attuata, mediante il Dlg. n. 184/2003, la Direttiva 2001/37/CE, la quale ha introdotto il divieto di utilizzare diciture, denominazioni, marchi,immagini, o altri elementi che suggeriscano che un particolare prodotto del tabacco è meno nocivo di altri. In particolare, su ogni pacchetto di sigarette deve essere inserita una dicitura che inequivocabilmente esprima la pericolosità per la salute insita nel consumo di tabacco. Risulta, inoltre, vietato utilizzare sui pacchetti diciture quali light, ultra light, mild, oppure altre immagini o diciture potenzialmente ingannatorie rispetto alla reale nocività del prodotto, tanto da indurre un maggiore consumo di tali sigarette, erroneamente ritenute meno dannose. Il D.lgs n. 146/2007, inoltre, ha sancito il rispetto degli stringenti doveri di informazione sulle caratteristiche del prodotto, aggiungendo, dunque, un’ulteriore garanzia al consumatore. La Corte di Cassazione ha poi pronunciato a Sezioni Unite la sentenza n. 794 del 15/01/2009, con cui ha affermato che l’apposizione sulla confezione di un messaggio pubblicitario considerato ingannevole ossia, nel caso oggetto della nostra attenzione, la dicitura “light” su un pacchetto di sigarette, può ex se provocare un nocumento, imponendo all’autore della pubblicità ingannevole di risarcire il soggetto danneggiato, indipendentemente da un preciso divieto di legge rispetto alla dicitura utilizzata. Ed ancora, la Suprema Corte ha affermato che il consumatore che lamenti di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole ed agisca per ottenere il conseguente risarcimento deve dimostrare, non solo la potenzialità ingannatoria del messaggio, ma anche l’esistenza del danno, il nesso di causalità tra pubblicità e danno, nonché la colpa di chi ha diffuso la pubblicità. (Cass. Civ. Sez. Un., 15 gennaio 2009, n. 794).

  

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