I presupposti di applicazione delle astreintes ex art. 614-bis c.p.c. (S. Campedelli)

B. Il tipo di obbligazioni soggette al rimedio della coercizione indiretta.

Innanzitutto, è largamente condivisa la convinzione che le astreintes possano impiegarsi soltanto per favorire l’attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare, benché tale limitazione, contenuta nella rubrica dell’art. 614-bis, non venga riprodotta nel testo della norma[16].

Simile posizione interpretativa non sembra smentita dal brocardo rubrica non facit legem (ovvero rubrica non est lex)[17], non soltanto perché tale principio non riceve un consenso universale[18], ma specialmente in ragione della collocazione della norma al termine del titolo IV, dedicato, appunto, all’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare[19]. Anzi, l’art. 614-bis sembra porsi in contrapposizione dialettica con l’art. 612 c.p.c., il quale regola l’attuazione coattiva degli obblighi fungibili, previa determinazione, da parte del Giudice, delle loro modalità d’esecuzione[20].

Non si dimentichi, poi, come il rimedio in esame sia stato configurato quale extrema ratio avverso i casi in cui il pervicace rifiuto del debitore di adempiere spontaneamente le proprie obbligazioni non possa essere superato, quantomeno nella sua integralità o, comunque, senza investimenti eccessivamente onerosi, da alcuna azione di esecuzione in forma specifica.

Senza tralasciare di considerare, infine, come l’art. 614-bis introduca una pena privata, la quale, proprio perché contrastante con il summenzionato principio generale dell’integralità del risarcimento del danno, non può che essere destinataria di un’interpretazione restrittiva[21].

Pare legittimo affermare, dunque, che le obbligazioni di fare squisitamente fungibili non soggiacciano alla previsione legislativa in questione, muovendo l’interpretazione alternativa da una ingiustificata devalutazione di elementi altamente sintomatici della volontà legislativa, come l’ubicazione topografica della norma, nonché l’inequivocabile formulazione della sua stessa rubrica.

Altra problematica di stretta esegesi concerne la riconducibilità alla norma in argomento degli obblighi di non fare fungibili, se è vero che, persino nella stessa rubrica, il termine “infungibile” viene accostato alle sole obbligazioni positive.

La domanda risulta più che ragionevole, atteso che il principio interpretativo ubi lex volui dixit ubi noluit tacuit, valendo in termini generali (salvo, ovviamente, il ricorso all’integrazione analogica), presenterà, a maggior ragione, una primaria importanza nell’individuazione del significato della rubrica[22].

A favore della limitazione del requisito dell’infungibilità alle sole prestazioni positive milita, oltre al dato puramente letterale, la circostanza che i doveri di non fare, per un certo verso, sono ontologicamente incoercibili, atteso che soltanto le conseguenze materiali della loro rimozione possono essere rimosse, mentre la lesione originaria del diritto soggettivo, singolarmente considerata, una volta prodotta, non può più essere eliminata. Si pensi, ad esempio, all’usurpazione del nome: una volta accertata, anche solo sommariamente, potranno coattivamente obliterarsi tutte le fonti in cui l’usurpazione si è manifestata, ma non si potranno certamente elidere i danni di natura non patrimoniale immediatamente arrecati dall’abuso[23].

Di converso, si è evidenziato come, nell’ipotesi di violazione degli obblighi di fare fungibili, il provvedimento richiesto dal danneggiato si risolverà inevitabilmente – non già in un’inibitoria, bensì – in una condanna ad un facere, ossia la ricostituzione dello status quo ante all’illecito o all’inadempimento[24]. In altri termini, soltanto nel caso di prestazioni negative infungibili, la condanna pretesa dal creditore vieterà il compimento di un’azione, atteso che, in ipotesi di fungibilità, al debitore verrà semplicemente ingiunta l’eliminazione di quanto illegittimamente realizzato.

Inoltre, rappresentando il fulcro dell’intervento legislativo, il limite dell’infungibilità va apprezzato quale fondamentale criterio d’interpretazione dell’art. 614-bis, suscettibile di applicazione generale. In altri termini, essendo palese l’intento del legislatore (forse determinato da un’eccessiva diffidenza verso gli strumenti compulsori, ma non certo censurabile sotto il profilo della ragionevolezza[25]) di condizionare l’applicabilità dell’art. 614-bis all’impossibilità di esperire fruttuosamente le tradizionali azioni esecutive, secondo tale impostazione, non vi sarebbe ragione di ammettere l’astreinte quando il creditore possa comunque ottenere la soddisfazione dei propri diritti attraverso i rimedi ordinari, soltanto perché, a monte, è stato violato un obbligo di astensione[26].

Quest’ultima eccezione, tuttavia, sembra incorrere in un equivoco nella misura in cui confonde la infungibilità del dovere d’astensione originariamente imposto al debitore, con la fungibilità delle obbligazioni che potrebbero conseguire alla sua violazione. Si intende rilevare, in sostanza, che la prestazione negativa dell’obbligato conserva la sua integrale infungibilità ogniqualvolta la situazione materiale anteriore all’inadempimento non possa essere integralmente e perfettamente ripristinata, a prescindere che i mezzi parzialmente ripristinatori possano essere eseguiti dal solo debitore oppure anche dal creditore o da un terzo. In altri termini, occorre distinguere fra gli obblighi fungibili primari (direttamente discendenti dalla norma di diritto sostanziale, ad esempio il divieto di sopraelevare) dagli obblighi fungibili secondari (generati dall’inosservanza della prescrizione, come il dovere di demolire l’opera illegittimamente edificata)[27]: soltanto il primo, stante la sua strutturale incoercibilità (se non attraverso un’inammissibile limitazione della libertà personale), può essere rafforzato dalla minaccia dell’astreinte, rimanendo affidata l’osservanza dei secondi all’attuazione coercitiva diretta ex art. 612 c.p.c.[28].

L’unico arresto giurisprudenziale, che, sino a questo momento, si è pronunciato sul punto, ha propeso a favore della prima soluzione, argomentando, in maniera forse eccessivamente ermetica, che “per gli obblighi di non fare la tutela è prevista in via generale, prescindendo, cioè, dalla infungibilità[29]. Più precisamente, in quella sede, accertato il diritto alla servitù prediale di passaggio dell’attore, il cui esercizio era stato illegittimamente turbato dal convenuto, a quest’ultimo veniva ordinata la cessazione delle molestie, condannandolo preventivamente al pagamento della somma di € 200,00 per ciascun atto di disubbidienza al provvedimento interdittivo.

Ancor più ricco è il dibattito circa la definizione della nozione d’infungibilità, predicata in capo a due categorie di obbligazioni, corrispondenti alle prestazioni assunte intuitu personae ed a quelle insuscettibili di essere attuate da soggetti diversi dal debitore medesimo.

Può affermarsi, in sostanza, come il requisito dell’infungibilità sia riscontrabile ogni volta che, nell’esecuzione della prestazione, le qualità personali dell’obbligato si rivelino imprescindibili allo scopo di soddisfare l’interesse del creditore dedotto in obbligazione. Orbene, l’identità della persona tenuta ad eseguire la prestazione può considerarsi essenziale sia a causa di una necessità naturalistica[30], sia perché reputata tale dalle determinazioni negoziali intercorse fra le parti[31]. Con riguardo a quest’ultima possibilità, non si rinvengono ostacoli acché sia lo stesso contratto a stabilire (nel rispetto, s’intende, dei limiti entro i quali l’autonomia negoziale può esplicarsi) se ed in che misura l’individualità di uno o più dei contraenti sia da reputarsi insostituibile per la realizzazione dell’assetto d’interessi concordato. Militano in questo senso numerose fonti testualmente presenti nel tessuto del codice civile, quali, ad esempio:

a)                           l’art. 1260, comma I, c.c., il quale permette ai contraenti di escludere la cessione dei rispettivi crediti, benché privi di carattere strettamente personale;

b)                           l’art. 1180, comma II, c.c., per cui il creditore può rifiutare la prestazione del terzo su richiesta del debitore inadempiente;

c)                            l’art. 1944, comma II, c.c., che esonera il debitore dalla sostituzione del fideiussore insolvente, ove quest’ultimo sia stato cooptato dal creditore medesimo.

Un’ulteriore conferma di questo assunto proviene dall’art. 2932 c.c., il quale, disponendo, in materia di obblighi a contrarre, che la sentenza non possa produrre gli effetti del contratto non concluso qualora ciò sia escluso dal titolo, sembra affermare la natura ontologicamente surrogabile del consenso negoziale, al contempo riconoscendo alle parti il potere di sancirne l’infungibilità o, comunque, vietarne l’esecuzione in forma specifica a mezzo dell’intervento giudiziale[32].

È proprio l’inadempimento all’obbligo di contrarre nascente dal preliminare che, ad avviso di insigne dottrina, rappresenterà il terreno fertile per la sperimentazione delle astreintes, in ragione della predicata cumulabilità fra queste ultime e la sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., suscettibile di essere eseguita soltanto una volta acquisita l’autorità di cosa giudicata[33].

L’Autore, pertanto, sembra intendere il presupposto dell’infungibilità in termini relativi, ritenendolo sussistente ogniqualvolta il diritto sostanziale non possa essere perfettamente realizzato mediante l’esecuzione della sentenza che irroga l’astreinte[34]. In altre parole, la prestazione del consenso non sarebbe prettamente fungibile perché la sentenza di primo grado non è idonea a permettere il trasferimento della proprietà, sicché la coercizione trova la propria ragion d’essere nell’esigenza del creditore di ottenere l’immediata soddisfazione del proprio diritto, senza attendere la formazione del giudicato[35].

Non può negarsi, tuttavia, come la somministrazione della sanzione pecuniaria, se orientata a stimolare la conclusione del definitivo, susciti non trascurabili perplessità, giacché la forza propulsiva esercitata dalla medesima potrebbe compromettere la libertà del consenso, sino al punto da giustificare l’annullamento, per violenza morale, del contratto concluso sotto la minaccia della astreinte sancita da una sentenza poi revocata nei successivi giudizi di gravame.

In questo contesto, occorre verificare se la minaccia di far valere il comando contenuto in una sentenza possa considerarsi diretta a conseguire un vantaggio ingiusto, idoneo, ai sensi dell’art. 1438 c.c., ad invalidare il contratto[36]. Al riguardo, sembra doversi optare per una risposta negativa, atteso che la summenzionata disposizione normativa è soggetta ad un’interpretazione rigorosamente restrittiva, se non altro in ragione dell’avverbio “solo” cui è associata la minaccia di far valere diritti per conseguire vantaggi ingiusti. Il ché, alla stregua della più autorevole giurisprudenza, si verifica quando il fine ultimo perseguito dal contraente si traduca nella realizzazione di un risultato che, “oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto medesimo, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto all’oggetto di quest’ultimo, e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall’ordinamento[37].

E l’attuazione di un diritto sostanziale, come accertato all’esito del processo dichiarativo, mediante gli strumenti di coercizione indiretta accordati dalla legge, rappresenta, a sua volta, il contenuto del diritto processuale, autonomo ed astratto, all’esercizio dell’azione esecutiva, sindacabile soltanto in ragione del mancato impiego, da parte del creditore esecutante, della normale prudenza ex art. 96, comma II, c.p.c.[38].

Si noti, a questo proposito, come la più accreditata teoria generale del processo civile, mutuando i modelli forgiati dalla riflessione dottrinale tedesca, abbia dimostrato l’autonomia del diritto all’azione rispetto al diritto sostanziale con la stessa rivendicato. Sicché la minaccia di far valere l’astreinte, se inserita nel contesto di un’azione esecutiva (ad esempio, perché manifestata mediante la notificazione del precetto), costituendo, si ripete, un diritto a sé stante, non potrà verosimilmente integrare una violenza tale da determinare l’annullamento del contratto definitivo stipulato sub poena dal contraente soccombente, nemmeno qualora la sentenza che tale astreinte ha disposto sia stata revocata o annullata nei successivi gradi di giudizio. Né potrebbe invocarsi una responsabilità extracontrattuale, proposta nelle forme della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., ossia attraverso la richiesta di rimozione del contratto viziato, atteso che l’esercizio dell’azione esecutiva da parte della parte vittoriosa, se assistita dalla normale prudenza, sostanzia l’oggetto di un diritto soggettivo, tale da obliterare, ai sensi dell’art. 51 c.p., qualsivoglia profilo di antigiuridicità.

Pertanto, non può affatto escludersi che l’estensione della pena pecuniaria alla materia degli obblighi a contrarre possa provocare la conclusione di contratti che, sebbene affetti da manifesti vizi del consenso (con riguardo alla parte ingiustamente gravata da una sentenza poi riformata), risultino impermeabili a qualunque tentativo di annullamento[39].

È sì vero che il Giudice d’appello, adito in sede cautelare ex art. 283 c.p.c., potrebbe apprezzare tale rischio quale grave e fondato motivo idoneo a giustificare la sospensione della provvisoria esecutività della sentenza impugnata, evitando, in questa maniera, che l’accoglimento del gravame conduca ad esiti paradossali e difficilmente sostenibili sotto il profilo della giustizia sostanziale.

Ciò, tuttavia, non scongiura totalmente il pericolo in questione, ben potendo la sentenza definitiva del giudizio d’appello giungere a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quanto sommariamente accertato nella parentesi cautelare ex art. 283 c.p.c.[40]; senza contare, poi, che, qualora l’astreinte sia irrogata unitamente alla sentenza di secondo grado, la parte soccombente incontrerebbe notevoli difficoltà ad ottenere l’inibitoria della sua provvisoria esecutività, essendo quest’ultima condizionata al tangibile pericolo di un grave ed irreparabile danno ex art. 373 c.p.c.[41].

Pertanto, l’irrogazione della penalità pecuniaria, se orientata a promuovere l’adempimento dell’obbligo a contrarre, sembrerebbe incontrare un insormontabile ostacolo nel limite della non manifesta iniquità di cui all’art. 614-bis, comma II, c.p.c..

L’unico espediente che i Giudici potrebbero impiegare per superare tale divieto parrebbe l’inserimento, nel contratto definitivo di cui si intende ordinare la stipulazione, di una condizione risolutiva consistente nella revoca della sentenza dispositiva delle penalità di more. In questo senso, il contraente, ove persuasosi a concludere il definitivo sull’onda emotiva delle penalità pecuniarie allo stesso irrogate per l’ipotesi di inottemperanza al comando giudiziale potrebbe confidare nella caducazione del contratto, con effetti retroattivi, a seguito dell’accoglimento dei propri mezzi di impugnazione[42].

Va puntualizzato, in ogni caso, come, qualora la parte adempiente si sia limitata a chiedere la pronuncia costitutiva, la penalità non possa essere comminata, potendo la stessa, per espressa previsione dell’art. 614-bis, disporsi soltanto unitamente a provvedimenti di condanna. D’altro canto, l’omessa formulazione di una domanda volta ad ottenere la condanna della controparte alla stipulazione del definitivo può legittimamente apprezzarsi quale manifestazione di un disinteresse a conseguire l’immediato trasferimento della proprietà e, conseguentemente, la superfluità delle penalità pecuniarie.

Se la manifestazione del consenso rappresenterà, verosimilmente, l’ambito in cui si soffermerà maggiormente la riflessione giurisprudenziale sul concetto di fungibilità, stante la frequenza con la quale l’esecuzione in forma specifica del preliminare non concluso non risulta possibile, una certa rilevanza pratica possiede anche la tematica degli obblighi eseguibili soltanto attraverso la cooperazione di un terzo, come avviene per quanto concerne il dovere del venditore, ex art. 1477, comma III, c.c., di consegnare al compratore il certificato di abitabilità dell’edificio alienato, certificato ottenibile soltanto con la cooperazione dell’Autorità amministrativa: in questo caso, si riscontra una certa uniformità di vedute nel ritenere infungibile la prestazione, sottraendola dall’imperio dell’art. 614-bis[43].

È lecito immaginare, poi, che l’innovazione legislativa di cui si discute possa sopperire a numerose problematiche sollevate in sede d’interpretazione e d’applicazione dell’art. 9 della legge 18.06.1998, n. 192, con particolare riguardo alle sanzioni irrogabili a fronte dell’indebito rifiuto di vendere o di comprare manifestato dall’impresa in posizione dominante nei confronti del subfornitore o, comunque, del distributore dei prodotti realizzati dalla prima[44]. Infatti, anche qualora il rifiuto si riveli immotivato, se non addirittura emulativo, al ricorso all’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. sono state opposte significative resistenze, non potendo il Giudice conoscere la concreta formulazione del contratto che, in difetto d’abuso, i contraenti avrebbero stipulato, salvo che il contenuto dello stesso non sia ricavabile aliunde, ad esempio dai formulari seriali precedentemente sottoscritti[45]. Onde per cui è ragionevole supporre che l’art. 614-bis si presti a colmare tale vuoto di tutela, agevolando, peraltro, la realizzazione di interessi pubblici, come, in special modo, la creazione di un mercato effettivamente libero e trasparente[46].

Parimenti, l’adozione dell’astreinte potrebbe rappresentare un saggio contemperamento fra valori potenzialmente contrapposti, quando la prestazione di non fare, benché fungibile, non possa essere attuata coattivamente se non ledendo (o, comunque, esponendo a serio repentaglio) beni di rilevanza costituzionale, come, ad esempio, la libertà di stampa[47].

Così, la vendita sottocosto di quotidiani, se espressione del fenomeno del dumping e, dunque, censurabile ex art. 2598, n. 3, c.c., potrebbe essere combattuta, anche in sede cautelare, mediante la somministrazione delle pene pecuniarie, senza emettere dei provvedimenti inibitori, che potrebbero, magari anche solo indirettamente, comprimere la libertà di manifestazione del pensiero.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here